mercoledì 30 novembre 2011

UNA TESTA BEN FATTA O BEN PIENA?


Nel precedente articolo abbiamo discusso di come il senso dello studio sia fondamentalmente correlato ad un certo contesto socio-culturale.
Se non si vuole dare per scontato il senso che la nostra cultura attribuisce allo studio, bisogna ripartire dall’interrogativo “Perché studiare?”. Se rimaniamo nell’ambito delle acquisizioni di carattere cognitivo legate alle attività di studio, le ipotesi in campo sono sostanzialmente due: 1) lo studio fornisce conoscenze utili per la vita; 2) lo studio aiuta a formare un pensiero critico che permette di orientarsi autonomamente nella vita. Questa alternativa può essere ben sintetizzata prendendo a prestito le parole di Montaigne: è meglio una testa ben fatta o una testa ben piena?
Proviamo a dare una risposta, a partire dal saggio La testa ben fatta di E.Morin.

La prima finalità dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.
Cosa significa “una testa ben piena” è chiaro: è una testa nella quale il sapere è accumulato, ammucchiato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso. Una “testa ben fatta” significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di:
• un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi;
• principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso.

Per quanto riguarda l’attitudine generale, Morin afferma che:

…la mente umana è, come diceva Herbert Simon, general problem setting and solving. Contrariamente all’opinione oggi diffusa, lo sviluppo delle attitudini generali della mente permette ancor meglio lo sviluppo di competenze particolari o specializzate. Più potente è l’intelligenza generale, più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali. L’educazione deve favorire l’attitudine generale della mente a porre e risolvere i problemi e correlativamente deve stimolare il pieno impiego dell’intelligenza generale
Questo pieno impiego richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva dell’infanzia e dell’adolescenza, la curiosità, che troppo spesso l’insegnamento spegne e che, al contrario, si tratta di stimolare o di risvegliare, se sopita. Si tratta subito di incoraggiare, di spronare l’attitudine indagatrice, e di orientarla sui problemi fondamentali della nostra stessa condizione e del nostro tempo.

Dal punto di vista dello studente, si può dire quindi che la finalità delle attività didattiche a scuola e dello studio individuale dovrebbe essere lo sviluppo di una intelligenza generale in grado di confrontarsi con la realtà, di coglierne gli aspetti problematici e di trovare soluzioni originali. Una competenza di questo tipo diventa patrimonio dello studente, al di là della scuola. Potrebbe sembrare una affermazione banale, ma se pensiamo alla diffusione della didattica trasmissiva e passivizzante, centrata sulla ripetizione meccanica dei contenuti (che ha come risultato “una testa ben piena”), ci si può rendere conto di come questa direzione di senso sia ben poco praticata.
La nostra cultura non solo privilegia l’accumulo di conoscenze (che tra l’altro diventano rapidamente obsolete!), ma tende a scoraggiare il confronto con la realtà. In altri termini, è rintracciabile nella nostra cultura scolastica una matrice di tipo idealistico che tende a separare il mondo delle teorie da quello delle pratiche.
Per chiarire meglio questa affermazione, faccio riferimento ad una mia esperienza come insegnante di Psicologia in un Istituto Professionale.
All’inizio dell’anno scolastico, ho interrogato gli studenti di una classe seconda circa quello che avrebbero voluto fare al termine del loro corso di studi per Operatori nei servizi socio-sanitari. Le loro risposte erano del tutto coerenti con l’indirizzo di studi scelto: “Mi piacerebbe lavorare con i bambini!” oppure “Mi piacerebbe lavorare con gli anziani!”. “Bene!”- mi sono detto- “Sono davanti ad una classe motivata con cui si può fare un buon lavoro!” . Nel corso dell’anno, però mi sono dovuto ricredere. Gli studenti alle prese con lo studio di argomenti direttamente collegati con i loro interessi professionali (ad esempio, lo sviluppo del linguaggio nel bambino), si mostravano riluttanti, svogliati.
È interessante notare, d’altra parte, che gli stessi studenti, in occasione di analisi di caso o di una discussione a seguito di un film, mostravano interesse e partecipavano attivamente alla lezione. Era come se l’avvicinarsi al mondo di cui potevano fare esperienza li risvegliasse dal torpore!
Il punto, a mio avviso, è che gli studenti operano una netta distinzione: da una parte ci sono i libri e le conoscenze meccaniche da acquisire per superare le verifiche (attività terribilmente noiosa e deprimente), dall’altra c’è il mondo dell’esperienza e dei problemi reali (discuterne è interessante!)
Purtroppo, il nostro sistema d’istruzione ancora troppo spesso incoraggia la formazione di una intelligenza di tipo scolastico, centrata sulla memorizzazione di conoscenze utili solo per le verifiche!

Proviamo ora a chiarire meglio, seguendo il ragionamento di Morin, una seconda caratteristica della “testa ben fatta”.

Una testa ben fatta è una testa atta a organizzare le conoscenze così da evitare la loro sterile accumulazione
Ogni conoscenza è una traduzione e nello stesso tempo una ricostruzione (a partire da segnali, segni, simboli), sotto forma di rappresentazioni, idee, teorie, discorsi. L’organizzazione delle conoscenze (…) comporta operazioni di interconnessione (congiunzione, inclusione, implicazione) e di separazione (differenziazione, opposizione, selezione, esclusione). Il processo è circolare, passa dalla separazione al collegamento, dal collegamento alla separazione, e poi, dall’analisi alla sintesi, dalla sintesi all’analisi. In altri termini, la conoscenza comporta nello stesso tempo separazione e interconnessione, analisi e sintesi.
La nostra civiltà e di conseguenza il nostro insegnamento hanno privilegiato la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi. Interconnessione e sintesi rimangono sottosviluppate. È per questo che sia la separazione che l’accumulo, senza l’interconnessione delle conoscenze, vengono privilegiati a scapito dell’organizzazione che interconnette le conoscenze.
Proprio in quanto il nostro modo di conoscenza disgiunge gli oggetti tra loro, ci è necessario concepire ciò che li interconnette. E in quanto isola gli oggetti dal loro contesto naturale e dall’insieme di cui fanno parte, è necessità cognitiva porre una conoscenza specifica nel suo contesto e situarla in un insieme. (…). Di conseguenza, lo sviluppo dell’attitudine a contestualizzare e globalizzare i saperi diviene un imperativo dell’educazione.

