domenica 28 marzo 2010

Il diritto del più forte



Il risultato delle elezioni regionali richiede uno sforzo di comprensione di ciò che si agita sotto la superficie dei fenomeni, almeno per come vengono rappresentati da quel mediatore che sono i mass media.
Ingenuamente molti si attendevano che la miriade di processi e scandali che hanno travolto il centrodestra e i suoi leaders, minandone la credibilità da un punto di vista etico, avrebbe condotto ad esiti disastrosi per questa parte politica. Così non è stato. Quali le ragioni?
Chi ha pensato ad un tracollo del centrodestra sostanzialmente riponeva fiducia in un principio di legalità, che può essere sintetizzato con la lapidaria massima presente in ogni tribunale “la legge è uguale per tutti”. Questa fede ha radici antiche e nobili. Nella cultura greca il principio di legalità era così forte che Socrate preferì bere la cicuta e morire piuttosto che salvarsi e invalidare le leggi della città.
La legge della città è ciò che normalmente consente una convivenza civile. Al di fuori della legge, direbbero i contrattualisti come Hobbes, c’è lo stato di natura, la lotta di tutti contro tutti. Il Nomos, la legge, vive in un costante rapporto dialettico con il diritto di natura, la Physis. Talvolta questa dialettica, però, non ha possibilità di sintesi superiore, di superamento: nell’Antigone Creonte emana l’editto, legge della città, con cui s’impedisce la sepoltura di Polinice, negando il diritto “naturale” di Antigone a rendere le debite onoranze funebri al fratello.
La legge della città e il diritto di natura. Sofisti come Crizia interpretarono la Physis come diritto del più forte, rivendicando il potere dell’aristocrazia. Il diritto “naturale” del più forte non conosce leggi, regole: è il più forte che fa e disfa le regole, in relazione ai propri interessi.
Attualizziamo il tema “leggi e diritto del più forte”, leggendo in proposito l’analisi di Franco Berardi sul Manifesto:

La critica al regime berlusconiano non sempre riesce a cogliere il carattere barocco del neoliberismo italiano. Un sistema economico, sociale e culturale che è riuscito a tradurre la deregulation e la legge del più forte a norma dominante.
Negli ultimi mesi la protesta contro il regime berlusconiano ha raggiunto toni quasi patetici. Si parla di crisi del berlusconismo come per esorcizzare la realtà di una perfetta corrispondenza tra la corruzione del ceto politico-imprenditoriale e il cinismo diffuso nella società. Ma la crisi dove sarebbe? L'escalation di arroganza non è segno di una crisi, direi, ma del suo contrario: è segno della stabilizzazione di un sistema che non ha più bisogno di legge perché basta la legge del più forte per regolare le relazioni di precarietà, sfruttamento e schiavismo nel campo del lavoro e della vita quotidiana.
Quanto più evidente è il disprezzo del ceto al potere per la legge e le regole, tanto più la protesta si concentra sulla difesa della legalità. Il problema è che la legge e le regole non valgono niente quando non esiste la forza per renderle operanti. E dove sta la forza, cos'è la forza in un sistema centrato sulla produzione mediatica della coscienza?...
Forse occorrerebbe smetterla di considerare il caso italiano come un'anomalia: al contrario è l'esempio estremo degli effetti prodotti dalla deregulation, fenomeno mondiale che distrugge prima di tutto ogni regola nel rapporto tra lavoro e capitale...
Questo è accaduto, in tutto il mondo non solo in Italia dal momento in cui le politiche neoliberiste hanno occupato la scena. Il principio della scuola neoliberale, la deregulation che ha distrutto i limiti legali e politici all'espansione capitalista non può intendersi come un mutamento puramente politico…
Il mercato del lavoro globale diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta più di semplice sfruttamento, ma di schiavismo, di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo. La violenza è diventata la forza economica prevalente nell'epoca neoliberista…
La violenza è la forza regolatrice dell'economia semiocapitalista, perciò non é contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità…
Le regole che i legalisti rivendicano sono decaduti nella cultura e nel lavoro. Occorre liberare la società dal legalismo, perché la società cominci a non rispettare le regole del semiocapitale, a essere autonoma nella post-legalità che il Semiocapitale ha istituito. Ciò che occorre alla società è la forza per non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto, e per affermare un altro modo di vita, una nuova solidarietà del lavoro. Allora, nel campo senza regole del semiocapitalismo, la società potrà affermare i suoi bisogni e soprattutto le sue potenzialità. Difendere la legge diviene un lavoro risibile, quando il potere dichiara ogni giorno nei fatti che quelle regole non contano più niente. Solo a partire dall'abbandono di ogni illusione legalista sarà possibile creare autonomia sociale, essere all'altezza (o se si preferisce alla bassezza) della sfida che il semiocapitale ha lanciato.

