giovedì 12 giugno 2014

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Le teorie dell’intelligenza e le implicazioni pedagogiche

Le abilità innate possono essere definite come capacità potenzialmente presenti dalla nascita, che permettono l’acquisizione di apprendimenti complessi. Si può pensare ad abilità geneticamente predeterminate o a predisposizioni ad apprendere nei più diversi ambiti. Nel caso si pensi ad abilità geneticamente predeterminate, i limiti vengono concepiti come strutturali: alcuni nonostante l’impegno, le strategie e la motivazione non riusciranno mai ad andare oltre un certo livello prefissato (si può fare l’esempio del ritardo mentale). La seconda posizione, invece, postula che chiunque con un approccio corretto al compito, dal punto di vista strategico e motivazionale, e un adeguato sostegno sociale può sviluppare le proprie capacità.
Le due visioni delle abilità innate hanno profonde ripercussioni sulla motivazione: se queste abilità sono predisposizioni ad apprendere che possono essere sviluppate, lo studente può sperare di migliorare il proprio rendimento scolastico mediante l’impegno o efficaci strategie di studio (motivazione alla riuscita); al contrario, se si pensa che le abilità siano rigidamente determinate lo studente arriverà ad evitare situazioni in cui rischia di mostrarsi poco abile, giungendo facilmente a situazioni d’ansia e di calo della motivazione. Le relazioni fra abilità e motivazione risentono quindi del modo in cui le abilità sono concepite, più che dell’effettivo livello di capacità.
L’abilità “innata” che ha sicuramente maggiore peso nel contesto scolastico è l’intelligenza. Sappiamo quanto sia problematica una definizione dell’intelligenza e come sia difficile stabilire fino a che punto sia innata o acquisita in base alle esperienze. Nel saggio L’intelligenza di C. Cornoldi (2007) troviamo le seguenti considerazioni:

…in che misura la nostra intelligenza dipende da fattori innati e in che misura dalla esperienze? Questo dibattito viene espresso in lingua inglese con un quesito molto semplice: "nature o nurture?", "dotazione biologica o effetto dell’esperienza e dell’educazione?"; che si presta, in realtà, a diverse interpretazioni e a differenti risposte. (…) si è fornita una stima di ereditabilità per l’intelligenza attorno al 70% e una molto più bassa per altri tratti, come la propensione alla religiosità, l’interesse per gli avvenimenti sportivi, ecc. I valori di ereditabilità forniti sull’intelligenza sono quindi elevati e fanno propendere attualmente l’ago della bilancia dalla parte degli innatisti, di coloro cioè che ritengono che l’intelligenza sia innata.
Nella storia dello studio dell’ereditarietà dell’intelligenza, si assiste in questo modo a corsi e ricorsi. Infatti uno dei più classici studi sull’argomento, quello di Galton (1869), con un titolo più che illustrativo Hereditary Genius, sosteneva che la genialità era sostanzialmente ereditaria…Il modo di procedere di Galton aveva forme di ingenuità che la moderna genetica ha del tutto superato. Fino a che punto il figlio di un valente pittore diventa pure un grande pittore per il fatto che ne ha ereditato il talento innato, e fino a che punto deve al padre le opportunità che gli ha dato di sviluppare sin da bambino sensibilità e tecniche idonee? Esperienze appropriate, fin dai primi anni di vita, possono in effetti dirigere una persona verso una certa manifestazione dello spirito, educarne il gusto e le capacità espressive… si può pensare che per sviluppare elevate abilità intellettive l’individuo deve avere avuto le stimolazioni idonee. Riflettiamo su alcune di queste stimolazioni idonee…Se la stimolazione fetale non è ottimale, così come accade ai prematuri, lo sviluppo intellettivo può risentirne. Più clamorose sono le conseguenze sullo sviluppo della persona (intelligenza compresa) dal fatto di subire forti deprivazioni di stimolazione nei primi anni di vita. Un bambino può anche essere geneticamente dotato, ma – se nei primi anni di vita non riceve le opportune stimolazioni che ricevono normalmente la gran parte dei bambini- il suo sviluppo intellettivo ne risente. (pp 124-127)