Queste considerazioni offrono importanti spunti per la riflessione e permettono di focalizzare alcune direzioni di senso auspicabili nella prassi pedagogica: la necessità di un approccio ecologico al sapere (ogni informazione o conoscenza dovrebbe essere situata in un ambiente sociale, culturale, economico, politico e naturale); l’importanza dell’organizzazione di percorsi interdisciplinari nella scuola; la necessità per lo studente di costruire un metodo di studio che, oltre a prevedere il lavoro di analisi (es. l’approfondimento del significato di alcuni concetti chiave della disciplina in oggetto) e di sintesi (es. la ricostruzione del significato generale di un testo), sia organizzato in modo da intrecciare le conoscenze a disposizione con le nuove informazioni, giungendo alla formazione di mappe concettuali sempre più articolate.
Volendo riassumere quanto detto, si potrebbe dire che il compito della scuola sia dare forma ad una intelligenza generale in grado di indagare la realtà nella sua complessità (complessità, nella sua etimologia, rimanda a ciò che è composto da più parti collegate tra loro e interdipendenti), individuandone gli aspetti problematici e le possibili soluzioni. “Pensare la complessità” significa impegnarsi nella costruzione di rappresentazioni sempre più articolate della realtà, rappresentazioni indispensabili per muoversi nel mondo. È un allenamento cognitivo che spinge a vedere le cose da diversi punti di vista, evitando la superficialità e il riduzionismo.
Morin, infine, auspica la convergenza delle scienze naturali con le scienze umane È sul solco di questa nuova prospettiva scientifica che, a suo avviso, andrebbe sviluppata “l’intelligenza generale, l’attitudine a problematizzare, il collegamento tra le conoscenze.” Sottolinea, inoltre, che “ Al nuovo spirito scientifico si dovrà aggiungere lo spirito rinnovato della cultura umanistica. Non dimentichiamo che la cultura umanistica favorisce l’attitudine ad aprirsi a tutti i grandi problemi, l’attitudine a riflettere, a cogliere le complessità umane, a meditare sul sapere e a integrarlo nella propria vita per meglio chiarire correlativamente la condotta e la conoscenza di sé”.
Alla domanda “Perché studiare?”, allora, si può rispondere dicendo che lo studio dovrebbe essere finalizzato alla formazione di una “testa ben fatta”, capace di comprendere sia il mondo esterno (naturale e sociale) sia quello interno, che riguarda il sé. Una comprensione in grado di orientare l’uomo nella ricerca di un buon adattamento alla realtà, che implica una modificazione di sé e dell’ambiente.

martedì 22 novembre 2011

LA COSTRUZIONE SOCIALE DEL SENSO DELLO STUDIO


In una storia si racconta che un viaggiatore arrivato nei pressi di una cava vide diversi uomini che, sudati e sporchi, imprecavano con le mani al cielo. L’uomo si avvicinò e chiese: “Cosa fate? A cosa serve il vostro lavoro?” Si sentì rispondere: “Non lo vede? Spacchiamo pietre”. E senza più interessarsi del viaggiatore gli uomini ripresero il loro lavoro e le imprecazioni. Il viaggiatore ripartì e, dopo qualche ora di cammino, si ritrovò nei pressi di un’altra cava. Altri uomini lavoravano come quelli precedentemente incontrati ma, a differenza dei primi, non erano molto affaticati, nonostante lavorassero sodo. Anche in questo caso il viaggiatore chiese loro a cosa stessero lavorando e a cosa servisse il loro lavoro. E dove i primi uomini avevano risposto “Spacchiamo pietre”, qui si sentì rispondere: “Costruiamo splendide cattedrali”.

Studiare comporta fatica, lavoro cognitivo. Lo studio, infatti, è un apprendimento intenzionale che richiede un impegno volontario al fine di imparare qualcosa. Si differenzia in questo dall’apprendimento incidentale: ad esempio, si va al cinema per godere della visione di un film e, senza volerlo, si impara qualcosa di nuovo!
Chiariamo meglio questa differenza, facendoci aiutare dal saggio Imparare a studiare 2 di Cornoldi, De Beni e Gruppo MT:

Da un certo punto di vista, l’apprendimento incidentale è fondamentale, dal momento che interessa, spesso in una condizione automotivante, gran parte delle esperienze che portano l’uomo a costruire il suo sistema di conoscenze. Tuttavia esso non è sufficiente, perché dipende da fattori parzialmente casuali e difficilmente è in grado di produrre conoscenze puntuali e altamente organizzate. Se, infatti, è vero che in alcuni casi l’apprendimento incidentale porta a risultati migliori dell’apprendimento intenzionale (ma questo si verifica in casi di demotivazione e cattivo metodo di studio), normalmente l’apprendimento intenzionale produce effetti più rapidi e solidi. Infatti, sono molte le occasioni in cui noi siamo esposti ripetutamente in maniera incidentale a certe informazioni, senza riuscire a fissarle alla memoria, laddove con un piccolo impegno di memorizzazione si sarebbero ottenuti risultati più duraturi...La scuola è pertanto costretta a impegnare spesso gli alunni in sforzi di apprendimento intenzionale più o meno intensi, in parte durante l’attività che si svolge in classe, in parte attraverso richieste di studio individuale.

