mercoledì 21 luglio 2010

I CINQUE PASSI


I CINQUE PASSI
LA PSICOLOGIA INTEGRATIVA DI R.BENINI


Nel suo ultimo saggio I cinque passi (2010)R.Benini, psicologo e psicoterapeuta, individua un percorso di crescita verso l’autorealizzazione che si articola in diversi passaggi o, come dice lui, in cinque passi

Succede tutto all’improvviso. Senza che l’uomo lo chieda, senza comprenderne il senso e senza nessun preavviso, egli viene “buttato” nel mondo. All’inizio la sua situazione è talmente precaria che, privato dell’aiuto degli adulti, tornerebbe velocemente alla condizione di partenza… Per gli altri, invece, inizia una lotta per la sopravvivenza che li spinge a cercare adeguate forme di adattamento all’ambiente di vita. Ciò può avvenire realmente solo quando l’uomo diventa “padrone” delle proprie risorse fisiche e psichiche, che può utilizzare per conoscere il mondo esterno e i suoi abitanti e per affrontare le richieste e i cambiamenti esistenziali.
Il primo grande compito dell’uomo… è quello di conoscersi per poter scegliere quali strategie utilizzare quali strategie utilizzare per raggiungere gli obiettivi elencati sopra. Per realizzare tutto ciò, è necessario che, durante la crescita, e comunque per il resto della vita, egli venga aiutato ad accettare la precarietà della sua condizione, a integrare tutte le sue parti interne…, a soddisfare i bisogni di ognuna di esse, a non scappare davanti alle angosce esistenziali e a costruire personali forme di adattamento.” (op.cit.,p.23)

Vediamo in dettaglio i cinque passi…

Primo passo: accettare la condizione umana
Benini parte da una considerazione di carattere filosofico che echeggia l’esistenzialismo sartiano: l'uomo si trova come gettato nel mondo, indipendentemente dalla sua volontà. L'uomo si trova dunque nello stato di non poter rifiutare la sua esistenza: l’ esistere nel mondo e il relazionarsi con esso rappresentano una necessità che ciascun uomo non può eludere. Inoltre, come dice Sartre, non esiste alcun Dio in grado di garantire e di attribuire un preciso e determinato significato al mondo. La condizione umana è, quindi, vissuta come realtà necessaria, in cui ci si ritrova ma senza avere alcuna garanzia di senso.
L’uomo, così, vive con una domanda di senso alla quale molto spesso non riesce a dare risposta: “Imparare a vivere, senza conoscere il reale significato dell’esistenza, è un compito tutt’altro che facile e lo è ancor di più quando chi ci cresce è una persona, a sua volta, estremamente confusa e spaventata.” (ibidem , p. 32). Benini è scettico riguardo la possibilità di risolvere il problema che nasce con la coscienza della morte (per lui è un quesito insolubile, perché in vita non abbiamo esperienza della morte, pensiero che ricorda le parole della Lettera a Meneceo di Epicuro “il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più”), e postula che il senso dell’esistere possa essere trovato in un processo diretto verso l’autorealizzazione, nel quale si riesce a raggiungere un elevato livello di adattamento fondato sul rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente in cui si vive. È il senso che deriva dalla pienezza dell’esserci: “Per fare ciò l’uomo deve soddisfare i propri naturali bisogni, lottare contro le paure e adeguarsi alle leggi dell’adattamento: obiettivi tutt’altro che impossibili, se la società d’appartenenza e gli adulti di riferimento, invece di perdersi dietro quesiti insolubili o di rincorrere i paradisi dell’aldilà, insegnassero ai loro piccoli l’amore per la vita e per i propri simili.” (ibidem, p. 32)
In definitiva accettare la condizione umana significa accettare di vivere nell’incertezza: “Al di là di quelle che possono essere le visioni drammatiche dell’esistenza…è chiaro che l’unica strada da percorrere è quella di aiutare l’uomo ad accettare la propria condizione (ambientale e relazionale), tappa fondamentale per poterla vivere pienamente e, in alcuni casi, anche per riuscire a modificarla.” (ibidem, pp.33-34)


Secondo passo: integrare le tre menti
Benini riprende a proposito di questo “secondo passo” la teoria dei tre cervelli”, formulata per primo da Maclean (Evoluzione del cervello e comportamento umano, Torino, Einaudi, 1984), secondo cui esistono tre tipi di cervello ben distinti per caratteri neurofisiologici e competenze psichiche e differenziati per origine ed età filogenetica: rispettivamente sono denominati come paleoencefalo o cervello rettiliano, cervello paleomammifero o sistema limbico; cervello neomammifero o neocorteccia.
Il cervello rettiliano presiede alle forme di comportamento ripetitive, geneticamente stabilite, secondo programmi rigidi che non accettano il cambiamento. In un certo senso, secondo Maclean siamo nell’ambito della “coazione a ripetere” di cui parla Freud.
Il sistema limbico, invece, permette ai mammiferi di ricevere segnali sia dall’ambiente esterno che da quello interno e di adattarsi meglio all’uno e all’altro. Funzionando come trasmettitore d’informazioni che provengono dall’esterno e dall’interno, ci rende certi della “separatezza” da ciò che è altro da noi e della “convivenza” con noi stessi che dura tutta la vita. In altri termini, con questo cervello emerge la coscienza di sé.
Infine la neocorteccia è per Maclean il cervello che è “capace di leggere, scrivere e far di conto”. La neocorteccia è orientata verso il mondo esterno, da cui riceve le informazioni e rispetto al quale elabora delle mappe articolate. Inoltre, è capace d’innovazione, sa progettare soluzioni anche di fronte a problemi inediti e prevedere le conseguenze delle proprie scelte.
Benini riformula la teoria dei tre cervelli, parlando di compresenza di tre menti, espressione dei diversi livelli evolutivi raggiunti: la mente biologica, che guarda la sfera istintuale; la mente psicologica, che permette la nascita della coscienza di sé; la mente sociale, che dà origine all’empatia e alla conoscenza degli altri. Queste menti, per Benini, si collocano ognuna in una diversa fase dello sviluppo ontogenetico e filogenetico, e in assenza di una buona integrazione tra loro si viene a creare una situazione caotica e conflittuale. L’uomo integrato è colui che riesce ad armonizzare le diverse menti, rispondendo ai diversi bisogni che ogni mente chiede di soddisfare.
La mente biologica chiede risposta ai bisogni di autoconservazione (uomo biologico); la mente psicologica origina i bisogni di conoscenza di sé (uomo psicologico): la mente sociale, infine, dà vita ai bisogni di relazione (uomo sociale): “L’uomo integrato, a seconda delle richieste esistenziali, sarà perciò in grado, volta per volta, di coordinare gli “uomini” interni e di utilizzare quello maggiormente adatto alla situazione, muovendosi spinto dal bisogno di autorealizzazione.


Terzo passo: riconoscere e soddisfare i bisogni umani
Benini riprende la teoria dei bisogni umani formulata da Maslow (Motivazione e personalità, Roma, Armando, 1973), riadattandola in forma originale.
Maslow dispone i bisogni conativi all’interno di uno schema piramidale:
i bisogni di base sono definiti fisiologici e riguardano ad esempio la fame e la sete; seguono un gradino sopra i bisogni di sicurezza, quei bisogni che ci fanno avvertire l’esigenza di un mondo sociale ordinato retto da leggi; un gradino più in alto troviamo i bisogni di appartenenza e affetto, quel bisogno che ci spinge verso le relazioni umane interpersonali (ad esempio si desidera l’amicizia o appartenere ad un gruppo); al quarto gradino ci sono i bisogni di stima che riguardano la stima di sé e la stima degli altri; infine nel gradino più alto si trovano i bisogni di autorealizzazione che implicano la realizzazione del proprio potenziale (ad esempio, per chi ha talento per la musica l’autorealizzazione è diventare musicista).
La soddisfazione dei bisogni più bassi nella piramide permette di avvertire i bisogni più elevati. La frustrazione di bisogni importanti produce patologia.
Benini utilizza la metafora dell’albero al posto della piramide: alla base dell’albero si collocano i bisogni di autoconservazione che riguardano la sopravvivenza fisica (bisogni biologici- es. mangiare, bere, dormire; bisogni di cura del corpo)e psicologica (bisogni di sicurezza – es. vivere in un territorio sicuro - e curare la psiche); all’altezza dei primi rami ci sono i bisogni di autodeterminazione (conoscenza di sé) che fanno riferimento al bisogno di costruire confini psichici, di essere nutriti affettivamente, al bisogno di autonomia e di dipendenza; più in alto troviamo i bisogni di relazione che riguardano tutta la sfera dell’interazione sociale ( bisogni legati al riconoscimento –essere riconosciuti e riconoscere- e al vivere attivamente nei gruppi sociali di riferimento); in cima all’albero si trovano i bisogni di autorealizzazione con i quali si approfondisce la comprensione del proprio mondo interiore e dell’ambiente in cui si vive, si esprimono le proprie potenzialità e si contattano liberamente le proprie emozioni.


Quarto passo: non scappare davanti alle angosce esistenziali
La frustrazione sistematica dei bisogni produce angoscia: le angosce psicotiche derivano da una profonda frustrazione dei bisogni legati all’autoconservazione ( angoscia da frammentazione e da persecuzione) e producono una deformazione della realtà oggettiva; le angosce narcisistiche (angoscia da annullamento e da abbandono) derivano dalla frustrazione dei bisogni di autodeterminazione e conoscenza di sé, e producono una deformazione della rappresentazione di sé e degli altri; le angosce nevrotiche (angoscia da rifiuto e da emarginazione), infine, derivano dalla frustrazione dei bisogni di relazione e producono una deformazione dei contenuti emotivi e/o cognitivi. Bisogna notare che il rapporto tra bisogni e angoscia è inversamente proporzionale: all’aumentare della soddisfazione dei bisogni diminuisce l’angoscia.
“Un bambino cresciuto nell’angoscia viene costretto a prendere le distanze, senza averne consapevolezza, dai propri reali bisogni e viene indotto a sostituirli, a seconda del tipo di angoscia presente, con falsi bisogni familiari e sociali; nei casi più gravi esso si ritrova preda di patologie croniche sia psicologiche che fisiche.” (ibidem, p.79)


Quinto passo: costruire un personale adattamento alla vita
L’ultimo passo del percorso evolutivo per Benini è costituito dalla costruzione di un personale adattamento alla vita, basato su tre “leggi”:
• La legge dell’equilibrio: riguarda la capacità omeostatica dell’organismo di trovare nuovi equilibri in base ai cambiamenti;
• La legge della comunicazione riguarda la capacità di mettere a contatto l’ambiente interno (le tre menti) e l’ambiente esterno (fisico e relazionale) e di decodificare in modo corretto i segnali provenienti da dentro e da fuori;
• La legge del sintomo insindacabile: il sintomo si presenta ogniqualvolta l’uomo non è in grado di rispondere correttamente alle altre due leggi; il sintomo cioé segnala un disadattamento, un disequilibrio, una incomunicabilità.
Per costruire forme di adattamento soggettive e realistiche alla vita: “… è necessario raggiungere una buona conoscenza delle leggi dell’adattamento umano e acquisire la capacità di applicarle in modo elastico e individuale” (ibidem, p.117)




Conclusioni
Benini ci ricorda in diversi passaggi del suo saggio che questo percorso di crescita è molto spesso ostacolato dalla cultura d’appartenenza e da pratiche educative incapaci di dare risposta ai bisogni più autentici del bambino e della persona.

