sabato 26 ottobre 2013

STUDENTI CON DSA E LA DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA-PERSONALIZZATA


L’attenzione alle differenze di ciascun studente, all’interno di un gruppo classe, è una via percorribile e, allo stesso tempo, auspicabile? La crescente complessità nella composizione della popolazione studentesca sollecita la riflessione pedagogica su questo tema.
Oggi, infatti, le nostre aule scolastiche sono frequentate da studenti disabili (certificati come tali ai sensi della legge 104), studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (segnalati come tali ai sensi della legge 170), studenti con Bisogni Educativi Speciali (che possono fruire delle stesse facilitazioni degli studenti con DSA), studenti demotivati o ripetenti…
Partiamo dalla legge 170/10 (art.2) che prevede, per favorire il successo scolastico degli studenti con DSA, adeguate misure educative e didattiche di supporto e l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata. Cosa si intende per didattica individualizzata e personalizzata? Per provare a dare una risposta, partiamo dal significato di “individualizzato” e di “personalizzato” proposto dalle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento del 2011:

“Individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo, anziché sull’intera classe o sul piccolo
gruppo, che diviene “personalizzato” quando è rivolto ad un particolare discente.
Più in generale - contestualizzandola nella situazione didattica dell’insegnamento in classe -
l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe,
ma è concepita adattando le metodologie in funzione delle caratteristiche individuali dei discenti,
con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento delle competenze fondamentali del curricolo,
comportando quindi attenzione alle differenze individuali in rapporto ad una pluralità di dimensioni.
L’azione formativa personalizzata ha, in più, l’obiettivo di dare a ciascun alunno l’opportunità
di sviluppare al meglio le proprie potenzialità e, quindi, può porsi obiettivi diversi per ciascun
discente, essendo strettamente legata a quella specifica ed unica persona dello studente a cui ci
rivolgiamo.
(Linee Guida, pag. 6)

Da questo primo passaggio, possiamo desumere che l’ individualizzazione è l’ azione formativa orientata al conseguimento di obiettivi comuni mediante metodologie didattiche adattate “a misura” delle caratteristiche individuali degli studenti; mentre la personalizzazione è l’azione formativa che intende promuovere lo sviluppo delle potenzialità proprie dei singoli studenti, e per questo motivo persegue obiettivi diversi per ciascun studente. In altri termini, si può dire che l’individualizzazione intende garantire l’uguaglianza delle opportunità formative e la parità di esiti rispetto alle competenze fondamentali, mentre la personalizzazione risponde alla necessità di valorizzare i talenti individuali (esigenza tipica nella modernità delle società liberali anglosassoni).

Vediamo ora la definizione di didattica individualizzata e personalizzata proposta dalle Linee Guida.

La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere
l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire specifiche competenze, anche nell’ambito
delle strategie compensative e del metodo di studio; tali attività individualizzate possono essere
realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse dedicati, secondo tutte le
forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla normativa vigente.
La didattica personalizzata, invece, anche sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e
nel Decreto legislativo 59/2004, calibra l’offerta didattica, e le modalità relazionali, sulla specificità
ed unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe,
considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo; si può favorire, così,
l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo sviluppo consapevole delle sue ‘preferenze’
e del suo talento. Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica
personalizzata si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche,
tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori
didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la calibrazione
degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un apprendimento
significativo.
La sinergia fra didattica individualizzata e personalizzata determina dunque, per l’alunno e lo
studente con DSA, le condizioni più favorevoli per il raggiungimento degli obiettivi di
apprendimento.
(Linee guida, pp. 6-7)

Vediamo di tradurre in altri termini queste indicazioni. La didattica individualizzata, focalizzata sul raggiungimento di alcuni obiettivi di apprendimento comuni alla classe, si pone il problema di come farli raggiungere allo studente DSA. Se, quindi, l’obiettivo comune per tutti gli studenti della classe è “leggere e comprendere un testo narrativo”, la didattica individualizzata in favore di uno studente DSA è quel processo che promuove l’adozione di una strategia di studio efficace per la comprensione del testo oppure l’utilizzo competente di un software di sintesi vocale per la lettura del testo. La didattica personalizzata, invece, è quella didattica che punta ad accrescere i punti di forza dello studente DSA. Dal momento che lo stile di apprendimento preferito dagli studenti DSA è quello visivo-non verbale, didattica personalizzata è quella che favorisce il Visual Learning (apprendimento basato sulla memoria visiva), ad esempio con l’uso di mappe concettuali multimediali o l’insegnamento di mnemotecniche per immagini.