Le attività scolastiche richiedono, quindi, un apprendimento intenzionale, uno sforzo volontario per imparare. Ma se è necessario un lavoro faticoso, è molto importante che allo studente sia chiaro il senso di questa attività, il perché di questa fatica.
Ora, se si rivolge ad un gruppo di studenti la domanda “Perché studi?” le risposte più frequenti saranno: “Per ottenere un buon voto alla verifica ed essere promosso!” oppure “Per far contenti i miei genitori e ottenere un premio!”. Questo tipo di risposte indicano che il senso dello studio non viene cercato nell’attività in sé, ma nei vantaggi che si possono ottenere da questa attività.
Non c’è apparentemente niente di male in tutto questo. Ma come vive il duro lavoro dell’apprendimento lo studente che non capisce il senso dello studio? Lo vive come chi spacca i sassi in cambio di un povero salario e impreca contro il destino che lo ha condannato ad un lavoro ingrato! La qualità dello studio, in casi del genere, è generalmente scarsa! Lo studio diventa un comportamento che si può accostare a quello dei bulimici: si fanno grandi scorpacciate con tante ore di studio prima delle verifiche, per poi “vomitare” tutte le informazioni che si sono imparate nella prova. Dopo questo lavoro penoso, non rimane nulla!
Studiare con interesse significa, al contrario, apprezzare il valore in sé di questa attività, il suo significato formativo per l’intelligenza. Si creano, così, le condizioni ideali affinché i contenuti possano essere digeriti, assimilati, rielaborati e “restituiti” in forma originale. Riprendendo la metafora proposta da Seneca nella sua lettera a Lucilio, lo studio diventa ora un lavoro simile a quello delle api: si prende con la lettura il nettare dei fiori (i contenuti dei testi studiati), lo si rielabora e lo si restituisce in forma di miele ( prodotto originale del pensiero nutrito dalle letture).
Da chi e da cosa dipende il fatto che alcuni studenti vivano la scuola come “spaccare pietre” mentre altri come “costruzione di cattedrali”? Entrambi svolgono la stessa attività, ma cambiano le attribuzioni di senso.
La costruzione di cornici di senso è un fatto puramente individuale?
Nel suo saggio La cultura dell’educazione (1997) Bruner spiega che la mente non potrebbe esistere senza la cultura. Infatti, l’evoluzione della mente dell’uomo è legata allo sviluppo di un modo di vivere in cui la “realtà” viene rappresentata mediante un sistema simbolico condiviso dai membri di una comunità culturale. La cultura modella la mente degli individui e ne troviamo traccia nell’attribuzione di significati alle cose: benché i significati siano “nella mente”, hanno origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati.
Le attribuzioni di senso e di significato hanno, quindi, origine all’interno di una cultura e condizionano la motivazione verso il raggiungimento di certi obiettivi.
Cosa significa questo in relazione allo studio? Per dare una risposta, proviamo a fare qualche esempio. Pensiamo ad una cultura come quella dei rom. I rom non hanno mai utilizzato la scrittura come sistema di comunicazione, non ne hanno mai avvertito la necessità. Lo stile di vita prevalentemente nomade non ha favorito lo sviluppo di un sistema di scrittura autonomo. La scrittura è infatti legata alle esigenze di una società stanziale con una complessa organizzazione economica, amministrativa, politica. D'altra parte, la loro condizione di emarginazione non ha permesso l’accesso al sistema di scrittura dei paesi ospitanti, almeno fino a tempi molto recenti. Del resto ancora oggi, nonostante i progetti di scolarizzazione, il loro rapporto con la scrittura rimane problematico: non ne sentono la necessità né per la comunicazione all'interno del gruppo né per la conservazione di informazioni e saperi. Ne sentono la necessità solo nei rapporti con i gagé.
In una cultura orale come quella dei rom che senso ha lo studio centrato fondamentalmente sulla scrittura e la lettura? Quale motivazione avranno gli appartenenti ad una cultura orale verso le attività di studio? La risposta è scontata!
Facciamo, ora, un esempio di segno contrario. Il sociologo francese P. Bourdieu, negli anni ’60 del secolo scorso, ha identificato nel capitale culturale e nell’insieme dei valori acquisiti (ethos) all’interno del contesto familiare i fattori determinanti del successo scolastico. Il capitale culturale ereditato in famiglia è, per Bourdieu, costituito dalla qualità delle informazioni e dalle conoscenze linguistiche trasmesse, dai modi di fare e dal “buon gusto” acquisiti spontaneamente a diretto contatto con i modelli familiari. L’ethos, invece, è quel “sistema di valori impliciti e profondamente interiorizzati” che si traduce in diversi atteggiamenti nei confronti della scuola e della cultura scolastica: in certe classi sociali si avverte l’importanza della cultura e si forniscono le giuste motivazioni per la riuscita scolastica, mentre in altre classi sociali questo non accade.
Cosa intendiamo dire con questi esempi? Intendiamo dire che senso e motivazione, attribuzioni di valore e impegno nel perseguimento di certi obiettivi, sono concetti strettamente interconnessi dal punto di vista pratico. In altri termini, si è motivati a fare un certo lavoro (nel nostro caso “studiare”), solo se si riconosce un valore a questa attività, la si giudica importante. Inoltre, come dovrebbe risultare chiaro dopo gli esempi proposti, questo giudizio è fortemente condizionato dal contesto socio-culturale.
Ritorniamo un attimo alla storia da cui siamo partiti. La costruzione di cattedrali è la cornice di senso che permette ai tagliapietre di lavorare volentieri. Ma questa attribuzione di significato non è un fatto esclusivamente individuale: solo all’interno di una cultura che attribuisce grande valore a questa impresa il tagliapietre può trovare la sua motivazione!
Per sostituire la cornice “spaccare sassi” con la cornice “costruire cattedrali”, allora, è necessario, innanzitutto, che questa attribuzione di senso sia condivisa all’interno di un contesto sociale e culturale.
Nel caso dell’istruzione, è necessario che politici, insegnanti e genitori siano convinti del valore formativo della scuola e dello studio individuale e credano che queste esperienze siano di fondamentale importanza per il futuro degli studenti.

domenica 13 novembre 2011

Insegnamento centrato sui programmi o sui bisogni dello studente?