Mettere al mondo un bambino non comporta dotarlo magicamente della capacità di amare la vita e di riuscire a darle significato. Queste risorse, infatti, vanno educate e sviluppate nel piccolo già durante la crescita e nell’adulto per il resto dell’esistenza. Abbiamo imparato, però, che in presenza di società immature e “bramose”, di adulti angosciati e di ideologie e religioni più attente a castrare l’uomo che non ad avvicinarlo amorevolmente ai suoi bisogni, si possono determinare nell’individuo situazioni esistenziali di sofferenza…Per non perpetuare “il grande inganno” è perciò necessario che l’uomo impari a prendersi cura di sé e delle sue molteplici angosce. Ciò si realizza insegnando all’individuo a “guardarsi dentro”, per aumentare la conoscenza che esso ha di sé e per mettere in discussione tutti i comportamenti disadattivi o contro natura…Quel che è certo è che se l’uomo moderno continuerà a vivere nell’infantile illusione che sia sufficiente un farmaco, oppure il miglioramento della propria immagine, o anche l’accumulo di beni di consumo per debellare le angosce esistenziali, rischieremo di assistere nei prossimi anni, a un ulteriore “imbarbarimento” dell’esistenza. La sciagura più terribile che può colpire l’essere umano, infatti, è quella di perdere se stesso e di smarrire le risorse psicologiche e sociali indispensabili per riempire di significati la propria vita e per rimanere “attaccati” alla propria realtà.
(Ibidem, p.120)

In linea con l’insegnamento di Freud che in Il disagio della civiltà mette in rapporto la sofferenza psicologica individuale con la società e la cultura del tempo, Benini mette in evidenza come dietro il crescente malessere della psiche (sconcertanti sono i dati che riporta nel saggio a proposito del crescere della patologia depressiva) c’è una società incapace di offrire valori e direzioni di senso utili per una piena realizzazione umana. La responsabilità della via d’uscita è in primo luogo nelle mani di coloro che svolgono compiti educativi e a loro, in primo luogo, è destinato questo saggio.

domenica 11 luglio 2010

NARCISISMO: TRA SALUTE E PATOLOGIA


Sommario
Nella storia della psicologia i collegamenti tra patologia individuale e patologia sociale sono stati fatti fin dai tempi di Freud . Questo tipo di riflessione è stata sviluppata da Fromm e recentemente da Benasayag e Schmit nel loro bel saggio L’epoca delle passioni tristi. In questo articolo cerchiamo di evidenziare come il narcisismo sia una forza psichica che può variare lungo un continuum e sia da mettere in relazione con le variabili culturali proprie di una certa società.

Il mito di Narciso
Il mito di Narciso si trova nelle Metamorfosi di Ovidio e racconta di un giovane di bellissimo aspetto, figlio del dio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, di cui uomini e donne s’innamoravano perdutamente. Narciso preferiva passare le sue giornate cacciando, senza curarsi delle sue spasimanti, tra cui la ninfa Eco. Rifiutata da Narciso, la ninfa si nascose nei boschi fino a scomparire. Non solo Eco, ma tutte le giovani ed i giovani disprezzati da Narciso, invocarono la vendetta degli dei. Narciso venne così condannato da Nemesi ad innamorarsi della sua immagine riflessa nell’acqua. Sempre più affascinato dall’immagine del suo volto, Narciso giunse a non potersene più staccare, si piegò sull’acqua e si lasciò morire. Dove giaceva il suo corpo spuntò un magnifico fiore, che fu chiamato con il suo nome.

Il narcisismo per Freud

In una prima approssimativa definizione, narcisismo significa quindi amore per la propria immagine. In ambito psicoanalitico, Freud ha utilizzato il concetto di narcisismo operando la seguente distinzione:
1. Narcisismo primario: è concepito come uno stadio in cui il bambino investe tutta la sua libido su se stesso prima di rivolgersi agli oggetti esterni. Rispetto all’autoerotismo, dove ciascuna pulsione cerca il proprio appagamento legato al funzionamento di un organo, nel narcisismo primario l’appagamento è ancora autoerotico, ma con riferimento ad una immagine unificata del proprio corpo o ad un primo abbozzo dell’Io.
2. Narcisismo secondario: si caratterizza da un ripiegamento sull’Io della libido sottratta ai suoi investimenti oggettuali. Questo è possibile innanzitutto perché gli investimenti oggettuali non sopprimono gli investimenti dell’Io, e in secondo luogo perché, scrive Freud “L’Io va considerato come un grande serbatoio di libido da cui viene emanata la libido sugli oggetti, essendo comunque l’Io sempre pronto ad assumere su di sé la libido che da questi rifluisce”
Per comprendere meglio questa distinzione, bisogna ricordare che lo sviluppo psicosessuale per Freud si svolge secondo due linee:
• in relazione alle zone erogene (fase orale, anale, fallica, di latenza e genitale);
• in relazione all’oggetto.
Riguardo alla linea di sviluppo che riguarda il rapporto con l’oggetto, il bambino va incontro ad una prima fase di autoerotismo in cui le pulsioni parziali si soddisfano indipendentemente le une dalle altre, come piacere d’organo.
Si passa poi al narcisismo primario in cui le pulsioni parziali si raccolgono intorno ad un unico oggetto, che in questo caso è l’Io, un Io corpo percepito in modo unitario.
Il passo seguente è quello dell’amore oggettuale ossia dell’amore adulto maturo.
Si parla di narcisismo secondario, in riferimento ad un ritorno del narcisismo nella vita adulta. Il narcisismo secondario caratterizzerebbe sia fenomeni normali (regressione propria dell’innamoramento, dei bambini, di una malattia fisica), sia fenomeni anormali (malattia mentale), intendendo con questo termine il ritiro dell’investimento dal mondo esterno, ed un rifluire di queste cariche sull’Io. La libido, quindi, originariamente investe quella unità che è l’Io, per poi investire gli oggetti, ma può anche essere ritirata da questi e riportata di nuovo sull’Io. Ma, dice Freud in Totem e Taboo “ un essere umano resta in qualche modo narcisista perfino dopo aver trovato gli oggetti esterni per la sua libido”. Lo sviluppo, per Freud, sarebbe una evoluzione dal narcisismo assoluto verso una capacità di ragionamento obiettivo e di amore per l’oggetto, una capacità, comunque, che non va al di là di certi limiti.

Narcisismo individuale e sociale per Fromm


Fromm mette in discussione il concetto di libido, di energia sessuale, sostituendolo con quello più generale di energia psichica, ma lascia invariato lo schema interpretativo generale del narcisismo e la concezione dinamica dell’apparato psichico. Vediamo di ricostruire la sua visione del narcisismo, citando alcune pagine del suo Psicoanalisi dell’amore:

Iniziamo la nostra descrizione del narcisismo con due esempi estremi: il “narcisismo primario” del neonato e il narcisismo del malato. Il bimbo non ha ancora rapporti con il mondo esterno (nella terminologia freudiana la sua libido non ha ancora proiettato all’esterno gli oggetti). In altri termini, il mondo esterno non esiste per il bambino, a tal punto che egli non riesce a distinguere tra l’ “io” e il “non io”. Potremmo anche dire che il bambino non ha interesse ( interesse = “essere in ) al mondo esterno. La sola realtà che esiste per il bimbo è se stesso: il suo corpo, le sue sensazioni fisiche di freddo e di caldo, la sete, il bisogno di dormire e di contatto fisico. Il malato mentale è in una situazione che non si differenzia sostanzialmente da quella del neonato. Ma mentre per il bimbo il mondo esterno non è ancora emerso come reale, per quello esso ha cessato di essere reale. Nelle allucinazioni, infatti, i sensi hanno perduto la loro funzione di registrare gli eventi esterni – essi registrano l’esperienza soggettiva in categorie di risposte sensorie agli oggetti esterni. Nell’illusione paranoica agisce lo stesso meccanismo. Timore e sospetto, infatti, che sono emozioni soggettive, si oggettivizzano in modo tale che la persona paranoica si convince che gli altri cospirano contro di lei. È precisamente questa la differenza con la persona nevrotica: quest’ultima può avere costantemente paura di essere odiata, perseguitata, ecc., ma continua a sapere che è di questo che ha paura. Per la persona paranoica il timore si è trasformato in realtà…. La psicosi è uno stato di assoluto narcisismo, nel quale la persona ha infranto ogni nesso con la realtà esterna e ha sostituito la propria persona alla realtà. Essa è completamente piena di sé, è divenuta “dio e il mondo” per se stessa… (Fromm 1971, pp.66-67)

Fromm parlando del neonato ci ricorda che all’inizio il neonato vive quella fase che M.Mahler ha definito fase autistica: nel primo mese di vita il bambino non riesce a differenziare sé dal mondo esterno e non si accorge dell’esistenza separata di un agente di cure, di qualcuno cioè che lo accudisce. Solo dopo il secondo mese di vita emerge gradualmente una vaga e confusa consapevolezza dell’esistenza di un agente di cure materno. Il soddisfacimento dei bisogni fisiologici (fame), il contatto continuo con il corpo materno, l’osservazione del volto che si muove inducono il bambino a riconoscere, sia pur vagamente, l’esistenza di qualcosa che “non è lui stesso”, dal quale dipendono il suo benessere o il suo disagio. L’oggetto-madre non è tuttavia percepito come un’entità distinta da se stesso, ma è colto all’interno di una fusione simbiotica nella quale non esiste un confine netto, né fisico né psichico, tra bambino e madre (fase simbiotica). Solo dopo il quinto mese, con i primi tentativi di esplorazione fisica dell’ambiente, inizia quella fase di allontanamento fisico e psicologico dalla madre che viene definito processo di separazione-individuazione, che si completa intorno al terzo anno di vita con l’acquisizione della propria identità psichica e fisica: dice insistentemente “mio” e “io” per affermare se stesso, dice “no” per affermare la sua indipendenza, comincia a riconoscersi allo specchio.
Il successo di questo percorso evolutivo dovrebbe, quindi, permettere il sorgere nel bambino della consapevolezza di sé come individuo separato, e allo stesso tempo la consapevolezza dell’esistenza di un mondo fuori di sé. Nella psicosi, per Fromm, c’è un ritorno all’indifferenziazione infantile: il mondo esterno si eclissa dietro l’allucinazione. Il narcisismo assoluto, sia quello del bambino sia quello dello psicotico, si caratterizza, quindi, per la negazione della realtà oggettiva. Come dice Fromm: “Quali che siano le diverse manifestazioni di narcisismo, a tutte le sue forme è comune una mancanza di autentico interesse per il mondo esterno…” (op. cit. pag 71)
Ma se il narcisismo conduce, come insegna il mito, all’autodistruzione, perché rimaniamo, in diverso grado, legati a questa tendenza che sembra a tutti gli effetti disfunzionale per la vita? Fromm ci offre questa risposta.