Siamo entrati, in modo non casuale, nel tema del metodo di studio, che, come afferma C. Cornoldi in un suo articolo sulla rivista Dislessia, rappresenta per gli studenti DSA il primo e più importante strumento compensativo.

Quando viene accertata una condizione di dislessia, c’è sostanziale accordo tra
utenti (pazienti e loro genitori) e clinici sul fatto che da subito debbano essere utilizzati
strumenti compensativi e dispensativi per favorire l’apprendimento scolastico nonostante
l’inefficienza della lettura strumentale…
Lo scopo di questo articolo è quello di dimostrare perché un metodo di studio, che
tenga conto della scarsa efficienza di lettura, debba essere considerato un fondamentale
strumento compensativo eventualmente da affiancare a tutti gli altri, tecnologici e didattici,
indicati nei documenti citati…
Perché uno studente con dislessia ha bisogno di un efficiente metodo di studio?
Sostanzialmente perché rispetto ai suoi coetanei normolettori non può permettersi di
adottare il metodo di studio più diffuso che consiste nel leggere più volte il materiale da
studiare, da cui poter eventualmente ricavare riassunti o schemi scritti più o meno ricchi
di contenuti, da rileggere prima delle verifiche. La sua difficoltà di lettura gli rallenterebbe
non solo i tempi, ma lo affaticherebbe e gli renderebbe precari i processi di comprensione
ed elaborazione del testo.

Ora, a pensarci bene, il lavoro metacognitivo sul metodo di studio è un lavoro di carattere transdisciplinare che potrebbe essere utilmente rivolto a tutta la classe. Gli insegnanti, infatti, normalmente si lamentano delle lacune o insufficienze del metodo di studio dei propri studenti, senza però progettare un percorso finalizzato al miglioramento del loro metodo di studio.
La riflessione e il lavoro sui bisogni educativi speciali,così, acquista senso quando permette di identificare nuclei di conoscenze-competenze importanti per ciascuno degli studenti e di costruire percorsi didattici mirati. Rimanendo all’esempio del metodo di studio, la conoscenza-apprendimento di strategie efficaci nelle diverse fasi dello studio (dalla fase della prelettura a quella della memorizzazione) rappresenta una competenza di vitale importanza per lo studente DSA ma estremamente importante anche per i “normodotati”. È il famoso “imparare ad imparare” di cui in pedagogia si parla da diverso tempo.

sabato 7 settembre 2013

LA CHIUSURA DEPRESSIVA E IL COME SE DI PASCAL


« Quando come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo eterno tedio,
e stringendo in un unico cerchio l'orizzonte
fa del dì una tristezza più nera della notte,
quando la terra si muta in umida cella segreta
dove sbatte la Speranza, timido pipistrello,
con le ali contro i muri e con la testa nel soffitto marcito;
quando le immense linee della pioggia
sembrano inferriate di una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,
furiose ad un tratto esplodono campane
e un urlo lacerante lanciano verso il cielo
che fa pensare al gemere ostinato
d'anime senza pace né dimora.

-Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero. »
(Buaudelaire Spleen )