Nell’articolo “Fenomenologia di uno studente demotivato” abbiamo preso in considerazione il tema della motivazione nello studio, guardandolo dal punto di vista dello studente. Proviamo, ora, a vedere come lo stesso tema può essere visto dalla parte degli insegnanti.
Nella vita professionale di un insegnante arriva, prima o poi, il momento in cui non si può più evadere la domanda: “Cosa Faccio? Seguo i Programmi Ministeriali o ascolto i bisogni formativi degli studenti?”.
Questa domanda nasce e si fa urgente quando l’insegnante registra lo scarto tra il suo mandato istituzionale e la situazione reale degli studenti che ha davanti. La risposta dipende dalle premesse, spesso implicite, dell’insegnante.
In molti casi la visione del proprio lavoro pedagogico si orienta secondo la prospettiva del “vaso vuoto”: l’insegnante è la fonte del sapere e lo studente è un vaso da riempire. Questa concezione “ingenua” nasce dall’idea che le generazioni adulte debbano trasmettere il sapere e i valori propri di una certa cultura alle giovani generazioni. È questa una logica di riproduzione dei saperi e dei valori, tipica di una società conservatrice. Gli studenti nella prospettiva del vaso vuoto devono svolgere il ruolo di registratori passivi.
Essere centrati sul programma significa, così, orientarsi nella prospettiva pedagogica del vaso vuoto. Se è questa la scelta di fondo, è abbastanza normale ignorare la condizione degli studenti. Ma a che prezzo? L’unico obiettivo didattico perseguibile dagli insegnanti diventa un meccanico ripetere nozioni mal digerite…Una prospettiva ben poco motivante per gli studenti!
In alternativa radicale, l’insegnante si può muovere secondo una prospettiva “maieutica”. Il concetto ha nobili origini e fa riferimento all’arte dialettica di Socrate, che come una levatrice faceva emergere dall’interlocutore le risposte. Il movimento non è più da fuori a dentro (l’insegnante-fonte che riempie lo studente-vaso), ma da dentro a fuori (la risposta è dentro lo studente e viene fatta emergere dalle domande dell’insegnante).
La pedagogia maieutica è stata sostenuta in tempi più recenti da Carl Rogers che ha definito la sua proposta insegnamento centrato sullo studente.
Rogers invita a riflettere criticamente sull’intero processo di insegnamento-apprendimento, a partire dalla definizione degli obiettivi didattici e formativi. La prima domanda da porsi in questa prospettiva è: gli obiettivi d’apprendimento sono rigidamente predefiniti oppure lo studente è parte attiva nella loro definizione? In altre parole, il percorso didattico è precostituito oppure è “piegato” sui reali bisogni formativi degli studenti?
Questo primo passaggio è fondamentale: l’insegnante centrato rigidamente sul programma è come se si dicesse: noi (forma plurale che indica l’istituzione scolastica) sappiamo ciò di cui hai bisogno e abbiamo predisposto tutto in funzione di questa nostra conoscenza dei tuoi bisogni. Questa presunta conoscenza del bisogno altrui costituisce una sorta di peccato originale che può inficiare tutto il resto.
L’antidoto contro questa rigidità istituzionale è un approccio dialogico in cui si fanno domande finalizzate alla comprensione del bisogno dello studente (“Perché sei qui?”, “Quali sono i tuoi scopi?”…). All’interno di questo processo dialogico sono da ricercare le necessarie mediazioni tra il compito istituzionale dell’insegnante e i bisogni dello studente, per arrivare alla costruzione di un percorso di insegnamento-apprendimento condiviso.
In secondo luogo, Rogers invita ad una riflessione sulla motivazione nell’apprendimento. Riprendendo l’esempio fornito da Rogers, la stessa lezione di geografia può essere vissuta in modo completamente diverso: alcuni studenti frequentano la lezione perché il corso di geografia è obbligatorio nel curriculum studi; altri lo frequentano perché si stanno preparando ad esplorare il territorio di cui si parla. Nel primo caso siamo di fronte ad un apprendimento “esteriore”, ad una motivazione “estrinseca”: si studia e si apprende perché così si va avanti negli studi e si consegue un titolo; le conoscenze in sé sono irrilevanti per la vita delle persone. Nel secondo caso, invece, le conoscenze diventano importanti perché permettono di vivere con più strumenti una esperienza significativa. Siamo in presenza, in questo caso, di una motivazione intrinseca, dove le conoscenze vengono percepite importanti di per sé e non per qualche fine esterno all’apprendimento.
Questo secondo punto si collega strettamente al primo: se l’insegnante conosce il bisogno formativo degli studenti che ha davanti, può predisporre un percorso d’insegnamento in grado di rispondere in modo coerente al bisogno espresso e quindi incontrare una diversa motivazione.
In ultimo, Rogers invita a tener conto del concetto di sé, quella componente fondamentale della personalità che riguarda le rappresentazioni di sé e del mondo. Il concetto di sé resiste a tutte quelle informazioni che, tendenzialmente, potrebbero causare una qualche forma di disorganizzazione del sé. È il fenomeno della dissonanza cognitiva: tutto ciò che rafforza quello che io penso di me e del mondo viene facilmente accettato; mentre tutto ciò che comporta una faticosa riorganizzazione dell’immagine di sé e del mondo viene naturalmente rifiutato. Ora tutti gli apprendimenti significativi comportano sempre una riorganizzazione della visione di sé e del mondo: pensiamo alla visione copernicana del sistema solare, alla teoria dell’evoluzione di Darwin o alla teoria dell’inconscio di Freud. Queste teorie hanno incontrato numerose resistenze, perché hanno messo in discussione visioni consolidate come la centralità della terra nel sistema solare (dal geocentrismo all’eliocentrismo), la differenza originaria dell’uomo rispetto alle altre specie animali (l’evoluzione dell’uomo a partire dai primati) e la presunta razionalità all’origine dei comportamenti umani (la scoperta dell’inconscio come potente fattore che condiziona l’agire umano).
Per fare in modo che si possano realizzare apprendimenti significativi, di per sé minacciosi, quindi, bisogna preparare un adeguato clima in classe, un clima relazionale in cui prevale l’accettazione e la libera espressione delle idee e dei sentimenti. Questo clima, inoltre, facilita una percezione differenziata del campo d’esperienza: la persona che si sente accettata per quello che sente è incentivata a trovare le parole per esprimere i propri vissuti, simbolizzando quindi correttamente la propria esperienza. In questa logica è completamente controproducente il ricorso all’intimidazione (“se non studi…”…). L’unico risultato che il clima d’intimidazione può ottenere è l’apprendimento meccanico, strumentale in funzione del voto. L’apprendimento significativo, al contrario, richiede un clima di accettazione e permette una riorganizzazione del sé e del proprio modo di vedere il mondo.
Le due visioni (insegnamento centrato sullo studente e insegnamento centrato sullo studente) sono diametralmente opposte. È possibile trovare una sintesi?
A mio avviso la risposta si può trovare nella prospettiva della programmazione, quella prassi capace di tradurre le linee programmatiche generali, valide per l’intero territorio nazionale, nel contesto della situazione scolastica locale. In termini operativi, questo significa per gli insegnanti uscire dal ruolo di passivi esecutori di un mandato istituzionale, per svolgere un compito progettuale finalizzato all’adattamento-traduzione dei programmi in relazione ad un certo contesto socio-culturale e alla situazione di partenza degli studenti.
La grande sfida che la scuola e gli insegnanti sono chiamati ad affrontare nella prospettiva della programmazione è tenere in equilibrio la trasmissione delle conoscenze acquisite in un certo ambito disciplinare (lezioni frontali) con la possibilità di fare nuove scoperte (lezioni dialoganti), mirando -per dirla con Morin- ad una testa ben fatta anziché ad una testa ben piena.
Questo approccio pedagogico può risultare impegnativo perché comporta la perdita, almeno parziale, delle rassicuranti linee guida fissate in un programma, ma allo stesso tempo permette di aprire le porte ad una avventura umana e intellettuale “motivante” sia per gli studenti sia per gli insegnanti.