Il narcisismo è una passione la cui intensità in molti individui può paragonarsi solo al desiderio sessuale e al desiderio di stare al mondo. In realtà molte volte si rivela più forte dell’uno e dell’altro. Persino nell’individuo medio nel quale esso non raggiunge tale intensità, resta un nucleo narcisistico che risulta quasi indistruttibile. Stando così le cose noi potremmo sospettare che, come il sesso e la sopravvivenza, anche la passione narcisistica abbia una importante funzione biologica….Biologicamente, dal punto di vista della sopravvivenza, l’uomo deve attribuire a se stesso un’importanza superiore a quella di chiunque altro. Se non facesse così da dove prenderebbe l’energia e l’interesse a difendersi contro gli altri, a lavorare per la propria sussistenza, a lottare per la propria sopravvivenza, a levare le proprie richieste contro quelle degli altri?...
Comunque, una volta riconosciuto che il narcisismo ricopre una funzione biologica importante, ci troviamo davanti ad un altro problema. L’estremo narcisismo non ha la funzione di rendere l’uomo indifferente agli altri, incapace di mettere al secondo posto i propri bisogni quando questo sia necessario per cooperare con gli altri? Il narcisismo non rende l’uomo asociale e, in realtà, quando raggiunge un grado estremo, pazzo? Non c’è dubbio che l’estremo narcisismo individuale sarebbe un grave ostacolo a tutta la vita sociale. Ma se è vero questo, si deve dire che il narcisismo è in conflitto col principio della sopravvivenza, perché l’individuo può sopravvivere soltanto se si organizza in gruppi; difficilmente qualcuno sarebbe in grado di proteggersi da solo contro i pericoli della natura, né sarebbe capace di fare molti generi di lavoro che possono essere fatti solo in gruppo. Si arriva allora al risultato paradossale che il narcisismo è necessario alla sopravvivenza, e al tempo stesso è una minaccia alla sopravvivenza. La soluzione di tale paradosso segue due direzioni: una è che il narcisismo ottimale serve alla sopravvivenza più di quello massimale, cioè a dire: il grado biologicamente necessario di narcisismo si riduce al grado di narcisismo compatibile con la cooperazione sociale; l’altra sta nel fatto che il narcisismo individuale viene trasformato in narcisismo di gruppo, che il clan, la nazione, la religione, la razza, ecc., divengono gli oggetti della passione narcisistica invece che di quella individuale. Così l’energia narcisistica si mantiene ma viene utilizzata nell’interesse della sopravvivenza del gruppo piuttosto che per la sopravvivenza dell’individuo…
Dal punto di vista di qualsiasi gruppo organizzato che voglia sopravvivere, è importante che il gruppo sia investito da parte dei suoi membri di energia narcisistica. La sopravvivenza di un gruppo dipende, in qualche modo, dal fatto che i suoi membri considerino la sua importanza quanto o di più di quella delle loro stesse vite, e che credano inoltre nella validità, o anzi nella superiorità, del loro gruppo in confronto agli altri.
(op. cit. pp.72-78)

Per Fromm, quindi, il narcisismo è una forza ineliminabile che, in un certo grado, è funzionale alla sopravvivenza, all’affermazione di sé; ma quando è eccessivo rende l’individuo inadatto alla vita sociale e alla cooperazione con altri individui. Per evitare i rischi derivanti dall’eccessivo narcisismo individuale, la società incoraggia lo spostamento dell’ energia narcisistica dal piano individuale a quello sociale. A questo punto sarà il proprio clan, la nazione o il gruppo di fedeli ad essere investito di energia narcisistica. L’appartenenza ad un gruppo, considerato dai suoi membri superiore, si riverbera, infatti, positivamente sull’ autostima degli individui che ne fanno parte. L’identificazione con un gruppo considerato “superiore” permette, infatti, di migliorare l’immagine di sé, tramite un processo che si potrebbe definire sillogistico: “il mio gruppo è superiore (premessa maggiore); io faccio parte del gruppo (premessa minore) = io sono superiore (conclusione)”. Così come a livello individuale il narcisismo eccessivo provoca l’incapacità di ragionare in termini oggettivi, anche a livello sociale una elevata coesione narcisistica genera fenomeni patologici dello stesso segno.

Riguardo alla patologia del narcisismo di gruppo, il sintomo più evidente e frequente, come nel caso del narcisismo individuale, è una mancanza di obiettività e di giudizio razionale… Se le azioni politiche si fondano sulle auto-glorificazioni narcisistiche, la mancanza di obiettività conduce sovente a conseguenze disastrose… Il narcisismo di gruppo ha bisogno di soddisfazioni proprio come quello individuale. Da un certo punto di vista questa soddisfazione è fornita dalla comune ideologia della superiorità del proprio gruppo, e della inferiorità di tutti gli altri… Se il narcisismo di un gruppo viene ferito, troviamo allora la stessa reazione di ira di cui abbiamo parlato riguardo al narcisismo individuale….La violazione della bandiera, gli oltraggi contro il proprio Dio, imperatore, leader, la perdita della guerra e del territorio hanno sovente portato a violenti sentimenti di vendetta collettiva che in seguito sfociarono in nuove guerre. Il narcisismo ferito può essere placato soltanto se l’offensore viene schiacciato e così l’affronto al proprio narcisismo viene cancellato. La rivalsa individuale e nazionale, si basa sul narcisismo ferito e sul bisogno di “curare” la ferita mediante l’annientamento dell’offensore.
(ibidem, pp.85-87)

Esiste quindi una patologia narcisistica individuale e una patologia narcisistica sociale. Quali relazioni esistono tra questi due livelli di narcisismo? Per provare a dare una risposta, è opportuno mettere a confronto diversi modelli culturali.

Modelli culturali e visioni del sé

Una certa dose di amor proprio, stima e rispetto di sé, sono nella nostra cultura occidentale non solo normali, bensì auspicabili.
Che questo assunto, però, non sia universale, lo possiamo capire ricostruendo alcuni passaggi dell’intervento di Jeanne Tsai, psicologa della Stanford University, in uno degli incontri di Mind and Life (gruppo di studio formato dal Dalai Lama e ricercatori di primo piano nell’ambito della psicologia e delle neuroscienze), i cui contenuti sono riportati nel saggio Emozioni distruttive (Dalai Lama, D. Goleman 2003).

“In che modo la cultura influenza le emozioni? Le culture sono simili e diverse per molti aspetti. Gli scienziati sociali hanno identificato una delle differenze tra le culture occidentali e quelle non occidentali: la visione del sé che, a sua volta, influenza le nostre emozioni o il nostro modo di sentire”. Jeanne spiegò che il nucleo profondo del sé sembra dipendere meno dalla cultura, mentre lo strato più esterno ne è fortemente influenzato. Questo strato esterno era l’argomento della sua presentazione odierna.
Sebbene ogni orientamento culturale di una certa ampiezza, quale ad esempio la visione del sé, si muova lungo un continuum, Jeanne sviluppò l’argomentazione sottolineando i casi estremi. “ Un tipo di questo strato esterno è quello che gli psicologi Hazel Markus e Shinobu Kitayama chiamano un sé ‘indipendente’ – tipico di individui che vivono in culture occidentali – che vede il sé come separato dagli altri, inclusi i genitori, la prole, i colleghi e amici. Queste persone considerano il sé come qualcosa che possiede dei valori, delle credenze – degli attributi interni.
In opposizione a questo tipo, esiste un sé ‘interdipendente’, molto più tipico di individui che vivono in culture asiatiche. Queste persone vedono il sé come qualcosa di collegato agli altri, qualcosa che fa effettivamente parte di un contesto sociale. Il sé interdipendente si definisce in termini di relazioni sociali…
“Come facciamo a sapere se queste visioni diverse del sé esistono davvero? Sebbene la letteratura e le arti forniscano degli esempi, a noi psicologi piace fare delle domande del tipo ‘Chi sei?’. Gli americani, dotati di un sé indipendente rispondono: ‘Sono aperto, sono amichevole, sono intelligente, sono una buona persona’, mentre i membri delle culture asiatiche dicono: “Sono figlia o figlio di, lavoro in questa ditta, suono il piano”. Si definiscono più in termini di ruoli sociali che non di attributi interiori”…
“Queste diverse visioni culturali del sé influiscono sugli obiettivi che costellano la vita di un individuo. L’obiettivo della vita di una persona con un sé indipendente consiste nel separare, nel dividere questo sé dagli altri. Sono persone che, in linea di massima, lo fanno esprimendo le proprie credenze interiori, dicendo come stanno e sottolineando la loro importanza, soprattutto in relazione agli altri…Ma questi obiettivi sono diversi da quelli di qualcuno che possiede un sé interdipendente, che consistono nel mettersi in contatto con gli altri e nel mantenere i rapporti. Lo facciamo moderando le nostre credenze interiori e minimizzando l’importanza che crediamo di avere rispetto agli altri…Queste visioni divergenti del sé influenzano aspetti diversi delle emozioni…Anzitutto alterano ciò che costituisce un’emozione desiderabile…gli occidentali danno valore al potenziamento del sé mentre gli asiatici ne danno alla cancellazione del sé…Nella cultura americana pensiamo che sia molto, molto importante avere un alto livello di autostima…Riteniamo che sia un bene avere una autostima elevata, e che una autostima bassa sia un male; se è bassa, ad esempio, è in relazione alla depressione e a sensazioni d’ansia… L’idea è che gli asiatici poiché hanno in media un’autostima più bassa, possono sembrare meno sani dal punto di vista psicologico all’interno della cultura americana dominante. Ma non è così – si tratta semplicemente del fatto che la loro visione normale non implica una valorizzazione del sé pari a quella degli angloamericani”.
(op. cit. pp 334-340)

Può essere interessante notare a questo proposito che la diffusione del Disturbo Narcisistico di Personalità sembra riguardare prevalentemente alcuni contesti culturali. Secondo alcuni osservatori, infatti, questo disturbo è diffuso quasi esclusivamente in paesi capitalistici occidentali.
Come si caratterizza questo disturbo? Vediamo la descrizione che ne fa P.Kernberg e altri in Disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti.


Anche se il senso di grandiosa importanza del sé è centrale nel DP narcisistico, una caratteristica associata è la vulnerabilità dell’autostima. Tale ipersensibilità rende i pazienti con DP narcisistico estremamente sensibili alla critica o all’insuccesso, a cui possono rispondere col disdegno, la rabbia o un contrattacco di sfida. Il loro senso endemico di aver diritto è spesso riflesso in un funzionamento difettoso del Super Io, che si presenta come una mancanza di preoccupazione, colpa, o dispiacere riguardo al trattare male gli altri. Il mancato auto-monitoraggio che ne risulta dà luogo a tratti antisociali; fallimenti personali, sconfitte o un comportamento irresponsabile possono essere giustificati con razionalizzazioni, prevaricazioni o chiare menzogne. Inoltre gli introietti persecutori, distruttivi, primitivi, che contribuiscono alla formazione della coscienza ma che non sono stati ben integrati all’interno del super io, emergono proiettati all’esterno negli altri come angosce paranoiche, o vengono espresse all’interno come sintomi somatici e ipocondriaci. Infine l’invidia, implacabile caratteristica del paziente con DP narcisistico, distrugge sia la capacità di sperimentare soddisfazione per ciò che si è riusciti a fare o gratitudine per quello che gli altri hanno fatto. Il senso cronico di invidia e svalutazione, l’idealizzazione primitiva di sé e degli altri, gli sforzi verso un controllo onnipotente, il ritiro narcisistico o il mantenersi a distanza sono tutte difese che mirano a proteggere il sé grandioso.
(op. cit, pag. 174)

In una cultura che incoraggia una visione di sé “indipendente”, in cui l’individuo è spinto a definire il proprio essere tramite attributi interni (e non in virtù del sistema di relazioni in cui si colloca), e dove questi attributi vanno nella direzione della “forza e capacità performativa” è forse strano che l’individuo tenda a nascondere le proprie fragilità e a coltivare una immagine grandiosa di sé?

La clinica del legame

Benasayag e Schmit nel saggio L’epoca delle passioni tristi (2005) partono dalla valutazione negativa della nostra società, disgregata dal punto di vista delle relazioni (un contesto sociale di per sé patogeno), e arrivano a proporre una clinica del legame.