La lettura di questi versi di Baudelaire toglie l’aria, alimenta un forte senso di claustrofobia… Il poeta con poche, violente, pennellate dipinge alcuni vissuti tipici della depressione: “il cielo pesa greve” rappresenta il senso di pesantezza che spinge al ripiegamento (“schiaccia l’anima”); “quando la terra si muta in umida cella segreta dove sbatte la speranza” esprime il sentirsi chiusi in trappola nella dimensione di un presente che non può dispiegarsi verso il futuro.
I vissuti di oppressione ( come se la forza di gravità esercitasse una terribile pressione dall’alto) riguardano in primo luogo il corpo: il depresso assume la classica postura del sacco sgonfio, le spalle scivolano in avanti, l’addome cede, la colonna vertebrale si chiude…Tutto questo si accompagna ad una perdita di energia!
A livello psicologico emerge, in primo piano, una chiusura della prospettiva temporale: la vita non riesce a proiettarsi nel futuro, si ripiega su se stessa e guarda al passato. Questo significa l’impossibilità di fare nuovi investimenti e la perdita della speranza.
La “cella” in cui vive il depresso suggerisce, inoltre, una radicale chiusura rispetto alle relazioni sociali. Il rapporto con il mondo è percepito come pericoloso e si ha bisogno di mettere distanza, chiudersi. La cella da una parte soffoca e dall’altra protegge!
I vissuti depressivi, quindi, si caratterizzano come “oppressione, ripiegamento e chiusura”.
Non sappiamo esattamente quale possa essere l’origine della depressione: una carenza a livello dei neurotrasmettitori (serotonina, dopamina…), il fallimento nell’elaborazione del lutto o il ritiro sociale… Sappiamo, però, che la sfera corporea, la sfera psicologica e quella sociale sono tutte coinvolte e che, nei tre diversi livelli, si manifesta una caratteristica “chiusura” depressiva. È legittimo pensare, a questo punto, che il processo di guarigione possa essere avviato da movimenti di “apertura” a livello corporeo, psicologico e sociale. La difficoltà a procedere in questa direzione consiste nella resistenza che il disturbo depressivo oppone agli sforzi di apertura (scarsa energia e postura del sacco sgonfio, ripiegamento nel passato ed evitamento delle relazioni sociali).
Analogamente al “come se” di Pascal, si parte da una condizione in cui la qualità cercata è assente e nell’agire, appunto, “come se” la qualità cercata esistesse, se ne determina l’esistenza:
« [...] Seguite il sistema con cui essi [i Santi] hanno cominciato: facendo tutto come se credessero, usando l'acqua benedetta, facendo celebrare messe, ecc.. Naturalmente anche questo vi farà credere e vi farà diventare come un bambino. [...] »(Blaise Pascal, Pensieri, 233)

Nel nostro caso il “come se” di Pascal può essere applicato in primo luogo a livello del corpo. L’esperienza insegna che l’attività fisica ha un potente effetto antidepressivo: sia il rilassamento profondo (indotto da pratiche come lo yoga) sia le attività che “forzano” l’organismo (come nel caso del fare jogging) stimolano, infatti, la produzione di endorfine, ovvero quelle morfine endogene legate all’euforia e al benessere. Per coloro che praticano yoga, inoltre, sono consigliate tutte quelle asana che contrastano la postura del sacco sgonfio, mediante l’inarcamento all’indietro della schiena (il ponte o il cammello), e il senso di schiacciamento al suolo, mediante le posizioni capovolte (la candela o sirsasana).
L’andare controtendenza è qualcosa che riguarda anche la sfera psicologica e sociale: accendere la speranza progettando il futuro oppure cercando le relazioni sociali, in particolare quelle più intime e affettive, offrendosi “nudi” agli altri… La difficoltà risiede nel fatto che, così facendo, ci si oppone al “naturale” ripiegamento depressivo, si va in direzione contraria rispetto alla via facile della patologia!