mercoledì 9 novembre 2011

FENOMENOLOGIA DELLO STUDENTE DEMOTIVATO


È lì in fondo alla classe, cerca di mimetizzarsi, di passare inosservato. Fa lo stretto indispensabile, quello “che deve”. Interviene poco, di mala voglia, ha ormai interiorizzato quella posizione di ascoltatore passivo che troppo spesso a scuola si chiede di mantenere (didattica del “vaso vuoto da riempire”). Il suo obiettivo è la sufficienza, “passare” la verifica, far contenti i genitori. Percorre, così, con stanca rassegnazione un destino dato, di cui non coglie il senso.
Questo breve ritratto non è quello di uno studente con nome e cognome, ma l’identikit del tipo “studente demotivato” che così spesso s’aggira smarrito nelle scuole. Ci si può domandare quali siano i suoi tratti di personalità, ma è una domanda oziosa: questo studente, come detto, non ha nome e cognome e tanto meno ne conosciamo la personalità.
E allora? Proviamo a fare un discorso di carattere generale, partendo da una delle domande più importanti della psicologia: “Cosa spinge una persona a comportarsi in un certo modo?”. Rispondere a questa domanda significa cercare la motivazione di un comportamento. Galimberti definisce la motivazione come "Fattore dinamico del comportamento animale e umano che attiva e dirige un organismo verso una meta…". In altre parole, la motivazione è ciò che spinge e orienta l’agire in vista di un obiettivo.
In ambito scolastico, la stessa domanda la possiamo tradurre così: “Cosa spinge uno studente a studiare?”; “Quanto influisce nell’esecuzione di un compito la prospettiva di ricavarne una gratificazione, intesa come un buon voto o l’approvazione da parte di qualcuno?”; “I riconoscimenti esterni possono conciliarsi con il piacere in sé dello studio?”.
Per provare a rispondere a questo tipo di domande, bisogna innanzitutto distinguere tra motivazione estrinseca e motivazione intrinseca. Nelle motivazioni estrinseche ciò che spinge ad agire (nel nostro caso studiare) è il guadagno che si ottiene con quel comportamento (ad esempio il voto o la lode degli insegnanti); mentre nelle motivazioni intrinseche la motivazione non è esterna al comportamento ma è il comportamento stesso ad essere gratificante (ad es. si studia per il piacere di conoscere).
Proviamo a vedere più da vicino questi due differenti tipi di motivazione.
In primo luogo, è necessario sottolineare che la motivazione estrinseca è sostenuta dall’esterno attraverso l’uso sistematico di rinforzi positivi che permettono di modificare i comportamenti degli studenti nella direzione desiderata, con l’intenzione di avvicinare lo studente, almeno in un secondo tempo, alla motivazione intrinseca. Ad esempio, è normale che prima di arrivare al piacere della lettura (motivazione intrinseca) ci sia una fase più o meno faticosa in cui si deve imparare a leggere, e che questo sforzo vada sostenuto da rinforzi (motivazione estrinseca). Il problema nasce se si rimane sempre al livello della motivazione estrinseca: “studio per il voto”, “per far contenti i miei genitori” o “perché il titolo di studio mi permetterà di trovare un lavoro in cui si guadagna bene”. In tutti questi casi essere motivati da qualcosa di esterno all’atto dello studiare farà vivere questa attività solo come un faticoso dovere, senza mai apprezzare la possibilità dello studio come momento fondamentale per la comprensione di sé e del mondo circostante.
Per quanto riguarda la motivazione intrinseca, proviamo a chiederci da dove nasce e come funziona. Quando si parla di motivazione intrinseca bisogna tener presente una serie di concetti correlati: la curiosità epistemica (cioè orientata alla conoscenza), il bisogno di sentirsi competenti, l’autodeterminazione, l’esperienza di flusso e l’interesse.
• Il concetto di curiosità epistemica trae origine dalla teoria dei bisogni (una delle più note è quella gerarchica di Maslow), che possono essere innati e universali (ad esempio la fame o la sete) o legati ad aspetti socio-culturali ( (ad esempio, essere stimati e approvati). La curiosità epistemica può essere osservata già in bambini molto piccoli, e consiste nella curiosità per il funzionamento delle cose. La vediamo molto presto in opera nell’esplorazione dell’ambiente, motivata solo dal desiderio di conoscere.
• Il bisogno di competenza lo possiamo osservare, invece, nei comportamenti di chi passa il suo tempo a fare dei puzzle complicati oppure a montare e smontare una macchina. Tale tipo di motivazione è molto precoce e si manifesta tramite un tipo di interazione giocosa con l’ambiente.
• La teoria dell’autodeterminazione prende in considerazione il bisogno di scegliere. Questa teoria dice che se il soggetto vive una situazione di libera scelta, mantiene o accresce la motivazione per il compito; se invece vive lo svolgimento di una certa attività come imposto dall’esterno, si sentirà “costretto” e meno motivato.
L’esperienza di flusso si verifica quando si è immersi in un compito o attività al punto da non accorgersi del tempo che passa. L’attenzione in questi casi è più focalizzata nello svolgimento del compito, piuttosto che sui risultati. Questo tipo di esperienza si verifica spesso nell’ambito di passatempi e delle attività ricreative, ma può manifestarsi anche in esperienze di lavoro, di studio o in altre attività.
• L’interesse, infine, emerge per effetto dell’interazione di aspetti relativi all’individuo e alle sue preferenze con le caratteristiche proprie di una certa situazione. L’interazione soggetto interessato-situazione interessante produce effetti sul piano cognitivo e su quello emotivo: sul piano cognitivo l’interesse influisce sull’impegno, sulla persistenza e la scelta del compito; sul piano emotivo, invece, gli effetti riguardano il piacere e la soddisfazione che si ricavano nello svolgimento di una attività.
L’esistenza di queste diverse manifestazioni della motivazione intrinseca fornisce ottimi argomenti per affermare che la scuola non ha il compito di “creare” la motivazione intrinseca. Come abbiamo visto il desiderio di conoscere e capire la realtà sono presenti fin dalla prima infanzia. La scuola allora deve più semplicemente evitare di deprimere la naturale motivazione alla conoscenza e, allo stesso tempo, progettare dei percorsi didattici in grado di intercettarla e metterla al servizio dell’apprendimento.