La “legge uguale per tutti” quindi è impotente, non riesce più a regolare la convivenza civile: vige la legge del più forte. Sembra quasi che la metafisica Volontà di potenza di Nietzsche sia il vero motore di questa svolta del mercato, una volontà che vede la politica prona davanti agli interessi di mercato e finanza.
In questo quadro l’attacco costante di Berlusconi alla magistratura, amministratrice delle leggi, trova la sua ragion d’essere. La fortuna di Berlusconi, frutto di corruzione, evasione fiscale e riciclaggio di denaro della mafia, costituisce la prova lampante di un diritto che s’afferma nello spregio di qualsiasi regola, di qualsiasi legge. L’anomalia italiana, se vogliamo, sta nel fatto che questa volontà di potenza della finanza e dell’economia si è esibita sulla scena della politica in prima persona, senza intermediari.
L’ideologia neoliberista con il mito della crescita infinita che l’accompagna, non tollera alcun limite, non tollera il vincolo delle leggi. La crescita è un fine in sé, un fine a misura dei pochi che affamano il resto del mondo.
Come dice Galimberti nel suo I miti del nostro tempo a proposito del mito della crescita:

Oggi di fronte alla tecnica e all’economia globalizzata, la politica…appare come un sovrano spodestato che si aggira tra le mappe dello Stato e della società civile rese inservibili, perché più non rimandano alla legittimazione della sovranità. Rispetto all’età di Platone, infatti l’incremento quantitativo delle tecniche di produzione al servizio di un’economia che ha in vista solo la crescita infinita ha prodotto quel capovolgimento per cui sono l’economia, e il lavoro che la alimenta, a decidere quali spazi concedere alla politica, e se concederli.
Ne consegue che la regia della storia oggi non è più nelle mani della politica, che nella città ideale di Platone è interprete dell’etica e, in vista del bene comune, determina gli scopi a cui deve subordinarsi il lavoro degli uomini, ma è nelle mani dell’economia il cui fare, regolato dalla ragione strumentale che prevede il minimo impiego di mezzi per il massimo conseguimento dei risultati, ha subordinato a sé l’agire, ossia la scelta dei fini a cui da sempre sono deputate l’etica e la politica, a cui spetta decidere quale orientamento dare al “fare”, e quali azioni politiche sono da “fare”.
(U.Galimberti 2009, pp.284-285)

Così le decisioni che contano non sono prese dalla politica e non rispondono ad un’etica. Siamo al ribaltamento dell’imperativo categorico kantiano che pone l’interrogativo razionale se la massima che ispira le proprie azioni possa diventare o meno legge valida universalmente. È l’interesse del più forte, il privilegio di pochi, a diventare legge, appropriandosi dei territori dell’etica e della politica.
Ma a questo punto ci si può domandare, perché questo diritto di pochi ottiene il consenso di molti. Chi evade le tasse, chi pratica la corruzione e il malaffare ha evidenti interessi a sostenere questo diritto, al di fuori della legalità. Ma il cittadino qualunque? Per provare a rispondere mi sembra utile il parallelo con il mondo del mercato e dei consumi. Come si fa convincere i consumatori all’acquisto di beni di cui non si percepisce un effettivo bisogno? Si produce anche il bisogno! Il sistema produttivo, cioè, non produce solo merci, ma anche il loro bisogno e lo fa costruendo le micronarrazioni mitiche della pubblicità, con le loro promesse di felicità.
Come spiega Marx nell’ Ideologia tedesca esiste sempre un rapporto tra classe dominante e idee dominanti:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale.