venerdì 31 maggio 2013

I nuovi luoghi dell’ esclusione

A metà degli anni 70, frequentavo il Liceo “Pacinotti”, a Cagliari. Dai piani alti dell’edificio, lo sguardo superava il muro di cinta e cadeva all’interno dell’ ospedale che confinava con il mio Liceo: l’ospedale psichiatrico di Villa Clara (più comunemente chiamato “manicomio”). Negli ampi cortili si muovevano, lente, persone magre, con pochi stracci addosso, spesso nude, che si masturbavano in modo compulsivo. Ho saputo più tardi che questi luoghi non erano luoghi di cura, ma luoghi di detenzione o, peggio, di tortura. In quegli anni, inoltre, nelle scuole i disabili e le persone con disturbi mentali non si vedevano, erano “invisibili”, almeno nelle classi frequentate dai "normodotati". In generale, quindi, le persone “diverse” per anomalia genetica, deficit cognitivo o malattia mentale erano tenute distanti, conducevano esistenze parallele.
Alla fine degli anni 70, in Italia si è realizzata probabilmente l’unica rivoluzione culturale che ancora oggi fa sentire i suoi effetti, una rivoluzione che in gran parte dobbiamo al pensiero e all’azione di Franco Basaglia. Nel 1978 il Parlamento approvò una legge (legge 180)che decretava la chiusura di quei luoghi dell’orrore, dove non si curavano le persone, ma le si teneva in prigionia. Anche nella scuola gradualmente, a partire dal 1977, sono cadute le barriere e dal 1992 abbiamo una legge (legge 104) che garantisce l’integrazione delle persone disabili nella scuola pubblica. Tutte quelle persone tenute fino a quel momento distanti o chiuse in luoghi separati, sono entrate nei luoghi di tutti, i luoghi frequentati dalle persone “normali”, guadagnando sempre più i diritti fino ad allora negati (il diritto all’educazione, ad essere curati …). Possiamo immaginare questo percorso verso l’integrazione come un percorso di avvicinamento: da luoghi separati, distanti, ai luoghi di tutti. Così, è successo nella scuola…
Questo processo è ancora in corso! Non basta abbattere vecchi recinti, spesso se ne creano di nuovi, inaspettati, magari a partire da buone intenzioni. Ecco, allora, trovare nella scuola pubblica spazi attrezzati per il sostegno o laboratori di varia natura che, in nome della didattica individualizzata, ricreano separazione. Difficilmente si riesce a creare momenti e spazi di incontro effettivi tra studenti disabili e “normodotati”; così, ognuno conduce perlopiù vite scolastiche parallele, all’interno dello stesso contenitore. E, magari, quando si promuove una iniziativa che favorisce un processo di avvicinamento reale (ad esempio, un laboratorio aperto a tutti gli studenti e non solo ai disabili), gli insegnanti che “rinunciano” alle loro ore di insegnamento della disciplina fanno resistenza: si porta via del tempo utile...
Siamo abituati ad associare al termine disabile una carrozzina e a concepire gli ostacoli sul percorso di un disabile come ostacoli fisici. Ahinoi! Gli ostacoli peggiori per l’integrazione vengono da una cultura che non riesce a fare i conti con la differenza dello studente disabile, con la complessità che questo incontro genera, e preferisce dare una delega totale allo specialista (insegnante specializzato di sostegno), in grado di fare un intervento individualizzato, in qualche luogo ben attrezzato, da qualche altra parte!

giovedì 23 maggio 2013

DIPENDENZA O AUTONOMIA?