“Lavorare per l’autonomia delle persone”: questo potrebbe essere il motto dell’attuale ideologia dominante nell’ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale…In una società in cui i legami sono vissuti come costrizioni o come contratti, l’essere autonomi è percepito come una qualità sociale altamente desiderabile…Non è inutile un breve richiamo ad Aristotele. Aristotele infatti, contraddicendo il senso comune, spiega che lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive…Paradossalmente, quindi, la nostra società è riuscita a foggiare un ideale di libertà che assomiglia, come una goccia d’acqua, alla vita dello schiavo così come la definisce Aristotele…
Si direbbe che, nella nostra società, essere autonomi significhi semplicemente essere forti… Noi psicoterapeuti siamo tenuti a porci questo obiettivo: rendere le persone deboli che ci consultano “meno deboli”, anche sapendo che è assolutamente impossibile. Così facendo, infatti, le mettiamo ancor più in difficoltà, perché rimandiamo loro un’immagine svalutante di sé, in quanto non riescono a fare ciò che dovrebbero, ovvero essere autonome e forti.
Il grado di forza e debolezza è il solo criterio adottato per pensare le nostre vite e concepire le nostre esistenze. La forza rappresenta una tale ossessione che la nostra società ha prodotto una concezione della libertà fondata sul dominio: libero è colui che domina….I nostri contemporanei sognano un’autonomia-dominio, aspirano a conquistare un potere sugli altri e sull’ambiente che consenta loro di perseguire i propri scopi e soddisfare le proprie voglie, senza ostacoli e senza l’opposizione di chicchessia. …Alcuni interventi terapeutici si propongono come finalità questa autonomia-potere e cercano di aiutare il paziente a dominare al meglio il suo ambiente, la sua psiche e i suoi sintomi. In questa logica non interessa affatto cercare di comprendere il messaggio o la difficoltà esistenziale che si nascondono dietro il sintomo o in un comportamento, perché quel che conta è diventare un lupo performante, dominare tutto, comprese le proprie pulsioni, non nel senso proposto dagli ideali di saggezza di molte filosofie, ma per canalizzarle ai fini di una vita produttiva e utilitarista…
La nostra società avalla l’idea che tutto sia possibile e che la libertà sia strettamente legata al dominio: dobbiamo fare di tutto per vincere il destino. L’alternativa filosofica a questa tendenza dominante ritiene che la libertà consista nell’assumere il proprio destino…
Noi siamo ciò che è dato, ciò che viene tessuto da una certa epoca e per una certa epoca. Non “possediamo” un destino ma, al tempo stesso, non siamo niente di più, perchè ogni tentativo di sfuggirvi ci condanna al nulla, alla fatalità. In breve, noi siamo questo destino….Il destino è quell’insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano determinando una singolarità, una persona. È costituito dai legami che creiamo e sviluppiamo liberamente…La libertà conciliata con il destino ci installa in una dimensione di fragilità….Entrare nella fragilità significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa. I legami non sono i limiti dell’io, ma ciò che conferisce potenza alla mia libertà e al mio essere. La mia libertà dunque non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono solo atti di liberazione che ci connettono agli altri. È questa la dimensione, o meglio sono queste le dimensioni della fragilità. Una prospettiva filosofica di questo tipo può costituire la base di una psicoterapia ed è in grado, a nostro parere, di far fronte alle sfide della nostra epoca.
(op. cit. pag.101-106)


Riflessioni conclusive

Al termine di questa panoramica riguardante il narcisismo quali conclusioni si possono trarre? Ripensando alla lezione di Freud, secondo cui la patologia individuale (conflitto intrapsichico tra le diverse istanze, in particolare tra Es e Super Io) non può essere compresa se non in relazione ad un contesto sociale (nel suo caso una società che sacrifica la libertà in nome della sicurezza -si rilegga a questo proposito Il disagio della civiltà-), ritengo che il fenomeno del narcisismo a livello individuale non sia comprensibile se non in relazione ad una analisi del nostro contesto socio-culturale. La nostra è una società che, come dice Jeanne Tsai, coltiva una visione del sé indipendente, dell’individuo come monade. Potremmo anche dire che la nostra cultura celebra l’individualismo estremo a scapito delle relazioni, vissute quasi come legami di cui disfarsi appena possibile. Questa società e questa cultura incoraggiano le patologie narcisistiche sia a livello individuale sia a livello di gruppo. L’unica via d’uscita da questa situazione mi sembra essere quella indicata da Fromm. Nel saggio già citato, Fromm, partendo dalla constatazione dell’esistenza in ognuno di noi di un nucleo narcisistico probabilmente ineliminabile, propone un cambiamento di “oggetto”.

Se l’intera famiglia umana, potesse diventare l’oggetto del narcisismo di gruppo invece di assumere come oggetto una nazione, una razza, un sistema politico, sarebbe un grosso vantaggio. Se l’individuo potesse sperimentarsi, in primo luogo, come cittadino del mondo e potesse andare orgoglioso dell’umanità e delle opere compiute da essa, il suo narcisismo si volgerebbe verso il genere umano, piuttosto che verso i suoi membri in conflitto. Se i sistemi educativi di tutti i paesi stimolassero le imprese del genere umano invece delle imprese di una singola nazione, si potrebbe fare qualcosa di più convincente e dinamico in favore dell’orgoglio di essere uomo…
(op. cit. pp.90-91)

In questa prospettiva, che personalmente condivido, lo sforzo culturale, educativo e politico dovrebbe andare nella direzione di riconoscere sempre più l’interdipendenza delle persone e delle nazioni, a scapito di visioni illusorie che prospettano individui-atomi e nazioni gloriose e autosufficienti.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI



BENASAYAG, M., SCHMIT, G.
2005 L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

DALAI LAMA, GOLEMAN, D.
2004 Emozioni distruttive, Mondadori, Milano.

FREUD, S.
1971 Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.

FROMM, E.
1971 Psicoanalisi dell’amore, Newton Compton, Roma.

KERNBERG et al.
2001 I disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti, Fioriti, Roma.

lunedì 5 luglio 2010

BROTHERHOOD



È nelle sale di prima visione “Brotherhood” l’opera prima del regista danese, Nicòlo Donato, vincitrice del Marc’Aurelio d’Oro allo scorso Festival del Film di Roma. Il regista di origini italiane, uscito dalla scuola Zoetrope di Lars Von Trier, firma una pellicola coraggiosa e coinvolgente su un tema molto delicato: l’omosessualità in ambienti di estrema destra. La storia raccontata da Donato mette infatti in primo piano la vita di un gruppo neo nazista che pratica "simpatici" passatempo come picchiare omosessuali la sera, andandoli a cercare nei loro abituali luoghi di ritrovo, o, in alternativa, qualche malcapitato pakistano. La diversità dà fastidio... Nella caccia all’omosessuale possiamo cogliere quel meccanismo di difesa (denominato da M.Klein “identificazione proiettiva”), tramite cui si proietta sull’altra persona (il diverso) una parte rifiutata e negata del proprio Sé, così che – una volta proiettata e identificata in lui – possa in lui essere negata, violentata, uccisa. L’altra persona diventa lo schermo su cui proiettare, identificare, aggredire il fantasma dei propri mostri interni, come se nell’altra persona si aggredisse, violentasse, uccidesse se stessi, la parte più profonda e negata di sé, quella che non si vuole far accedere alla coscienza.
Così Jimmy, il duro del gruppo nazi, quello che adesca il ragazzo omosessuale per poi riempirlo di botte insieme agli altri del gruppo, si rivelerà nel corso del film sensibile alla seduzione di Lars, un giovane militare allontanato dall'esercito dopo uno scandalo di natura sessuale. Tra le scene iniziali del film c’è proprio il rifiuto da parte di un superiore di una promozione promessa a Lars: “Alcuni soldati ci hanno riferito delle tue attenzioni particolari nei loro confronti…metteremo a tacere la cosa se rifiuti l’incarico!”. La carriera stroncata fa irritare i familiari di Lars, una famiglia alto borghese che ostinatamente non ascolta Lars, le sue ragioni, ma anzi gli “impone” un ulteriore tentativo nella vita militare, ricorrendo a delle conoscenze. Questo muro di incomprensione, insieme alla noia per una vita banale, spingono Lars ad accettare l’invito di “Chilo”, il capo dalla faccia pulita del gruppo nazi.
Ma perché Lars, che sa di essere omosessuale e tutto sembra fuorché nazista, entra nel gruppo? Il regista risponde alla domanda dicendo: “Lo fa perché in casa non lo rispettano, sua madre vuole che sia come vuole lei, il padre è praticamente assente, e lui ha bisogno di una famiglia e di amore. All’inizio è attratto dal gruppo perché vede che si divertono, sono una specie di famiglia, e poi incontra Jimmy. E’ lui la figura paterna forte che non ha a casa, e di cui ha bisogno. E poi se ne innamora. Non è che voglia essere nazista, ma ha bisogno di un gruppo di riferimento, in cui sentirsi apprezzato. Non riceve queste cose dalla sua famiglia. Quindi la sua è una decisione razionale: entra a far parte di un gruppo dove lo fanno sentire in qualche modo importante e rispettato”.
Questa ricerca di una appartenenza alternativa a quella familiare è raccontata nel film in modo esplicito: quando Lars litiga definitivamente con i genitori per la loro intromissione nelle sue scelte (la madre procura un appuntamento per il lavoro a Lars senza che lui l’abbia chiesto), Lars andrà ad abitare con il suo “mentore” Jimmy.
Jimmy e Lars vivono in una casetta da ristrutturare vicino al mare, un luogo destinato alle attività del gruppo neo nazista. Ma nella convivenza, nello spirito cameratesco, nelle lotte corpo a corpo, nel fare il bagno nudi, nasce quella intimità dei corpi che con una certa “naturalezza” porta i due alla fusione erotica e sessuale.
Sarà il fratello di Jimmy, testimone casuale di un rapporto tra i due, a denunciare il “misfatto” a Chilo. Scatta così la vendetta del branco…
Questa storia d’amore omosessuale riporta alla mente il bel film di A.Lee “I misteri di Brokeback Mountain”. L' accostamento può sembrare indebito se ci si ferma allo stile narrativo: A.Lee, infatti, racconta la sua storia d’amore con immagini ad alta definizione, sullo sfondo di magnifici paesaggi naturali; mentre Donato parla un linguaggio asciutto quasi documentaristico. Ma in entrambi i film nasce una storia d’amore tra uomini, laddove i nostri stereotipi porterebbero ad escludere questa possibilità: tra cow boys e neo nazisti, personaggi icona del vero maschio. Proprio la sensazione di “inatteso” (ciò che è atteso è "luogo comune"), porta ad interrogare gli stereotipi: nel nostro immaginario l’omosessuale è “gay”, effeminato, con movenze molli, stilista o parrucchiere. È quello il suo posto nell’ordine sociale…non certo nell’esercito o dove si tengono a bada mandrie di animali!
Che questa immagine stereotipata dell’omosessualità sia ben lontana dall’essere “naturale”, ce lo dice il fatto che nell’antica cultura greca, l’omosessualità era praticata dagli uomini considerati più virili. Socrate, ad esempio, è citato da più fonti come esempio di eroismo in guerra, instancabile, coraggioso, omosessuale-eterosessuale insieme…Si, omosessuale e padre di famiglia, altra infrazione ai nostri stereotipi che vogliono perfettamente “classificare” la natura umana in categorie impermeabili...
Allora, questo film merita attenzione sia per il tema indagato sia per la qualità dello sguardo su questi territori di confine, uno sguardo che racconta in modo essenziale una storia d’amore tra uomini, con una presa sulla realtà che fa pensare al documentario.

giovedì 1 luglio 2010

DANDY E MODA



Sull’Espresso in edicola (1 luglio 2010), nella sezione “Società”, troviamo un articolo sulla moda maschile primavera-estate 2011, intitolato Mister Dandy. Riporto l’incipit e qualche passaggio per poterne commentare i contenuti.