L’interesse dei pochi e l’ideologia neoliberista che ne è il corollario sul piano delle idee, richiede bisogni perennemente insoddisfatti, bisogni da produrre e ricreare di continuo. Ha bisogno, quindi, di consumatori e la pubblicità fornisce quello strumento di persuasione e seduzione indispensabile per suscitare desideri e conquistare menti. Ma la comunicazione politica è così distante da quella pubblicitaria? Proprio la parabola di Berlusconi dimostra come il successo politico dipenda sempre più dall’uso degli strumenti della comunicazione pubblicitaria e di una informazione manipolata secondo logiche pubblicitarie. Una pubblicità che teme il confronto così come si teme la pubblicità comparativa che confronta diversi prodotti. In questa chiave si può leggere la censura dei talk show come Anno Zero e Ballarò. Ciò che teme di più il potere che rivendica il diritto del più forte è da una parte la legge e dall’altra la libera informazione.

sabato 27 marzo 2010

Miti di ieri e di oggi



Il mito è innanzitutto narrazione: originariamente narrazione sulla nascita degli dei, del cosmo o dell’uomo (teogonia, cosmogonia e antropogonia). È una narrazione che cerca di spiegare la realtà, le sue radici lontane, nella forma della rivelazione: il poeta parla in nome della divinità, enunciando verità incontestabili, verità che non possono essere discusse, che chiedono di essere accolte con fiducia. Sono verità, quindi, che s’impongono con la forza di una legge di natura e, proprio come le leggi di natura, sembrano non conoscere storia, perché eternamente uguali a se stesse.
Nella storia della cultura greca il mito è quel sapere che fa da sfondo all’emergere del Logos, il discorso razionale della filosofia greca. I fisiologi ( o più comunemente presocratici) guardano la natura e cercano spiegazioni di ordine razionale, ipotizzando un principio primo (arché), non più esterno alla natura (per Talete l’arché è l’acqua, per Anassimandro è una sostanza primordiale indeterminata - apeiron -, per Anassimene l’arché è l’aria). Il trionfo del discorso razionale sarà celebrato da Platone che vede nel mito antico una sorta di favola per spiriti puerili.
Mito e logos provano a spiegare la realtà, ma le due vie sembrano correre parallele. Come dice Galimberti nel suo Dizionario di Psicologia:

Per il mito non c’è realtà che non si risolva nel mondo interiore soggettivo, ampliato e proiettato verso l’esterno, così come non c’è mondo interiore, come realtà psichica del soggetto, che non sia proiettato e reificato in forma di potenze divine. La narrazione mitica vive quindi la soggettivizzazione della realtà esterna e l’oggettivizzazione del mondo interiore. Per effetto di questa saldatura, per il mito non c’è mondo che non si risolva nella visione collettiva del mondo, per cui in ogni mito è possibile leggere una determinata fase di sviluppo della coscienza sociale collettiva. In questo contesto acquista tutto il suo rilievo l’espressione di Eraclito: “Non ascoltando me, ma il logos è saggio convenire che tutto è uno” dove l’esclusione della soggettività e della manipolazione dell’interprete segna il passaggio dal mito al logos, dalla descrizione delle cose per come sono vissute da chi le narra, alla loro descrizione per come si danno.

Laddove il mito soggettivizza la realtà, proiettando e reificando il mondo interiore, il logos costituisce, invece, il tentativo di vedere la realtà nella sua oggettività, a prescindere dall’interprete. Possiamo scorgere, così, nel discorso razionale del Logos l’embrione del pensiero scientifico che vuole emanciparsi dalle affermazioni metafisiche, indimostrabili, per aderire alla realtà nella sua oggettività.
Siamo portati a pensare che il mito sia qualcosa che riguarda il pensiero primitivo, la sua coscienza ingenua, mentre la nostra cultura, radicata nel logos, è convinta di aderire alla realtà per quel che è. Ma se questa convinzione può avere valide ragioni per quanto riguarda la conoscenza della natura, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la conoscenza della realtà sociale. Siamo davvero convinti che le nostre conoscenze relative alla realtà sociale siano fondate razionalmente e aderenti a questa realtà?
A questo proposito leggiamo un passaggio tratto da Miti d'oggi di Roland Barthes:

L'intera Francia è immersa in questa ideologia anonima: la stampa, il cinema, il teatro, la letteratura di largo uso, i cerimoniali, la Giustizia, la diplomazia, le conversazioni, il tempo che fa, il delitto che si giudica, il matrimonio a cui ci si commuove, la cucina dei nostri sogni, l'abito che si indossa, tutto, nella nostra vita quotidiana, è tributario dell'immagine che la borghesia si fa e ci fa dei rapporti tra l'uomo e il mondo.