Nella sfera affettiva sembra non ci sia alcuna possibilità di uscire dall’alternativa dicotomica “dipendenza/autonomia”, termini che configurano una opposizione radicale, senza mediazione possibile. Eppure, “dipendenza e autonomia” sono, piuttosto, i punti estremi di un continuum, all’interno del quale ognuno di noi si colloca, molto spesso “sbilanciato” verso uno dei due poli.
Proviamo a definire meglio i termini della questione, considerando alcuni elementi di psicologia dello sviluppo. Si nasce in una condizione di totale dipendenza, quella che alcuni chiamano simbiosi e altri parassitismo : “Alle origini, l’unità narcisistica madre-bambino non è un’unità simbiotica perfetta, ma un’alleanza bio-psichica temporanea il cui modello è il parassitismo” (A. Birraux 2004) In altri termini, non c’è simbiosi perché la mamma potrebbe fare a meno del bambino, il bambino invece no: è lui, infatti, ad essere in una condizione di assoluta dipendenza.
Solo nella vicinanza alla madre si trova la possibilità di sopravvivere. Per assicurarsi nutrimento, calore e protezione il bambino, infatti, deve mantenere un certo livello di vicinanza con la madre e per questo mette in atto un repertorio preformato di comportamenti, finalizzati a richiamare la madre (es. pianto)e a trattenerla a sé (es . tendendo le mani per essere preso in braccio). Intorno alla fine del primo anno di età, il bambino mostra di distinguere gli estranei (angoscia dell’estraneo) e le sue reazioni di protesta all’allontanamento della madre dimostrano che, ormai, si è consolidato un legame di attaccamento. È il periodo in cui maturano le abilità motorie e, gradualmente, il bambino si allontana dalla madre per esplorare l’ambiente. È in questa fase che si può notare il fenomeno della “base sicura”. La Ainsworth (1978), mediante l’esperimento della strange situation (in cui si studiano il comportamento esplorativo e le reazioni del bambino al momento della separazione-riavvicinamento alla madre), ha identificato tre forme di attaccamento: 1) l’attaccamento sicuro; 2) insicuro-evitante; 3)insicuro-ambivalente. Nel primo caso, la madre rappresenta una base sicura che permette al bambino di esplorare e interagire in autonomia con l’ambiente; quando la madre si allontana, il bambino mostra segnali di mancanza, mentre la saluta con vocalizzi e sorrisi e ne cerca la vicinanza, quando torna (figura materna affidabile e presente). Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, il bambino esplora l’ambiente senza fare riferimento ad una base sicura; quando la madre si allontana, risponde in modo impercettibile e, quando torna, guarda altrove o evita attivamente il genitore (figura materna rifiutante). Infine, il bambino con attaccamento insicuro ambivalente esplora poco l’ambiente; è angosciato durante la separazione dalla madre e, al suo ritorno, mostra una alternanza di segnali finalizzati alla ricerca di contatto ed esplosioni di rabbia (figura materna incostante e imprevedibile).
In sintesi, possiamo dire che chi è stato nutrito affettivamente dispone di un “pieno” che gli permette di muoversi nell’ambiente; inoltre, sa di poter tornare alla base per approvvigionarsi d’affetto, in caso di bisogno. Chi non ha sperimentato questa base sicura, invece, si muove nell’ambiente come perso o non si muove affatto. Pensiamo, ad esempio, cosa succede in presenza di una madre ansiosa, per la quale il mondo è continuamente fonte di insidie…
Da queste considerazioni dovrebbe risultare più chiaro che l’opposizione “dipendenza-autonomia” è solo apparentemente contraddittoria: in realtà solo chi ha sviluppato una buona dipendenza (legame affettivo significativo-stabile) è autonomo ed esplora liberamente il mondo.
Chi è cresciuto senza una base affettiva sicura, vivrà molto spesso angosce abbandoniche nel momento in cui la distanza dalla persona di riferimento cresce, o ci si separa da lei (es. bambini cresciuti con madri ansiose); oppure si sperimenteranno angosce di annullamento quando la distanza dalla persona di riferimento è troppo ravvicinata e si teme di perdere i confini della propria labile identità (es. bambini cresciuti con madri intrusive, tendenzialmente simbiotiche).
Di queste vicende arcaiche (dal punto di vista della storia personale), rimane molto anche nell’adulto: è come se in quegli anni si determinasse una sorta di imprinting che costringe alla ripetizione di uno schema. Si stabilisce quello che Bowlby (1988) ha chiamato “modello operativo interno” che, semplificando, veicola quello che ci si può aspettare dall’altro e un complementare concetto di sé: ad esempio, mi aspetto indifferenza o rabbia perché sono brutto e incapace. Questi modelli non sono solo un filtro in base al quale si percepisce la realtà, ma anche “organizzatori del comportamento individuale che attivamente riproducono esperienze relative alla storia relazionale” (Sroufe & Waters, 1977).
Dato che questi schemi cognitivi-emotivi (MOI) sono così profondamente radicati nella storia personale di ognuno, solo all’interno di una relazione dove si stabilisce una appropriata dinamica di transfert si può produrre un cambiamento della dipendenza patologica (di chi è incapace di esplorare da solo il mondo) o dell’autonomia “autistica” (di chi è incapace di relazioni affettive). Per attivare questo tipo di cambiamenti è spesso necessario fare ricorso alla psicoterapia.