La moda maschile è un Comma 22. Nel senso del paradosso. In “Catch 22”, di Joseph Heller, irrisolvibile era la contraddizione, nel regolamento militare, tra l’articolo “L’unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia” e l’altro che recitava “Chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo”. Nella moda uomo il loop è questo: se è ad alto tasso di creatività, spesso risulta eccentrica; però quando è saggia rischia la prevedibilità. Il deja vu, peccato mortale dello stile. Non sono infinite, anzi poche le note che si possono suonare, per costruire l’armonia dell’eleganza virile. Steccare è facile: la moda maschile è un esercizio di bravura. Tanto più in tempi che nulla perdonano a nessuno. Così la primavera-estate 2011, appena presentata a Milano, si è mossa tra questi paletti. L’asticella era alta: i segnali di ripresa ci sono, ma sono timidi, e un consumatore ancora traumatizzato dagli ultimi due anni di crisi non va disorientato. Perciò si è visto un bombardamento gentile: di iniziative, idee, sollecitazioni. Per colpire la fantasia…
Se un tema c’è, è il ritorno di un dandy aggraziato (corsivo nostro). Che sembra non dar peso a nulla, in una sua appagata indolenza Così l’uomo di D&G, presentato mentre si concede un picnic vestito di quadretti Vichy, spesso in bermuda, altro capo immancabile, stampe a motivi Hawaii ed espadrillas. La sera la giacca da smoking è morbida, in colori pastello. Neodandy, perfino dannunziano, l’uomo di Etro, che si veste di stampe paisley su camicie in georgette che unisce a bermuda di seta. Il lavoro non sembra una sua preoccupazione, come accade anche da Salvatore Ferragamo: facile immaginare il suo uomo sulla Croisette, set perfetto per blazer blu, giacche a righe, leggeri sandali chic. Cavalli esaspera i toni, il suo dandy è il più dandy di tutti: lo ha immaginato durante un viaggio in Indonesia, da qui il colore e le stampe, le camicie con ricami, le sete animalier, i dettagli in pailletes. Un uomo che parte con borse da viaggio in coccodrillo e camoscio: dentro ha infilato giacche in mohair e pantofole da sera in cristalli.

Barthes in “Le dandysme et la mode” (Dandies and dandysm, United States Lines, 1962) afferma che la moda ha ucciso il dandismo generalizzandolo: “ È l’intervento di una potenza intermedia tra l’individuo assoluto e la massa totale. La moda è stata in qualche modo incaricata di fagocitare e di neutralizzare il dandismo: la società moderna l’ha costituita come una sorta di organismo di perequazione destinato a stabilire un equilibrio automatico fra l’esigenza di singolarità e il diritto di tutti a soddisfarla”.
Il primo interrogativo, quindi, è questo: è possibile parlare di dandismo, affermazione dell’originalità e della singolarità, all’interno del sistema moda, che per sua vocazione è modello riproducibile rivolto ai più, o almeno ad uno specifico segmento di mercato?
Il secondo interrogativo riguarda l’espressione “dandy aggraziato”. Si può usare l’espressione “aggraziato” nel caso del dandy, figura che nella sua storia ha prodotto scandalo, giocato con la provocazione ai limiti della regola sociale, sino alla trasgressione?
Per tentare di rispondere a questi interrogativi credo sia necessario ripercorrere brevemente la storia del dandismo. In Inghilterra, alla fine del Settecento, compare, nell'alta società londinese, un frac blu, una cravatta immacolata, inamidata, degli attillati pantaloni color crema, e degli alti stivali con risvolto; il tutto indossato dall' "arbiter elegantiae" per eccellenza: Lord Brummell, detto il Beau (il 'bello'). La sua è l'eleganza di chi interpreta se stesso, di chi "vive e dorme davanti ad uno specchio" (Baudelaire). Nella sua folgorante ascesa sociale, Brummell diventa consigliere e amico del sovrano reggente, Giorgio IV, principe di Galles. Ma il Beau, l'impertinenza elegante fatta persona, non riconosce la sovranità di nessuno, tanto meno del sovrano - aspirante dandy - che Brummell tratta malissimo, arrivando a volte a metterlo in imbarazzo in pubblico con qualche sottile battuta: “Chinarsi, Brummell, davanti al re? Non sia mai, potrebbe sgualcirsi la giubba”. Quando il reggente cerca di scimmiottare l'amico, inventando il 'gilet sbottonato', tale moda non viene seguita da nessuno, se non da cortigiani, servi, camerieri, carrettieri, insomma, dagli snob.
Fermiamoci un attimo sul termine snob che spesso viene impropriamente sovrapposto al dandismo: snob deriva dal latino sine nobilitate e significa “sprovvisto di titoli nobiliari”. Secondo Thackeray (The Book of Snobs, 1945), lo snob è colui che sentendosi inferiore materialmente, cerca di nasconderlo sotto la maschera dell’affettazione: lo caratterizza il principio dell’emulazione, dell’imitazione di un modello. Lo snob riproduce i segni esteriori della classe sociale di riferimento e con questa imitazione del modello manifesta il desiderio di appartenere a quella classe. Il dandy è il contrario dello snob. Di Lord Brummel si diceva che preferisse stupire piuttosto che piacere. Ogni sua apparizione in società doveva destare stupore, ogni sua battuta rimbalzare nelle conversazioni come un ipse dixit, ogni sua soluzione vestimentaria diffondersi come un’onda. Si ricorda una sua famosa battuta rivolta al Principe di Galles: era al parco con un amico, che si fermò per salutare il Principe; Brummel forte chiese all’amico:”Who is your fat friend?” (“Chi è quel tuo amico grasso?”). Un’insolenza simile, provocatoria, era impensabile per uno snob. Il punto centrale della differenza tra snob e dandy è che lo snob, nel suo processo di assimilazione di modelli, tende all’uniformità aggregante; il dandy accentua la separazione. Lo snob cerca il consenso, vuole essere integrato in una categoria sociale privilegiata; il dandy crea scandalo, aumenta la distanza sociale, tende all’isolamento. Lo snob parte dalla differenza e cerca l’uguaglianza; il dandy parte dall’uguaglianza per produrre differenza. Mentre lo snob è perfettamente funzionale all’interno del mondo borghese, il dandy scava l’abisso della differenza fino a precipitarvi, fino alla morte. Brummell, in esilio volontario a Parigi per fuggire dai debiti di gioco, morì pazzo, in un albergo, al termine di uno dei frequenti ricevimenti immaginari al quale aveva invitato tutta la nobiltà inglese.
Intorno alla seconda metà dell’ottocento, il dandismo è più vivo in Francia, dove il dandy diventa l'esponente di una cultura dell'apparenza e della diversità che rivela forti connessioni con i movimenti artistici e letterari dell'epoca. Baudeleire è la figura più significativa (1821-1867). Tra le sue pagine di Le peintre de la vie moderne (1863) leggiamo: “ Si facciano chiamare raffinati, incredibili, beaux, leoni o dandy, tutti provengono da una stessa origine, tutti partecipano dello stesso carattere di opposizione e di rivolta, tutti sono dei rappresentanti di ciò che vi è di meglio nell’orgoglio umano, di questo bisogno, oggi troppo raro, di combattere e distruggere la trivialità…”. Baudeleire vede nel dandy l’esemplare di una nuova aristocrazia spirituale, che si presenta sulla scena sociale non tanto con la determinazione di una specie in ascesa quanto con la fierezza di una specie in estinzione: “…l’ultimo guizzo di eroismo nella decadenza…un sole al tramonto; come l’astro che declina…superbo, senza calore e pieno di malinconia”. Il dandy si oppone al “vecchio”, rappresentato dai riti della vecchia aristocrazia nobiliare, e al “nuovo” degli ambigui valori emergenti di una società in cammino verso la democrazia.
Alla fine dell’ottocento, la figura più rappresentativa del dandismo è Oscar Wilde (1854-1900). Con lui la trasgressione dandistica diventa anche scandalo sessuale. La condanna di Wilde nel 1895 a due anni di lavori forzati per avere violato la legge penale che codificava le regole morali in materia sessuale, è una doccia ghiacciata per gli aspetti moda della sessualità atipica, sinora quasi ammessa, purché sempre nelle debite forme della “trasgressione controllata”.

Dopo questa breve e incompleta panoramica sul fenomeno dandistico, proviamo a dare risposta ai due interrogativi sorti dalla lettura dell’articolo dell’Espresso.
Come suggeriva Barthes, moda e dandismo sono due fenomeni sociali incompatibili. Nel dandy c’è la ricerca estrema dell’originalità , l’affermarsi del “maschile singolare”; nella moda si offre un modello riproducibile. Il dandy si produce come opera d’arte, che vive nella sua aura di unicità; è un fenomeno che, al tempo della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, è difficile possa rivivere. La società dei consumi consente solo l’imitazione di modelli, l’essere alla moda tramite l’adozione delle diverse proposte stagionali. La moda, da questo punto di vista, è fenomeno più snob che dandy. La moda, per buona parte della sua storia, si è caratterizzata, infatti, per quel processo di diffusione che Veblen, nella sua opera La teoria della classe agiata, definiva “trickle down effect”, effetto gocciolamento. In altri termini, la moda si è diffusa nella società “gocciolando” dall’alto verso il basso: le mode venivano lanciate dalle classi superiori, per poi venire adottate pian piano da quelle inferiori. L’emulazione però è, come abbiamo osservato, ciò che caratterizza lo snobismo: è l’illusione che portare i segni esteriori della classe superiore possa produrre la magia di una appartenenza di fatto negata. Oggi parlare di diffusione della moda per “gocciolamento” dall’alto verso il basso non ha più senso. Le parti sono spesso invertite e le mode di strada, quelle popolari (…pensiamo al caso dei Jeans) entrano nel circuito della moda, rovesciando il paradigma alto-basso. Ma al di là della direzione alto-basso, rimane il fatto che la moda è sempre riproduzione di un modello, parla al plurale mai al singolare.
Tornando ora alla domanda sul rapporto dandismo-moda, credo si possa rispondere dicendo che la moda è parente stretta dello snobismo, ma non del dandy.
Per quanto riguarda il secondo interrogativo, relativo all’espressione dandy aggraziato, credo si tratti di un vero e proprio ossimoro (più o meno come dire “ghiaccio bollente”). Usare l’espressione aggraziato, significa infatti parlare di senso della misura, di armonia dell’insieme. In effetti nell’articolo si parla proprio della giusta misura tra creatività/prevedibilità, nuovo e deja vu. Ma la ricerca del dandy vuole suscitare stupore, giocando con il limite estremo della regola, talvolta oltrepassandolo fino allo scandalo. Non c’è quel senso della misura che rimanda alla categoria del “classico”; il dandy è barocco. Va anche detto che oggi il dandy avrebbe una vita durissima: in un contesto dove tutto si colora di deja vu, infatti, stupire è l’arte più difficile, se non impraticabile! Per il dandy non c’è possibilità di grazia…

lunedì 31 maggio 2010

SUBCULTURE CONTROCULTURE E VIOLENZA






Premessa

Questo articolo prende le mosse dall’intervento di Andrea Rapini, storico e ricercatore presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, presente durante l’incontro di giovedì 20 maggio 2010 del Maggio Filosofico, tenutosi a Rastignano (BO).
Il tema dell’incontro era: “I giovani e la violenza politica nel novecento”. Non intendo in questa sede ricostruire in modo puntuale i contenuti trattati, molto ricchi e, in alcune parti, complessi; cercherò invece di agganciare alcuni stimoli raccolti, per collegarli al tema delle subculture giovanili e delle controculture nel loro rapporto con la violenza.
Rapini, dopo l’excursus storico condotto magistralmente da Luca Alessandrini
incentrato sulla violenza dei giovani dalla fine dell’ottocento fino agli anni ’70 del novecento, ha focalizzato il suo discorso sul ’68 e la nascita dei movimenti studenteschi all’interno delle Università, identificando diverse fasi di sviluppo del movimento. Al principio, come vedremo anche nella ricostruzione del movimento negli USA, l’interesse dei giovani studenti è centrato prevalentemente su questioni interne alla vita universitaria; successivamente uscirà da questi confini per congiungersi, infine, con le lotte operaie.
Anticipo fin d’ora che il collegamento tra movimenti studenteschi degli anni ‘60 e la violenza va ben specificato, per non incorrere in una generalizzazione impropria. Come vedremo nella breve ricostruzione della storia del movimento studentesco negli USA, all’inizio il movimento si caratterizza per una forte impronta non violenta, e solo tra il ’67 e il ’68 si fa strada l’opzione violenta.