lunedì 4 aprile 2011

Silvio forever


Ho visto il docufilm di Faenza Silvio forever e durante e dopo la proiezione ho consolidato il pensiero che il fenomeno Berlusconi sia incomprensibile con le categorie della politica. Il ritratto che emerge dal film, infatti, ha poco a che fare con la politica (l’unico abbozzo di pensiero politico è l’ ossessivo manicheismo comunisti-liberali) e ricorda molto da vicino quello di una rockstar in grado di attirare a sé folle osannanti.
Ma allora da dove nasce la fortuna politica di Berlusconi? Per tentare una risposta credo sia più utile rivolgersi alle categorie della psicoanalisi. La narrazione che Berlusconi fa di sé, infatti, è il racconto di una persona affetta da megalomania, dove con questo termine intendo quel grado estremo di narcisismo che confina o sconfina nella psicosi. Se, infatti, il narcisismo primario del bambino è quella normale fase dello sviluppo affettivo che viene superato con l’Edipo, momento in cui ci si apre all’amore oggettuale e alla relazione con gli altri, il narcisismo secondario dell’adulto è, invece, un processo di regressione con cui si arriva a disinvestire l’oggetto esterno per ritornare all’amore di sé. In questo movimento di regressione si trova il nucleo delle psicosi: uno stato di narcisismo assoluto in cui la realtà esterna viene sostituita da quella interna.

Su questo tema è particolarmente chiara l’analisi di Fromm in Psicoanalisi dell’amore: “Il malato mentale è in una situazione che non si differenzia sostanzialmente da quella del neonato. Ma mentre per il bimbo il mondo esterno non è ancora emerso come reale, per quello ha cessato di essere reale. Nelle allucinazioni, infatti, i sensi hanno perduto la loro funzione di registrare gli eventi esterni – essi registrano l’esperienza soggettiva in categorie di risposte sensorie agli oggetti esterni. Nell’illusione paranoica agisce lo stesso meccanismo. Timore o sospetto, infatti, che sono emozioni soggettive, si oggettivizzano in modo tale che la persona paranoica si convince che gli altri cospirano contro di lei…”.

Ora, il caso di Berlusconi si colloca in una posizione intermedia tra salute e patologia, quella posizione privilegiata di cui godono le persone che hanno raggiunto un grado elevato di potere. Una posizione di potere consente, infatti, d’incontrare l’approvazione e il consenso di milioni di persone. Le folle adoranti confermano l’immagine narcisistica del capo, mentre i critici che potrebbero svelare l’inganno e ferire il narcisismo del capo vengono violentemente attaccati e, se possibile, distrutti (vi ricordate l’editto bulgaro?). Il tentativo dei personaggi megalomani al potere è, infatti, quello di trasformare la realtà in modo da renderla conforme all’immagine narcisistica di sé. Così, se una persona qualunque inizia a raccontare di essere Dio, in breve tempo viene sottoposto a cure psichiatriche; ma se una moltitudine di persone inizia a riconoscerlo effettivamente come Dio, allora le cose cambiano.
A questo punto siamo ad una specie di follia collettiva, dove il narcisismo del capo funziona perché c’ è una massa disposta ad assecondarne i deliri.

Fromm ci spiega così questo passaggio: “ Il gruppo altamente narcisista è impaziente di avere un leader, nel quale potersi identificare e che viene quindi ammirato dal gruppo che proietta in lui il proprio narcisismo. Proprio nell’atto di sottomissione al leader potente, che è in fondo un atto di simbiosi e identificazione, il narcisismo dell’individuo si trasferisce su leader. Quanto più grande è il leader, tanto più grande è il seguace. Le personalità di individui particolarmente narcisistici sono le più adeguate a svolgere questa funzione. Il narcisismo del leader convinto della propria grandezza e scevro di dubbi è precisamente quello che attrae il narcisismo di coloro che gli si sottomettono. Il leader semi-folle è spesso colui che riscuote maggiore successo finché la sua mancanza di giudizio obiettivo, le sue reazioni di rabbia come conseguenza di qualche disfatta, il suo bisogno di tenere alta l’immagine di onnipotenza possono indurlo a commettere errori che portano alla sua distruzione. Ma ci sono sempre a portata di mano dei semi-psicotici dotati, in grado di soddisfare le esigenze di una massa narcisista.”
Fromm aveva in mente l’ascesa e la caduta di un personaggio come Hitler, che nel suo delirio narcisistico arrivò a sottovalutare l’inverno russo (così come fece un altro narcisista come Napoleone): l’incapacità di vedere la realtà obiettivamente gli fu fatale.