giovedì 16 maggio 2013

STEREOTIPI E PREGIUDIZI IN PEDAGOGIA SPECIALE

Chi opera professionalmente nell’ambito della pedagogia speciale spesso ritiene, in virtù della propria “vicinanza” quotidiana con gli utenti, di essere libero dagli stereotipi e dai pregiudizi che riguardano le persone disabili. Ma stereotipi e pregiudizi nascono e si riproducono nella zona grigia della coscienza, dove manca l’esercizio di una capacità critica, in grado di vigilare sui propri processi di pensiero.
Non è un tema puramente teorico. Noi avviciniamo qualcuno quando decidiamo di intraprendere davvero un percorso di conoscenza che porta a scoprire l’altro nella sua singolarità. Cosa succede allora in pedagogia speciale (ambito che riguarda educatori professionali, insegnanti di sostegno…)? È frequente sentire espressioni come "Le persone con Sindrome di Down sono simpatiche, socievoli…"; "I DSA sono dei geni come Einstein" oppure "Gli autistici hanno capacità eccezionali di calcolo!". Queste affermazioni rivelano una operazione cognitiva che, non solo propone una etichetta diagnostica come nucleo significativo di conoscenze utili per capire l’altro; fa qualcosa di più: rende uguali tra loro tutte le persone con un disturbo o affette da una certa sindrome. Cosa succede, allora, se si incontra una persona con Sindrome di Down schiva e depressa o un ragazzo autistico con un QI così basso da impedirgli completamente l’accesso alla sfera simbolica del numero e della parola?
L’incontro con la persona disabile è un po’ come l’incontro con una persona di cultura differente, lontana. Possiamo tentare di “avvicinare” questa persona facendo ricorso ad uno stereotipo come "i giapponesi sono tutti seri, formali…": è questo un processo cognitivo economico, che permette una qualche forma di orientamento nella complessità della realtà sociale; gode, inoltre, dell’approvazione del proprio gruppo culturale di appartenenza o di riferimento. Ma riusciamo davvero a conoscere quel giapponese così estroverso e informale? È come indossare lenti colorate: si vede il mondo attraverso il filtro delle lenti dello stereotipo; non si conosce e non c’è giudizio…c’è pregiudizio!
Cosa bisogna fare allora? Bisogna fare la fatica di mettere tra parentesi le conoscenze che precedono l’incontro con l’altro, l’incontro con la sua singolarità. Andrea Canevaro, a proposito dell’autismo, ad esempio, propone l’etichetta di “autismi” a sottolineare una identità plurale che non può essere ridotta dallo stereotipo.
Per uscire dalla trappola dello stereotipo, bisogna innanzitutto porre la massima attenzione al nome proprio. Non incontriamo un autistico, uno studente DSA o con Sindrome di Down: incontriamo “Fabio, Antonio, Carlo…” e sulla base di questa conoscenza singolare, dobbiamo fare la fatica di accomodare i nostri schemi cognitivi, imparare a leggere i bisogni nella loro specificità, a dare risposte che non siano a loro volta stereotipate. Si, perché essere controllati da conoscenze stereotipate significa dare risposte stereotipate, risposte che ignorano il nome proprio.

lunedì 13 maggio 2013

TI AMO PER COME SEI



L’affermazione “ti amo per come sei!” può sembrare banale, ma, al contrario, credo meriti una riflessione. Proviamo a partire dalla teoria della personalità di Carl Rogers. In termini molto generali, si può dire che Rogers consideri la salute psicologica come risultato della congruenza tra ciò che si è veramente e il concetto di sé. In altri termini, se la rappresentazione di sé coincide con ciò che si è, se si è autentici (cioè si appare per quel che si è), allora si gode di una buona salute psicologica; altrimenti, se si è incongruenti, la salute psicologica è a rischio o già compromessa (siamo in presenza di qualcosa di molto vicino al Falso sé di cui parla Winnicott).
Come si determina l’incongruenza? È il frutto avvelenato dell’amore condizionato, di quell’amore che si può riassumere nella formula “ti amo, se…”; ad esempio, “ti amerò (o ti vorrò bene), se farai il bravo!”. L’esempio citato ci porta in quella dimensione che costituisce la matrice dell’amore condizionato: il rapporto con i genitori, con la madre in primo luogo. Amare i propri figli per come sono, significa uscire dalla presunzione di sapere in partenza qual è il bene del proprio figlio. Amare i propri figli per come sono, implica conoscerli, sapere chi sono perché li si interroga e si ascolta la risposta.
Il caso limite che rende chiaro questo discorso è quello di certi genitori di bambini o ragazzi disabili. Succede spesso, a coloro che lavorano con i disabili, di incontrare genitori che sono totalmente o parzialmente incapaci di vedere e accettare i limiti del proprio figlio e pretendono il raggiungimento di obiettivi educativi e didattici impossibili. In questi casi si dice che i genitori non hanno elaborato il lutto per il figlio idealizzato, quel figlio immaginato durante i nove mesi della gravidanza. È troppo doloroso, in certi casi, accettare la realtà e semplicemente la si nega.
Ma il caso della disabilità mette in risalto una dinamica che è ben più diffusa e che si può riassumere con la formula: “non ti amo per come sei, ma per come vorrei che tu fossi!”. Proviamo a vedere nel concreto quali sono le implicazioni: se, ad esempio, la rabbia di un bambino viene accolta come qualcosa di mostruoso e sanzionata duramente, cosa succederà? Il bambino gradualmente rimuoverà la rabbia. La stessa cosa può accadere con il dolore o la paura: è questo il caso dell’educazione dei maschietti, che normalmente tollera poco l’espressione di queste emozioni (ad esempio, “piagnucoli come una femminuccia!”). Così, gradualmente si costruisce una rappresentazione di sé dove queste parti devono scomparire, inabissarsi, non farsi più vedere: ecco la genesi dell’incongruenza! Nel tempo queste parti non si vedono più, ma diventano sintomi di malessere psicologico.
Questa incapacità di amare è qualcosa che, nel tempo, oltrepassa il rapporto genitori e figli. Questo imprinting affettivo, infatti, condizionerà la relazione di coppia e, poi, quella con i propri figli. Così, si incontreranno persone scontente del proprio partner che “dovrebbe essere in un certo modo!”, o persone insoddisfatte dei propri figli che “sono una delusione!”. Ma si può essere delusi, solo se prima ci si è illusi: illusi che la persona che si ha davanti debba corrispondere all’immagine idealizzata che abbiamo costruito.
“Mi amo per come sono/ti amo per come sei!”, allora, è la prima grande lezione d’amore che è necessario imparare.