Definizione di Subcultura


Iniziamo con una prima precisazione terminologica, citando la voce subcultura dal Dizionario di Sociologia di Gallino:

Sottoinsieme di elementi culturali sia immateriali che materiali –valori, conoscenze, linguaggi, norme di comportamento, stili di vita, strumenti di lavoro- elaborato o utilizzato tipicamente da un dato settore o segmento o strato di una società: una classe, una comunità regionale, una minoranza etnica…Mentre ne condivide alcuni tratti essenziali, tale sottoinsieme di elementi culturali si caratterizza entro il maggior insieme della CULTURA dominante, in certi casi, per esserne una variante differenziata o specializzata, come sono per lo più le S. professionali, oppure un elemento storicamente costitutivo, come le S. regionali o etniche; in altri casi, per il fatto di presentarsi come una forma di deviazione o di opposizione, reale o apparente, nei suoi confronti. È il caso della S. criminale o, per un altro verso, della S. giovanile. Tuttavia, quando una S. incorpora nella quasi totalità elementi che si presentano o sono percepiti come radicalmente opposti alla cultura dominante, si tende a chiamarla piuttosto CONTROCULTURA(corsivo nostro).


In base a questa definizione, quindi, si può operare una prima distinzione tra subcultura e controcultura.
Con il termine subcultura si può intendere un insieme di elementi culturali che non sono propri di tutti i membri di una data società, ma solo di una parte di essi; quando si parla di subculture giovanili si fa riferimento ad una molteplicità di culture adolescenziali, spesso antagoniste tra loro, che manifestano la propria particolarità con specifici gusti musicali e nell'abbigliamento. Il loro minimo comune denominatore è l'opposizione alla cultura adulta. Nonostante ciò, i valori dominanti all'interno delle subculture giovanili sono fortemente condizionati dalla cultura adulta di provenienza: basti pensare all'importanza della variabile razziale nella formazione di molte sottoculture giovanili, specialmente negli Stati Uniti.
Il termine controcultura indica, invece, un certo tipo di subcultura giovanile sviluppatasi negli anni Sessanta in Europa e in America il cui scopo era quello di porsi in aperto e radicale contrasto con la cultura dominante e adulta, aderendo a valori e modi di vita alternativi: il nomadismo, la libertà sessuale, la non-violenza e l’antimilitarismo, l’uso di droghe, il comunitarismo, la religiosità orientale, la musica pop e rock.





Subculture giovanili e conflitti intergruppi

Cerchiamo di vedere ora il collegamento tra subculture giovanili e violenza. Per trattare il tema del rapporto subculture giovanili e violenza, credo sia necessario, innanzitutto, analizzare le dinamiche psicologiche e sociali dei gruppi adolescenziali.
L'importanza dei gruppi di coetanei nella società urbana post-industriale è senza precedenti: svolgono, infatti, un ruolo insostituibile nel processo di emancipazione dell'adolescente- "emancipazione" è qui da intendere nel senso etimologico del termine come "liberazione dalla manus , ovvero dalla soggezione alla patria potestà"-. L’adolescente, infatti, attraversa nelle nostre società una fase della propria vita particolarmente delicata dal punto di vista della costruzione della propria identità: il corpo cambia e spesso si fa fatica a riconoscersi nei cambiamenti; l’adolescente, con la pubertà, raggiunge la maturità biologica (la capacità di riprodurre), ma al contempo, dal punto di vista sociale e politico, è ancora considerato immaturo e irresponsabile (ad esempio, non può votare o guidare la macchina prima dei 18 anni…) ; l’uscita dall’infanzia e il processo di emancipazione, infine, comportano una ricerca di nuovi modelli d’identificazione e il gruppo di coetanei svolge in questo senso una funzione insostituibile.
Il problema dell’identità si pone, quindi, a più livelli: identità in relazione al corpo e al genere (“Sono un bambino-a o un uomo-donna?”; “Che tipo di uomo o donna sono?”); identità personale come senso di continuità attraverso il tempo e distinto dagli altri (“Qual è la parte di me che rimane costante nel cambiamento – da infante a ragazzo/a - e mi fa dire io sono questo/a e non un altro/a?”); identità sociale intesa come risposta alle domande relative alla collocazione sociale (“Qual è il mio ruolo?”), professionale (“Cosa farò da grande?”) e ideologica (“Quali sono le cose in cui credo?”).
E.Erickson ha sottolineato l’importanza del passaggio dal concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori al concetto di sé ricavato dal giudizio dei coetanei, per i quali sono decisivi l’aspetto fisico, la capacità intellettuale, l’attrazione sessuale che prima erano del tutto estranei alla considerazione di sé. È facile che l’insicurezza in relazione al corpo e alla sua immagine, alle possibilità concrete o percepite di essere attrattivi, o relative alle proprie prestazioni cognitive possano provocare ansia e reazioni compensative (es. atti di coraggio fisico). Un atteggiamento iperprotettivo dei genitori in questa fase, d’altra parte, può portare alla costruzione di una identità negativa, che si caratterizza per una decisa opposizione al mondo degli adulti.
Il gruppo dei coetanei (con i suoi linguaggi, i suoi valori, i suoi segni esteriori) costituisce una alternativa alla famiglia e al mondo adulto e svolge, così, un ruolo cruciale nel processo di costruzione dell’identità. D’altro lato, si può dire che l’identificazione con il gruppo porta l’individuo a categorizzare il proprio gruppo (ingroup) differenziandolo dagli altri (outgroup) e ad associare alla differenziazione un giudizio di valore. L’individuo tende, così, a massimizzare le differenze intergruppi (tra il suo e gli altri gruppi) e ad accentuare le somiglianze intragruppo (tra i membri del suo gruppo), assegnando valori e significati positivi al proprio gruppo e, quindi, a se stesso. Il fenomeno del favoritismo nei confronti del proprio gruppo, e della discriminazione verso altri gruppi spesso ad essa connessa, si spiega a livello individuale con il bisogno da parte del soggetto di accrescere la propria identità sociale positiva. Quindi, il differenziare in senso positivo il proprio gruppo risponde ad un bisogno individuale, strettamente connesso con la formazione dell’identità sociale.
Apro una breve parentesi per osservare che l’abito riveste nelle subculture giovanili una particolare importanza: è il segno visibile di una appartenenza e stabilisce il confine tra noi/loro. In questo senso, nelle subculture giovanili si recupera il valore tradizionale dell’abito proprio delle società prerinascimentali e di molte culture tradizionali: l’abito, cioè, è il significante visibile di una certa appartenenza sociale.
La somiglianza tra l'uso dell'abito nelle culture tradizionali e nelle subculture giovanili è da ricercare in un rapporto cultura-abito tale da rendere l'abito segno esteriore e immediato di una particolarità culturale . Per quanto riguarda le subculture, basti pensare all'equazione che si viene a stabilire tra sfera vestimentaria e valoriale nel movimento hippy: caffettano + fiori + collanine = hippy = love and peace.
La nascita del fenomeno Moda in età rinascimentale rinascimentale crea, invece, una frattura tra significante e significato. A titolo di esempio, si pensi al “look country” di una certa collezione di moda: l’abito “country” in questo caso non significa che chi lo indossa sia contadino o lavori in campagna. L’abito nella Moda è significante vuoto. Si può dire, invece, che la moda presa nel suo complesso costituisca una celebrazione del Nuovo, dove “Nuovo=Meglio”. In questo senso la Moda è figlia di una cultura che celebra il Progresso illimitato come fine in sé.

Torniamo ora alle dinamiche psico-sociali nei gruppi adolescenziali. L’esito dei confronti intergruppi (noi/loro) riveste per il singolo un’importanza decisiva, in quanto contribuisce indirettamente al consolidamento della propria autostima. Se il proprio gruppo è superiore agli altri, gli appartenenti al gruppo potranno godere indirettamente di maggior prestigio e considerazione. Questo bisogno di avere un concetto di sé positivo induce spesso l’individuo, nel differenziare in senso positivo il proprio gruppo, a distorcere i confronti intergruppi, e può condurre molto facilmente al pregiudizio sociale e a manifestazioni violente verso gli altri gruppi, giungendo ad azioni sociali discriminatorie e distruttive.
A questo proposito, faccio riferimento allo studio di Stan Cohen (1972) sugli scontri tra i mods e i rockers avvenuti in Inghilterra, nei primi mesi del 1964. Questo lavoro mette in luce il ruolo dei media nell’organizzazione della reazione sociale alla devianza, riprendendo i temi preannunciati da Turner e Surace relative alla subcultura degli zooters negli USA(1956).
Nella primavera del 1964 alcuni gruppi sia di rockers che di mods andarono a passare una giornata al mare nella località di Clacton, a circa due ore di viaggio da Londra, e lì scoppiarono delle risse fra i due gruppi. Il giorno successivo la stampa popolare mise gli incidenti in prima pagina e, rifacendosi all'iconografia delle gang di strada di New York, li presentò come furiose battaglie fra bande rivali organizzate. Questo atto di labelling (etichettamento ) ebbe, secondo Cohen, due grossi effetti: in primo luogo, fece scattare l'allarme sociale, costringendo la polizia a intensificare la sorveglianza dei due gruppi, (ne derivarono arresti più frequenti che finirono con l'alimentare l'allarme iniziale); in secondo luogo, evidenziando le differenze di stile e dando rilievo all'antagonismo fra i gruppi, la pubblicazione incoraggiò i teen-agers a pensare se stessi negli stessi termini in cui le due sub-culture venivano descritte (questo, insieme alla solidarietà di gruppo creata dalla comune soggezione alle interferenze poliziesche, polarizzò sempre di più le due subculture). La convergenza di questi processi produsse ulteriori scontri fra i gruppi, attirando ulteriori attenzioni da parte della stampa e scatenando ulteriore allarme nel pubblico.
Non approfondiamo in questa sede un tema così ampio come quello del rapporto tra devianza e controllo sociale. Quel che ci premeva mettere in evidenza citando lo studio di Cohen è che nell’ambito delle subculture giovanili è sicuramente presente il tema della violenza. In particolare, nel caso preso in esame, siamo davanti al ricorso alla violenza all’interno di un conflitto intergruppo tra subculture giovanili.