L’aspetto sorprendente della vicenda Berlusconi è la tenuta della fede delle masse adoranti anche davanti a palesi passi falsi (possiamo forse rubricare così la telefonata in questura per Ruby o il baciamano di Gheddafi?).
Comunque sia il monito di Fromm ( ci sarà sempre uno semi-psicotico dotato che soddisfa le esigenze di una massa narcisista) dovrebbe metterci in guardia dalla facile illusione che la fine di Berlusconi rappresenti anche la fine del berlusconismo o comunque si voglia chiamare quel profondo bisogno dell’uomo della Provvidenza.

mercoledì 30 marzo 2011

Freddo



Dopo aver ascoltato alla radio una recensione positiva sullo spettacolo tratto dal testo di Lars Noren “Freddo” (con la regia di Marco Plini), ho deciso di scuotermi dall’apatia e di andare a teatro. La storia, tratta da un episodio di cronaca realmente accaduto in Svezia, narra di tre adolescenti che si ritrovano a festeggiare la chiusura dell’anno scolastico con birre e wurstel. La loro immagine (cranio rasato, bretelle rosse su maglie nere, tatuaggi con simboli nazi) non lascia molti dubbi sull’area culturale di riferimento dei tre adolescenti che, ben presto, esibiscono l’intero repertorio di certa cultura, o meglio subcultura, dell’estrema destra: esibizioni muscolari, cori nazisti, discussioni sul calcio, odio per gli stranieri. Lì vediamo lì, in un campetto di periferia, a cazzeggiare. Uno di loro è Ismael, anch’egli straniero, tratteggiato come l’utile idiota del gruppo, quello che porta lo zaino per gli altri, sempre pronto a ridere alla battuta del capo o ad assecondarne i deliri nazionalistici. I loro discorsi riflettono la situazione della Svezia di fine millennio, spaventata dall’arrivo degli immigrati che sono vissuti come possibili ‘inquinatori’ del puro sangue svedese. Ben presto si capisce che i tre amici non sono lì senza un motivo: stanno infatti aspettando Kalle, loro compagno di scuola di origine coreana che è stato adottato da una benestante famiglia svedese.
All’arrivo di Kalle, assistiamo ad un crescendo che passa dalla “bonaria presa in giro” alla tortura psicologica sempre più feroce: Kalle prova a dare delle risposte alle provocazioni, ma è come assistere ad una impossibile dialettica tra Ragione e Follia.
“Anche io sono di cultura svedese, sono qui da quando ho due anni, ho genitori svedesi e con la Corea non ho più nessun legame!” prova a rispondere Kalle al capo branco che lo invita a tornarsene a casa sua. “Anche Ismael è straniero!” continua a difendersi Kalle che riceve per risposta: “Cosa cazzo c’entra, lui è uno di noi!”. La linea di divisione non è allora l’appartenenza alla cultura svedese (come vorrebbero far credere i tre), ma l’appartenenza al branco, alla sua subcultura nazionalista che cerca il capro espiatorio, la vittima sacrificale. Così non c’è spiegazione che tenga: i tre si danno la carica a vicenda e, come in preda ad una pulsione primitiva che cerca come meta solo ed esclusivamente l’annullamento dell’altro, passano dalla violenza verbale a quella fisica. La preda cerca di scappare, ma è ingabbiata, e l’escalation di violenza fisica culmina inevitabilmente con l’assassinio di Kalle.
L’impressione più forte che ho avuto nell’assistere a questo spettacolo era che questo episodio si stesse davvero consumando sotto i miei occhi. La finzione faceva presa sulla realtà al punto di temere per le sorti dell’attore che impersonava Kalle. Una storia di cronaca svedese diventa episodio “vivo”, a cui potremmo assistere (forse in forme meno drammatiche) in un qualunque campetto di periferia delle nostre città.
Con questi pensieri sono uscito un po’ spaventato da teatro e ho ripensato al “fora de ball” del nostro ministro Bossi e alla cultura che incarna e conquista porzioni crescenti di consenso, anche tra adolescenti (sempre più spesso vedo giovani leghisti fare proselitismo fuori dalle nostre scuole).

lunedì 21 marzo 2011

IL CIGNO, IL TAO E IL SESSO


Ho appena visto il film Il cigno nero di Darren Aronofsky, film molto chiacchierato che ha diviso la critica. Dello stesso regista avevo visto Requiem for a dream e The Wrestler. In particolare Requiem for a dream mi aveva fortemente impressionato per la forza delle immagini, le fantasie lisergiche, la denuncia della dipendenza (mediatica o da stupefacenti), alcune intuizioni sul rapporto malato tra una madre e un figlio. Questi temi ritornano nel Cigno nero, ma la storia perde quel realismo da “presa diretta sulla vita” di Requiem for a dream, per diventare storia che continuamente slitta dal piano del quotidiano a quello del simbolico.
Il primo elemento richiamato fin dal titolo è il contrasto dualistico di bianco e nero, opposizione inconciliabile di una esistenza che non conosce la mediazione. Fin da questo primo elemento possiamo intuire la portata simbolica che il regista intende dare alla vicenda della prima ballerina della compagnia, Nina, il cigno bianco, che presto incontra, durante le prove, il suo doppio "nero", Lily. L'incontro-scontro tra Nina e Lily diventa specchio che riflette l'incontro-scontro di Nina con la propria parte "oscura". Non c'è, come nel simbolo del tao, una armonia possibile: o bianco o nero; la vita dell'uno è la morte dell'altro, una dialettica rigida senza possibilità di sintesi superiore: la scoperta del proprio cigno nero coincide con la morte del cigno bianco!
Ma cosa intendono simboleggiare il bianco e il nero?
Il bianco è una sorta di innocenza virginale a cui Nina è costretta da una esistenza divisa tra le prove, vissute come una ossessiva ricerca della perfezione, e una madre invasiva e infantilizzante. Una madre che sulle prime sembra particolarmente affettiva e premurosa, ma che pian piano svela il suo vero volto: una donna tirannica che cerca di realizzare i suoi sogni infranti di ex ballerina tramite la figlia, giocando in modo subdolo il ricatto affettivo "Io ho rinunciato alla carriera artistica per diventare madre!". Questa rinuncia ora le dà il diritto di interferire pesantemente nella vita di Nina, che non ha neanche la libertà di chiudersi nella propria stanza (metafora dell’impossibilità di avere un proprio mondo).
Il nero, invece, è la sessualità, invocata così insistentemente dal regista "luciferino" che vuole fare emergere da Nina "il cigno nero". Il doppio di Nina, Lily, funge da modello e da iniziatrice. Sarà lei a farle scoprire l'estasi (anche in senso chimico) e l'abbandono alla vita sessuale.
Questa iniziazione, però, non è come ci si potrebbe aspettare l'inizio di una positiva evoluzione. In un primo tempo lo spettatore ha questa impressione: Nina inizia ad opporsi alla tirannia materna, a chiudere la porta della sua camera per impedirle l'accesso al suo mondo.
Però, proprio come nella trama del Lago dei cigni che è chiamata ad interpretare sulla scena, la vittoria del cigno nero (la scoperta del suo lato oscuro) coincide con la morte del cigno bianco.
Questa considerazione apre ad una ulteriore chiave di lettura del film: la ricerca ossessiva della perfezione e della bellezza possono innalzare al cielo dell’arte, ma questa coincidenza di arte-vita è fatale, come la biografia di Oscar Wilde ha tristemente insegnato.