sabato 11 maggio 2013

IL SUICIDIO AI TEMPI DI NARCISO

Nella cronaca degli anni della Grande Crisi, emerge con forza il tema del suicidio. Qual è il legame di senso tra Grande Crisi e suicidio? Quanto entra la cultura profonda di una società nella psicologia individuale? Il suicidio è un fatto “naturale”?
Proviamo a partire da questa ultima domanda. Nel comportamento animale il suicidio è praticamente assente. Qualcosa di simile al suicidio è il sacrificio per il bene della propria prole o del gruppo sociale cui si appartiene ( è il caso, ad esempio, delle termiti kamikaze). Questo comportamento, però, sembra rientrare nella lotta per tramandare il proprio patrimonio genetico. Niente di simile al suicidio umano…
Quando non si riesce a trovare la radice di un comportamento come il suicidio nel comportamento animale, allora è necessario guardare alla cultura, la “seconda natura” dell’uomo. Passiamo così alla seconda domanda: quanto entra la cultura profonda di una società nella psicologia individuale? La risposta lapidaria è: molto. La topica freudiana sottolinea con forza come il Super Io sia una istanza generata dall’interiorizzazione dei divieti, in primo luogo quelli familiari. È proprio dallo scontro tra Super Io, giudice e censore, ed Es, l’istanza pulsionale, nasce la nevrosi. Ma oggi? Oggi il rigido censore che condanna la sessualità è morto e sepolto e lo scambio tra libertà e sicurezza, di cui Freud parla in Il disagio della civiltà, si è risolto a favore della libertà. Questo significa che non esiste più il giudice interno? Il giudice interno esiste, è vivo e vegeto, ma sono totalmente cambiati i valori di riferimento in base ai quali valuta, emette le condanne e le esegue. Oggi il parametro in base al quale il giudice condanna è il successo, dove questo termine va declinato nel senso della visibilità: si ha successo quando si corrisponde all’immagine vincente che la nostra cultura consumistica promuove e quando disponiamo dei segni visibili di questa vittoria ( un buon lavoro, una bella casa…). Il fallimento nella realizzazione di questo obiettivo sociale è la colpa più grave, la colpa che ci condanna ad essere “nulla”: ci condanna a morte! Il suicidio, in questo senso, è una condanna a morte decretata dalla cultura dell’apparire per tutti coloro che non riescono ad oltrepassare la soglia di una certa visibilità. È la colpa di Narciso ferito e sanguinante!
Passiamo all’ultima domanda: qual è il legame di senso tra Grande Crisi e suicidio? La Grande Crisi produce in vari modi il contesto culturale-esistenziale della disperazione (vedi L’epoca delle passioni tristi di Benasayag-Schmit). Il paradigma di pensiero su cui si è retta la nostra cultura (crescita, consumo, benessere diffuso…) è scosso alle radici e la possibilità di realizzare il sogno consumista si è infranto per milioni di persone. Queste milioni di persone, ora, vagano in solitudine (il mirabile prodotto di qualche decennio di liberismo), in un mondo dove ognuno vive il suo inferno privato e fa i conti con il suo fallimento! Ogni possibilità di canalizzare il malessere in una azione politica sembra essere fuori portata…Non resta che il nulla!