La controcultura anni ’60 negli USA


Passiamo ora all’analisi del rapporto controcultura e violenza, ricostruendo in particolare il contesto storico e sociale della nascita del movimento studentesco a metà degli anni ’60 negli USA. Nel dopoguerra, l’istruzione primaria generalizzata, cioè l’alfabetizzazione di base, divenne l’aspirazione di tutti i governi. L’alfabetizzazione fece progressi sensazionali, in particolare nei paesi rivoluzionari governati dal comunismo. Si moltiplicarono anche le iscrizioni alle scuole secondarie e all’università.
L’esplosione degli iscritti all’università fu impressionante: prima della seconda guerra mondiale in Germania, Francia e Gran Bretagna la popolazione degli studenti universitari in rapporto alla popolazione complessiva era di uno studente per mille abitanti (la somma della popolazione dei tre paesi era 150 milioni, mentre la somma degli studenti era 150.000); alla fine degli anni ’80 gli studenti si contavano a milioni.
L’aumento della popolazione di studenti universitari provocò fenomeni inattesi sul piano sociale, culturale e politico. Infatti, è innegabile che solo con gli anni ’60 gli studenti divennero, sia socialmente sia politicamente, una forza importante, come dimostrò al di là di ogni statistica la ribellione studentesca del 1968 che ebbe estensione mondiale. Riporto a questo proposito un passaggio da Il secolo breve di Hobsbawn.

…Queste masse di giovani uomini e donne con i loro insegnanti, calcolabili in milioni o almeno in centinaia di migliaia di unità, sempre più concentrati in grandi e spesso isolati campus o <> universitarie…divennero un fattore di novità dal punto di vista politico e culturale. Erano elementi transnazionali, perché con facilità e rapidità si spostavano e comunicavano idee ed esperienze da un paese all’altro, e più dei rispettivi governi sapevano sfruttare la tecnologia della comunicazione. Come si dimostrò negli anni ’60, non soltanto erano politicamente radicali e ribelli, ma erano gli unici a poter dare espressione efficace, a livello nazionale e internazionale, allo scontento politico e sociale….Se mai ci fu un solo momento negli anni d’oro dopo il 1945 corrispondente al sogno dell’insurrezione mondiale simultanea coltivato dai rivoluzionari dopo il 1917, quello fu certamente il 1968, quando gli studenti si ribellarono dagli Stati Uniti e dal Messico a Occidente fino alla Polonia, alla Cecoslovacchia e alla Jugoslavia nei paesi dell’Est, stimolati perlopiù dalla straordinaria esplosione del maggio parigino del 1968, epicentro di una sollevazione studentesca diffusa in tutto il Continente. (tr.it. 2007, p.351)


Può essere sorprendente la constatazione che giovani uomini e giovani donne che si trovano a vivere in una fase di boom economico e che hanno l’occasione, con gli studi universitari, di cambiare in meglio la propria posizione sociale, coltivino ideali politici radicali di sinistra. Prima della seconda guerra mondiale, infatti, la grande maggioranza degli studenti nell’Europa centrale e occidentale e nel Nordamerica era apolitica o di destra. Così, paradossalmente le agitazioni studentesche si collocano proprio all’apice del boom economico.
Vediamo di capire meglio le ragioni della nascita del movimento studentesco negli USA. Al principio il movimento è totalmente interno alle Università e solo in un secondo tempo uscirà da questi confini. La prima rivolta, che prese il nome di Free Speech Movement, si scatenò a Berkeley nel settembre del 1964 quando le autorità amministrative vietarono la raccolta di fondi per una causa politica esterna alla vita dell'università. Il vero oggetto d'interesse per il Movimento è, innanzitutto, il rapporto tra studenti e sistema formativo. Poter contare all'interno della struttura scolastica, diventando protagonisti di un processo che riguarda la propria vita, è una esigenza fortemente avvertita. Si afferma, infatti, la percezione che il processo educativo americano sia una crudele cerimonia iniziatica. Nell'articolo di Weinberg "Il Free Speech Movement e i diritti civili", contenuto nella raccolta L'altra America degli anni'60 vol. 1, a cura di F. Pivano, leggiamo:

Due dei temi più fondamentali che hanno cominciato a manifestarsi nei primissimi discorsi della protesta e che hanno continuato a occupare una posizione centrale anche in seguito sono stati la condanna della concezione dell’università come fabbrica di sapere e la richiesta che gli studenti siano ascoltati. Questi due temi di protesta sono stati accolti così bene a causa della sensazione generica diffusa tra gli studenti che l’università li ha condannati all’anonimato; che hanno scarsissime probabilità di controllo sul loro ambiente e sul loro futuro; che la società universitaria è quasi completamente sorda ai loro bisogni individuali. Gli studenti lamentano la mancanza di contatti umani, la mancanza di comunicazione, la mancanza di dialogo che esiste all’università. Molti ritengono che una gran parte dei programmi dei rispettivi corsi sia di scarso interesse, che molti dei compitiu più difficili loro assegnati siano esclusivamente costituiti da tediose sgobbate di valore educativo scarso o nullo. Troppo spesso, nel corso degli studi, lo studente deluso, in un momento di amarezza, si chiede: “A che cosa porta tutto questo?” In un lampo di intuizione, lo studente vede il processo educativo come una crudele cerimonia iniziatica: l'istruzione che conduce al conseguimento del diploma di graduation appare un rito per mettere alla prova la capacità di sopportazione del candidato, una serie di prove che, se superate con successo, consentono l'ingresso ai corsi della graduate school; e, a quelli che sono riusciti a passare indenni attraverso le prove dell'intero rito, è concesso il titolo pomposo: il Ph.D. Più uno emerge, migliore è il posto di lavoro che ottiene...Troppo spesso il processo educativo appare come un'eliminatoria, regolata dalle leggi della domanda e dell'offerta. Quanto meglio uno gioca la partita tanto meglio uno è compensato.
(tr. it. 1971, pp.134-135)

Il sistema educativo americano appare, quindi, come una istituzione che opera una “selezione naturale”, finalizzata all'emergere del più forte e poco preoccupata della crescita e della formazione culturale degli studenti. Lo scontento manifestato nel settembre 1964 trascende, quindi, l'episodio contingente. I circa quattro mesi di rivolta che seguono, permetteranno di ottenere spazi "liberi" e il diritto di organizzare “Teach In” su argomenti politici all'interno dell'università.
Il primo “Teach In” fu dedicato al Vietnam. L'impegno americano, infatti, era andato via via aumentando e nel 1965 erano cominciati i primi bombardamenti. Contemporaneamente erano iniziate e si erano estese le manifestazioni di protesta. Le matrici da cui muoveva il rifiuto per la guerra andavano moltiplicandosi: da un lato, c'erano vari comitati, più o meno affiliati ai vari movimenti radicali e antinucleari internazionali, che propugnavano una scelta pacifista e antinucleare per la società occidentale; dall'altro, si faceva strada un modello di pensiero aperto alle culture orientali e precapitalistiche. La scoperta della spiritualità e del misticismo orientale si unì, infatti, alla rilettura in chiave antropologica della mitica comunione con la natura delle popolazioni indiane d'America: l'insieme si formalizzò nella proposta di un "uomo nuovo", impegnato a ritrovare la propria interiorità e pacificamente inserito in un contesto naturale da osservare e rispettare.
I maestri del nuovo umanesimo furono i protagonisti della cultura alternativa del decennio precedente: Allen Ginsberg, Gary Snyder, Timothy Leary. La strada da percorrere verso l'ideale di "uomo nuovo" viene indicata con estrema chiarezza da Timothy Leary ( articolo riportato nell’antologia L’altra America negli anni ’60 vol. 1)

Dovete cominciare col cambiare il vostro abito, la vostra casa, i vostri movimenti, il vostro ambiente, in modo tale che rifletta la grandezza e la gloria della vostra visione divina. Dovete avere un aspetto diverso e agire diversamente. Ma questo processo di sintonizzazione dev'essere armonico ed elegante. Per favore nessun gesto distruttivo o ribelle!...Camminate, parlate, mangiate, bevete come se foste un felice Dio della foresta.
(op. cit., p. 185)

La prospettiva terrorizzante da cui si cerca di uscire con questa proposta di vita è quella esemplificata nella figura dell’impiegato di Manhattan, descritta da Leary in questi termini:

...lavora in una camera buia, che puzza di aria inquinata. Si muove in mezzo ad un ammasso di mobili anonimi e fatti in serie per andare in un bagno di celluloide o in una cucina impersonale di plastica. Fa una prima colazione a base di cibo-carburante anonimo, tolto da una scatola o impacchettato. Indossa la divisa anonima del cittadino-robot, biancheria di cotone, scarpe, camicia, cravatta e giacca. Viaggia in gallerie buie di metallo fuligginoso e di cemento grigio verso la scatola di alluminio che è il suo ufficio... Il denaro che guadagna gli serve per il suo cibo di celluloide e per il suo appartamento dall'aria inquinata. Quest'uomo è circondato da un ambiente grigio, inquinato, morto, impersonale, fatto da una catena di montaggio, prodotto in serie e anonimo. Questo è l'ambiente di un robot-meccanico.
(op. cit., p.184)

Per uscire da questo tunnel esistenziale ci si rivolge alle filosofie orientali e spesso si fa ricorso all'uso di sostanze stupefacenti -funghi sacri, marijuana, LSD-, in grado di provocare l'espansione dello spettro percettivo, fare esperienza di nuovi stati di coscienza e liberare grandi energie creative, prive di condizionamenti sociali.
Nel 1965, Ginsberg stila un programma per una grande manifestazione (articolo contenuto in L’altra America negli anni ‘60 vol. 1), cercando così di chiarire in modo inequivocabile a tutti le intenzioni e le modalità della riunione e impedire reazioni disordinate in caso di provocazioni:

La parata può diventare uno spettacolo esempio di come controllare situazioni di ansietà e paura/minaccia (quali lo Spettro degli Hell’s Angels o lo Spettro del Comunismo).
E manifestare con esempio concreto, vale a dire con la parata stessa, come trasformare la psicologia di guerra e superare, oltrepassare, la reazione-immagine-vizio di paura/violenza.
Vale a dire, la parata può realizzarsi come esempio di salute pacifica che è il contrario di un cieco combattimento contro combattimento.
Annunciate in anticipo che è una marcia sicura, portate la nonna e i bambini, portate famiglia e amici. Dichiarazioni aperte: "Non veniamo a combattere e non combatteremo"
(op. cit., p.263)

La manifestazione diventa una grande festa pacifica fatta di suoni, canti, colori e tantissimi fiori.
Il momento culminante del movimento è, però, il grande raduno del 14 gennaio 1967, tenutosi nel Parco del Golden Gate a San Francisco, vero e proprio centro della cultura alternativa giovanile. Questo grande rito collettivo si chiude, al tramonto, con Allen Ginsberg e Gary Snyder che salmodiano il mantra Om Sri Maitreya rivolti verso il sole, in una atmosfera di grande pace e poesia.
Da questo racconto della nascita del movimento credo emerga con tutta evidenza come questa controcultura, fortemente antagonista rispetto ai valori della cultura dominante, abbia scelto con nettezza l’opzione non violenta, non solo nelle dichiarazioni d’intenti ma anche nelle pratiche sociali cui ha dato luogo.
Bisogna considerare, d’altra parte, che il movimento hippy negli Stati Uniti rappresenta uno sviluppo piuttosto coerente dei valori alla base della subcultura beat degli anni 50 (non a caso Ginsberg è la figura ponte tra i due movimenti).
Per avere a questo proposito una idea più chiara, riporto un passaggio dell'articolo "Agnello, non leone", contenuto nella raccolta Scrivere bop, dove Kerouac chiarisce che:

Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato, la parola italiana per beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutto nella vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore. Come si può realizzare una cosa del genere nel nostro folle mondo moderno fatto di molteplicità e milioni? Praticando un pò di solitudine, andandosene da soli ogni tanto a far provvista della ricchezza più grande: le vibrazioni della sincerità. Essere seccati non è essere beat. Si può essere chiusi in se stessi ma ciò non significa necessariamente essere scontrosi. Il beat non è una forma di critica stanca e vecchia. E' una forma di affermazione spontanea. Che razza di cultura sarebbe se tutti con faccia rabbuiata dicessero"Questo non mi sembra giusto"?
(ibidem, 49-50)