Dal punto di vista del successo scolastico, è di particolare importanza la teoria dell’intelligenza di cui insegnanti e studenti dispongono. Con il termine "teoria dell’intelligenza" ci si riferisce a come l’intelligenza viene interpretata, quali che siano i contenuti. È possibile distinguere tra teorie esplicite e teorie implicite dell’intelligenza. Le teorie esplicite fanno riferimento ai risultati che provengono dall’applicazione dei test d’intelligenza e si possono raggruppare in tre tipologie: teorie unitarie, che postulano un fattore unitario nelle diverse manifestazioni dell’intelligenza (il fattore G); teorie multiple che mettono l’accento su alcune forme fondamentali di intelligenza (Sternberg parla di tre forme di intelligenza – analitica, pratica e creativa-; Gardner, invece, ha proposto sette diverse forme di intelligenza -linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporea, intrapersonale, interpersonale-); teorie gerarchiche che cercano di mettere insieme teorie unitarie e multiple, prendendo in considerazione sia abilità di livello generale con funzioni di controllo, gerarchicamente superiori, sia abilità più specifiche.
Per un insegnante, approfondire il tema delle teorie esplicite dell’intelligenza, può avere una ricaduta importante sulle modalità didattiche utilizzate e sulle diverse proposte formative rivolte agli studenti. Ad esempio, l’insegnante che fa propria la teoria delle intelligenze multiple di Gardner potrà utilizzare durante le lezioni non solo il linguaggio verbale, che fa riferimento all’intelligenza linguistica, ma anche supporti visivi che possono facilitare l’intelligenza spaziale. Oppure, utilizzando la prospettiva delle tre intelligenze proposte da Sternberg, un insegnante potrà affrontare uno stesso tema in modo diversificato. Così, ad esempio si rivolgerà all’intelligenza analitica facendo confrontare la teoria dei sogni di Freud con quella di Crick; all’ intelligenza creativa chiedendo la messa a punto di un esperimento per testare la teoria dell’interpretazione dei sogni; all’intelligenza pratica chiedendo quali sono le implicazioni che ha avuto nella propria vita la teoria dell’interpretazione dei sogni di Freud (esempio ripreso da Sternberg).

La teoria triarchica dell’intelligenza umana può trovare applicazione immediata all’interno di una classe. La sua applicazione è comunque differente da quella di altre teorie sulle intelligenze multiple, come quella di Gardner. Quest’ultima identifica ambiti differenziati del talento intellettivo. Così, suggerisce la presenza di ambiti o campi dell’attività umana che noi dovremmo inserire nel nostro curriculum, come la musica o la psicomotricità. La teoria triarchica, invece, specifica gli utilizzi della conoscenza umana (cioè per intenti analitici, creativi o pratici). Infatti essa si applica a ogni area e a ogni argomento. (Sternberg, Swerling 1997:72)


Le teorie implicite dell’intelligenza crediamo, però, abbiano un peso ancor maggiore dal punto di vista del successo scolastico. Le teorie implicite si basano sul concetto d’intelligenza posseduto dalle singole persone e si possono distinguere in due tipi: l’intelligenza come entità o l’intelligenza dell’accrescimento o incrementale. Nel primo caso l’intelligenza è concepita come un insieme di abilità difficilmente modificabili per effetto delle esperienze e degli apprendimenti ( si può parlare di teorie implicite innatiste). Nel secondo caso, invece, si ritiene che l’intelligenza possa essere modificata, in genere positivamente, mediante opportune stimolazioni (teoria implicita empirista).
Lo studente che concepisce l’intelligenza come entità e percepisce un basso livello di abilità nello svolgimento dei compiti si sentirà impotente ed eviterà le situazioni impegnative o che richiedono uno sforzo prolungato (“Non riesco, non sono capace, sono poco intelligente!”). Al contrario chi ha lo stesso tipo di teoria ma percepisce un buon livello di abilità sarà portato a cercare situazioni di apprendimento sfidanti per poter dimostrare le proprie abilità.
Chi concepisce l’intelligenza non come entità fissa, ma come qualcosa di modificabile sarà maggiormente motivato ad impegnarsi per l’apprendimento e la crescita.

L’importanza della teoria dell’intelligenza risiede negli effetti che questa produce sull’apprendimento. In particolare, una teoria dell’intelligenza come accrescimento sostiene l’apprendimento e produce differenze in positivo sulle effettive prestazioni nei seguenti casi:
• di fronte agli insuccessi, che non vengono vissuti come dimostrazione di scarse abilità, ma come indice di un impegno insufficiente o non adeguato. Tale interpretazione è particolarmente funzionale all’apprendimento, in quanto consente di mantenere positive aspettative di riuscita, nonostante i precedenti fallimenti;
• quando l’ambiente scolastico pone richieste impegnative che inducono lo studente ad affrontare compiti lunghi e difficili in cui le proprie abilità vengono messe alla prova, con il rischio di fallire, ma anche con la possibilità di imparare;
• nel passaggio dall’uno all’altro livello scolare per cui studenti che possiedono una teoria incrementale tendono a migliorare rispetto alle prestazioni precedenti, indipendentemente dall’effettivo livello di queste, mentre coloro che possiedono una teoria dell’entità tendono a mantenere i livelli preesistenti… (De Beni, Moè 2000:136-137)