venerdì 25 febbraio 2011

IL TAO DELLA DECRESCITA


Giovedì 24 febbraio a Bologna, nell’ Aula Magna Ciamician di via Selmi, si è tenuto un incontro con S.Latouche che ha presentato il suo nuovo saggio Come uscire dalla società dei consumi: il tao della decrescita.
L’ analisi della contemporaneità di Latouche, lucida e radicale, è a tratti alleggerita da ironia e da citazioni “dal più grande filosofo esistente: W.Allen” e da Marx, “non Karl Marx ma Groucho Marx!”.
Proviamo a ricostruire i contenuti principali del suo discorso.
Uscire dalla società dei consumi significa rompere il paradigma occidentale, affermatosi tra il XVI e il XVIII secolo, del “sempre di più”, del “produttivismo”.
Le strade che ci si prospettano sono due.
La prima strada, definita della “crescita con crescita”, è quella che porta all’estinzione della specie. Ricordava come nella storia del pianeta ci sono state cinque grandi estinzioni, di cui l’ultima è quella che ha portato alla scomparsa dei dinosauri. Oggi scompaiono ogni giorno centinaia di specie animali. Una specie a noi particolarmente cara a rischio di estinzione è quella delle api (con tutti i problemi che comporta per l’ecosistema, aggiungo io!). La natura nel pensiero occidentale non è soggetto del diritto, per cui possiamo maltrattarla a volontà, stuprarla ( per il pensiero occidentale la natura non è certo la grande madre, la pachamama dei popoli dell’america meridionale).
Nella situazione attuale, ricordava Latouche, anche se smettessimo completamente di bruciare petrolio, la temperatura del pianeta salirebbe comunque di 2 gradi. Al livello attuale dei consumi si prevede invece un innalzamento della temperatura di 5 gradi o più. Questo significa che intere aree del pianeta verranno presto sommerse!
Più volte Latouche ha sottolineato che solo un folle o un economista può concepire una crescita infinita in un pianeta finito!
La via d’uscita è DECOLONIZZARE l’immaginario della crescita. La crescita infinita è un racconto mitico che costruisce l’equazione FELICITÀ=CONSUMO DI BENI= CRESCITA DEL PIL. Una crescita del PIL del 2% proiettata in 2000 anni (un arco di tempo relativamente breve per la vita di un pianeta) dà cifre inimmaginabili di beni prodotti e, quindi, quantità impressionanti di rifiuti impossibile da smaltire.
Tutta questa macchina economica (teorizzata per primo da Adam Smith nel 1776 con il Saggio sulla ricchezza delle nazioni) si basa sul presupposto che il “sempre di più” che normalmente definiamo avidità diventa invece la condizione della felicità pubblica. Ma invece della ricchezza delle nazioni questa economia produce ricchezze smisurate da una parte e la miseria di milioni di persone!
Se Marx (Karl, in questo caso) parlava già ai suoi tempi di “immensa accumulazione di merci”, cosa penserebbe oggi entrando in un nostro centro commerciale?
La società dei consumi ha funzionato “bene” nei trenta anni successivi al dopoguerra grazie a tre potenti fattori: il marketing e la pubblicità (strumento principe della colonizzazione dell’immaginario); il credito ( e quindi i prestiti come stimolo per i consumi); l’obsolescenza programmata dei prodotti ( ad esempio un computer “scade” dopo pochi anni).
Ma oggi “the party is over!”. Stiamo passando dal sogno di Smith all’incubo di Darwin!!! Oltre tutto la società che alimenta nuovi bisogni, produce continuamente frustrazione: il desiderio infatti si alimenta nell’assenza dell’oggetto desiderato.
La vera abbondanza si produce limitando i bisogni, con la frugalità.
Come dice Castoriadis viviamo in una post democrazia governata dalle lobbies e dai media, alimentata da quella che i greci definivano hibrys, dismisura.

La seconda strada è quella che oggi stiamo percorrendo: la crescita senza crescita! È la strada della disperazione, quella di una società della crescita che non cresce, sempre più popolata da disoccupati. Una società che, per far quadrare i conti, taglia sulla spesa sociale, la sanità, la scuola… Dietro l’angolo di questa società della crescita senza crescita ci sono i regimi autoritari, in cui gli apparati repressivi sono al servizio della difesa dei privilegi! Dal punto di vista dell’impatto ambientale questa seconda strada potrebbe essere meglio della prima perché si produce meno. Ma è come schiantarsi su un muro a 200 all’ora anziché a 300!

L’unica via d’uscita è la DECRESCITA che comporta innanzitutto una rivoluzione culturale (sulla decrescita potete consultare anche il mio articolo LA SAGGEZZA DELLA LUMACA).
Latouche ha concluso il suo discorso facendo vedere una incisione zen su pietra il cui significato è: “ si può accedere alla felicità limitando i desideri”.