Da queste parole emerge il profilo di un movimento che cerca una profonda rigenerazione spirituale, sia attingendo alle fonti più pure della religione cristiana sia cercando di avvicinare le filosofie orientali, in particolare il buddismo. Come nel movimento hippy, è una ricerca che propone valori profondamente antagonisti rispetto al materialismo consumista e al "carrierismo", che possiamo considerare fondanti dell'american way of life.
Ad un certo punto del Movimento, però, si inizia a parlare di violenza. Tutto questo lo possiamo desumere in modo molto chiaro dalle parole di Tuli Kupferberger nell’articolo “La politicizzazione di uno hippy” scritto il 4 agosto 1967 (L’alta America negli anni sessanta vol. 2)

Si, siamo impegnati, gente che sceglie tra due sistemi di vita, due ordini sociali, due concezioni. Abbiamo rinunciato alle norme morali e alle promesse insulse di una società malvagia. L’abbiamo abbandonata, fisicamente, intellettualmente, emotivamente, ed economicamente.
Ma ora l’epoca della protesta pacifica, nell’ambito della legge, l’epoca del dissenso è finita. Con i crani massacrati e col sangue l’America bianca è giunta alla conclusione che aveva cercato di evitare a tutti i costi. Che stiamo vivendo sotto un sistema di oppressione tirannico e violento che non si fermerà di fronte a niente per conseguire i suoi scopi, e che se desideriamo por fine alla distruzione della vita umana in patria e all’estero non abbiamo altra alternativa che iniziative illegali e violente. (corsivo nostro).
(op. cit., p. 193)

I nuovi sviluppi del Movimento sono rintracciabili nella Marcia della Pace sul Pentagono del 20-22 ottobre 1967, dove Jerry Rubin cercò di tirare le fila di tutti i canali di protesta, da quello non violento a quello violento. Tra l’ottobre del 1967 e l’agosto 1968 si portò a termine quel processo definito di “politicizzazione degli hippies”. Sono le giornate di Chicago dell’agosto ’68 a segnare la svolta.
Leggiamo dal resoconto di Tennis Frawley “Maiale a Chicago” scritto il 30 agosto 1968 (in L’altra America negli anni sessanta vol. 2).

I fatti di Chicago della settimana scorsa hanno creato una situazione bizzarra in America. Non è mai stato così evidente che il sistema politico del paese conta sulla forza per sopravvivere….Comunque dopo l’esperienza di Chicago dubitiamo che armi più letali non saranno usate dalle truppe disfatte dei giovani contestatori. La gomma da masticare e i giornali arrotolati sono di poca difesa contro la gestapo, e la filosofia delle Pantere Nere sembra avere più senso dopo questo confronto.
(op. cit., p.239)

Dopo questa premessa, da cui si evince un profondo ripensamento a proposito della filosofia della non violenza fin lì praticata, Frawley passa alla cronaca di quei giorni.
Giovedì
Il sangue cominciò a scorrere questo giovedì mattina…quando un indiano americano del Sud Dakota di 17 anni fu ucciso da una fucilata nella Old Town…Dean Johnson, il ragazzo indiano, era stato sballottato al punto da volersi difendere. La gente dice che fu stupido da parte sua far fuoco sul poliziotto. Forse fu stupido – ma coraggioso….La pistola del ragazzo non funzionò e fu ucciso mentre cercava di fuggire.

Martedì
Alle 11 di mattina grandi dosi di gas lacrimogeni furono usate al Lincoln Park, e a manganellate furono attaccati e fatti allontanare alcuni esponenti del clero che s’erano uniti ai dimostranti pregando. In serata arrivarono Bon Seale e le Pantere Nere e Seale tenne un discorso stimolante che fu ben accolto. Seale suggerì che non bisognava più percorrere la città in grandi gruppi ma in gruppetti armati di tre o quattro in tutta la città – e parzialmente questa tattica fu adottata per le dimostrazioni al Grant Park…
Mercoledì
Il fronte si era spostato al Grant Park dove 15.000 persone dimostravano contro il quartier generale del Partito Democratico. La dimostrazione fu caratterizzata dai lacrimogeni, da brutali bastonature, e da molto movimento per le strade…Chicago ha reso più evidente al movimento la futilità della non militanza. La gioventù è più decisa che mai. La macchina del braccio forte del sindaco Daley, una reazione alla reazione personale di Daley al dissenso, rappresenta il punto chiave dell’organizzazione giovanile della resistenza armata. Il consumatore deve morire di morte violenta.
(op. cit., pp.239-244)

A conclusione di questo lungo articolo, si può dire che il movimento giovanile, nato in ambito universitario a metà degli anni sessanta negli USA, si è caratterizzato al principio da forme di lotta non violenta, ma nel corso della sua evoluzione, davanti alla repressione violenta delle forze dell’ordine, e con la saldatura di gruppi come le Pantere Nere, ha cambiato gradualmente la sua fisionomia, si è “politicizzato”, arrivando alla pratica della resistenza violenta.




Riferimenti bibliografici

Cohen S.
1972 Folks Devils and Moral Panics, MacGibbbon and Kee, London

Erickson E. H.
1974 Aspetti di una nuova identità, Armando, Roma
Galimberti
2006 Dizionario di Psicologia, (voce Identità), De Agostini, Novara


Gallino L.
2006 Dizionario di Sociologia, Utet, Torino


Hobsbawn E. J.
2007 Il secolo breve, Burexploit Rizzoli, Milano

Kerouac J.
1996 Scrivere Bop, Mondadori, Milano

F. Pivano (a cura di)
1993 L’altra America negli anni sessanta, vol. 1-2, Arcana, Milano


lunedì 24 maggio 2010

Il vento fa il suo giro



Domenica 23 maggio alla Casa Gialla, Centro Sociale gestito dagli anziani, a Bologna, si è svolto un evento piuttosto insolito per una domenica mattina: la proiezione del film “Il vento fa il suo giro”; a seguire l’incontro con il regista Giorgio Diritti. Nonostante la scarsa qualità della proiezione, che ha impedito di apprezzare appieno il film, la storia raccontata cattura in fretta l’attenzione con la sua immediatezza comunicativa, il fascino dei paesaggi, l’autenticità dei personaggi.
Vediamo di ricostruire in breve la trama.
Il film è ambientato a Chersogno, un paesino sulle Alpi Occitane italiane, abitato ormai da una decina di persone anziane, di età media intorno ai settanta, che sopravvivono grazie al turismo estivo. In questo paesino della Valle Maira, arriva Philippe, un francese che cerca casa, per stabilirsi con la sua compagna e i suoi tre figli. Philippe è un pastore francese (ex professore di filosofia, stanco della burocrazia) che ha smesso d’insegnare per dedicarsi all’allevamento delle capre e alla produzione di formaggio. Questo evento potrebbe essere una ventata di novità per il paese. La comunità (che parla in lingua d'hoc -per questo il film è spesso sottotitolato-) decide alla fine, dietro le pressioni del suo sindaco progressista, di accogliere lo “straniero”, in nome delle tradizionali "rueidas", quelle forme di aiuto reciproco che tradizionalmente avevano unito la comunità. L'uomo e la sua donna sono due persone che hanno deciso di vivere e di educare i propri figli, seguendo i tempi della natura e dei propri desideri. Con il passare del tempo, la "diversità" dei nuovi arrivati mette in crisi le coscienze di un paese che si sente minacciato da questi spiriti liberi, e l’incomprensione diventa gradualmente distanza incolmabile: dal pregiudizio si arriva alla violenza agita. Gli "stranieri" sono prima accusati di essere sporchi (“i bambini stanno in mezzo alla cacca delle capre”); poi di sconfinare con il gregge di capre nei campi altrui e di prendere abusivamente la legna da terreni abbandonati (il film mette a fuoco e sottolinea la grettezza del senso della proprietà privata dei paesani). Infine, dalle maldicenze si passa alle denunce a carabinieri ed ASL, alla simulazione di aggressione da parte di una donna, all'uccisione di alcuni capi di bestiame.
Philippe non vuole la guerra e alla fine decide di andar via con la sua famiglia. Questa partenza segna però una sconfitta di un paese che non riesce ad essere altro che una vetrina per programmi televisivi che cercano ancora il profumo di “autentico” o una cartolina per turisti estivi.

Passiamo ora a qualche riflessione sul film.
La discussione con il regista è partita proprio da una delle scene finali del film: si è appena consumata la frattura irreversibile tra il paese e la famiglia francese, con la partenza di Philippe, sua moglie e i suoi figli, quando compare un elicottero che sfreccia tra le valli e i monti intorno a Chersogno; sono riprese dall’alto di un programma televisivo sul paese, che vengono commentate da un anziano che ricostruisce la memoria di quei luoghi.
È forte il contrasto tra il senso di sconfitta, che abbiamo dolorosamente registrato come spettatori con la partenza della famiglia francese, e l’euforia nostalgica e da cartolina con cui si dipinge il paesaggio e il paese dall’alto. Viviamo, inoltre, su un piano meno emotivo, il conflitto tra rappresentazione mediatica e vita reale, quello scollamento tra apparire ed essere che già era stato presentato in una precedente scena del film: un giornalista irrompe con il suo seguito (si respira l’aria di una “invasione” non rispettosa dei luoghi e delle persone che vengono quasi stuprati dagli obiettivi!) a raccontare la storia felice del nuovo abitante francese che fa il pastore e casaro; quando il sindaco, però, chiederà al giornalista di parlare del tentativo dell’amministrazione di far rinascere la vita nel paese e, quindi, di riportare a Chersogno i giovani, il giornalista risponderà secco che è lì per parlare di alimentazione e non di politica.

Torniamo al volo dell’elicottero… alla fine il velivolo atterra e assistiamo al recupero del corpo del “matto” del paese che si è appena suicidato; questa scena ci offre una ulteriore chiave di lettura del film: il paese non ha saputo integrare il “matto” così come non ha saputo integrare lo straniero; il suo suicidio è simbolicamente il suicidio di una comunità che ha scelto il ripiegamento su se stessa, l’ancoraggio ad una tradizione morta piuttosto che l’apertura a nuove possibilità e la sfida del cambiamento.
Il “matto”, in precedenza, più volte è stato ripreso mentre a braccia distese simula il volo per le strade o per i campi, un volo che non conosce i confini rigidi della proprietà privata (i quali costituiscono invece per gli altri paesani uno dei principali motivi di scontro con la famiglia francese…). Il “matto”, con la mente sgombra di pregiudizi, è colui che meglio riesce ad entrare in relazione con il francese e ritrova nel suo sguardo identità. Per questo la partenza di Philippe finisce per rendere ormai vuota e senza senso la sua vita…
Questo film nella sua ricchezza di contenuti si presta ad una analisi su più livelli: a partire dal tema centrale del rapporto con la diversità si diramano i capitoli sul pregiudizio e lo stereotipo (lo straniero “puzza”, porta malattie – il maiale morto che viene abbandonato dal francese abituato a far così perché nei Pirenei, dove aveva abitato prima, gli avvoltoi si cibavano delle carcasse_...), quello sull’identità sociale che si afferma nella contrapposizione (le dinamiche in-group/out-group, del “noi” e del “loro”); quello dell’identità personale che si afferma, invece, grazie allo sguardo benevolente dell’altro; quello dello scarto tra rappresentazione mediatica e realtà vissuta…
È un film che, oltre al pregevole valore artistico, ben si presta a sviluppare riflessioni di carattere antropologico, sociologico o di psicologia sociale. Caldamente consigliata, quindi, la visione a studenti e docenti del Liceo delle Scienze Sociali!