Quindi chi possiede una teoria incrementale tende a migliorare continuamente fino ad ottenere prestazioni superiori rispetto a chi possiede una teoria dell’entità.
Dal punto di vista degli insegnanti, disporre di una teoria implicita dell’intelligenza come entità o al contrario di una teoria incrementale, può determinare effetti considerevoli sui risultati nei processi di insegnamento-apprendimento. Se l’insegnante ha una teoria implicita innatista, sarà portato a dedicare poco tempo e poche attenzioni a coloro che vengono valutati come “poco intelligenti”: in questo caso, infatti, si è convinti che l’impegno (sia da parte dell’insegnante sia da parte dello studente) non puo’ influire sui risultati. Si sarà, quindi, portati ad investire le proprie energie con gli studenti più promettenti.
Un meccanismo di questo tipo è stato studiato alla fine degli anni ’60 dagli psicologi Rosenthal e Jacobson, che definirono questo fenomeno come effetto Pigmalione. Pigmalione era il mitico re di Cipro che, secondo la leggenda, scolpì una statua di donna e poi se ne innamorò, al punto da desiderare che essa si animasse. Afrodite lo accontentò e la statua prese vita… Per Rosenthal e Jacobson succede qualcosa di simile nel rendimento scolastico dei ragazzi, che, secondo le loro ricerche, è fortemente influenzato dalle aspettative degli insegnanti. Per verificare la loro ipotesi Rosenthal e Jacobson condussero delle ricerche in una scuola di un quartiere malandato di San Francisco.

All’inizio dell’esperimento, nel 1964, dicemmo agli insegnanti che avevamo bisogno di convalidare un nuovo tipo di test costruito per predire il rendimento scolastico o i progressi intellettuali dei bambini…Nel maggio del 1964 gli insegnanti somministrarono il test a tutti i bambini della scuola materna e dal primo al quinto anno della scuola elementare…Prima che la Oak School riaprisse, nel mese di settembre, circa il 20% dei bambini erano stati da noi scelti e definiti <>… I nomi dei venti bambini erano stati scelti a caso. Il trattamento sperimentale dei bambini non consisteva che nel dare i loro nomi ai loro nuovi insegnanti indicandoli come allievi dai quali ci si poteva spettare dei progressi eccezionali nello sviluppo intellettuale durante l’anno. Di conseguenza, la differenza fra questi ei bambini <>, che costituivano il gruppo di controllo, era interamente e solo nella testa degli insegnanti.
A tutti i bambini fu somministrato di nuovo lo stesso test quattro mesi dopo l’inizio della scuola, al termine dell’anno scolastico e nel mese di maggio dell’anno seguente….I risultati indicarono che i bambini dai quali gli insegnanti si aspettavano maggiori progressi nello sviluppo intellettuale fecero realmente questi progressi.

La spiegazione di questo fenomeno sta, secondo gli autori, nel fatto che gli insegnanti avrebbero interagito con i bambini “dotati” in modo diverso, comunicandogli anche in modo non verbale (tono di voce, espressioni facciali, posizioni del corpo) le loro aspettative, seguendoli con più attenzione e fornendo incoraggiamenti. I bambini, dal canto loro, reagendo di conseguenza, hanno modificato il proprio impegno, ma anche l’immagine di sé e il livello dei propri obiettivi.
Gli insegnanti coinvolti nell’esperimento, quindi, a livello perlopiù inconscio, hanno offerto maggiore attenzione e un certo numero di feed back non verbali agli studenti che, sulla base dei test di intelligenza, avevano più probabilità di successo. È il meccanismo noto come profezia che si autoadempie: ciò che si crede avverrà, avviene davvero. Ma le aspettative sono, nel caso degli insegnanti, in relazione alla teoria implicita dell’intelligenza: per l’insegnante che dispone di una teoria innatista, ogni sforzo con un ragazzo “deficiente” sarà inutile; così per evitare la frustrazione di un fallimento, sarà portato a dedicare più attenzione a colui che reputa “intelligente”. L’insegnante che dispone di una teoria incrementale, al contrario, avrà un diverso atteggiamento con chi parte da situazioni scolastiche più difficili, perché attribuisce valore all’impegno e alle esperienze di apprendimento.