Il "mito", in Barthes, è costituito da tutti quei significati secondi o connotazioni che poggiano sul primo livello della significazione, il livello denotativo. Così, la foto di un soldato di colore che saluta la bandiera francese può essere letta: 1) un semplice gesto di fedeltà; 2) "la Francia è un grande Impero, che tutti i suoi figli, senza distinzione di colore, servono fedelmente sotto la sua bandiera". E' questo secondo livello, per molti versi "implicito", a naturalizzare le forme e i rituali delle società borghesi contemporanee. Il mitologo deve, quindi, saper leggere questo sistema semiologico secondo in modo da evidenziarne la natura storica e ideologica.
Nel saggio intitolato Per Marx Louis Althusser spiega il concetto di ideologia in questi termini:

L'ideologia ha ben poco a che vedere con la 'coscienza' (...). Essa è profondamente inconscia (...). L'ideologia è sì un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la 'coscienza': per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro 'coscienza'. Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro.

Tramite questo processo di naturalizzazione l'ideologia può riprodursi e dare l'impressione di essere qualcosa al di fuori della storia.
La questione cruciale, a questo punto, è capire quali ideologie specifiche prevarranno in un dato momento, in una data situazione, e di quali gruppi e di quali classi rappresenteranno gli interessi. La distribuzione del potere, infatti, non è certo omogenea.
Nell' Ideologia tedesca Marx esprime in modo chiaro il rapporto tra idee dominanti e gruppi dominanti nella società:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale.


La validità di queste affermazioni risulta chiara se pensiamo, ad esempio, alle possibilità di accesso ai mass media. E' indiscutibile, infatti, che certi gruppi sociali siano in una posizione favorevole per produrre e diffondere le proprie definizioni del mondo.
Ritornando alla domanda sulla presunta razionalità della nostra conoscenza della realtà sociale, possiamo ora tentare una risposta.
Viviamo immersi in un complesso di idee che formano la nostra visione del mondo, idee che molto spesso diamo per scontate, come se fossero la “naturale” rappresentazione della realtà. È proprio questa naturalità ed assolutezza a renderle mitiche, indiscutibili. È necessario un processo di demitizzazione, il recupero di un pensiero critico che sappia mettere tra parentesi le idee del nostro tempo.
Galimberti nel suo bel saggio I miti del nostro tempo ci invita proprio alla cura delle idee, problematizzando le idee mito del nostro tempo. Visioni sbagliate del mondo, infatti, generano sofferenza.

mercoledì 24 marzo 2010

L'alterità: categoria fondante dell'essere

Nasciamo in rapporto con una alterità che pian piano iniziamo a riconoscere come tale. Uscire dalla simbiosi e dal narcisismo ci fa distinguere tra un fuori e un dentro, tra un Io e un Non Io. Esiste una spinta che ci fa crescere con la consapevolezza di doverci rapportare e confrontare con l'altro da sé, ma esiste anche una spinta regressiva che ci vuole riportare al narcisismo e alla simbiosi. Questa spinta regressiva può investire il gruppo di appartenenza, gruppo con il quale c'identifichiamo e misuriamo la nostra autostima: allora iniziamo a stabilire confini precisi tra ciò che è simile a noi e ciò che è diverso. Se questo confine serve a dire "Io sono questo!" è un confine utile, è il confine dell'identità, che ha bisogno, per svilupparsi, del confronto con l'altro. Talvolta, però, quando l'identità è debole e nasce la paura di perdersi nell'altro o di essere invaso dall'altro, questo confine diventa barriera difensiva, dove l'altro è nemico minaccioso, un altro da sé con cui non è possibile alcun incontro. E' il fenomeno della "coesione narcisistica": la misura del proprio essere gruppo e della sua forza sta nel contrapporsi ad altri gruppi.
In un clima culturale avvelenato dalle paure, rimanere aperti al rapporto e al confronto con l'altro da sé diventa un difficile esercizio che c'interroga continuamente sui nostri stereotipi e i nostri pregiudizi. DiversaMente vuole essere uno spazio nel quale sviluppare una riflessione su questa dimensione fondamentale dell'esistere, l'alterità, nella convinzione che imparare a rapportarsi alla differenza dell'altro costituisca l'unica prospettiva per una crescita come esseri umani. Questa differenza dell'altro si può declinare in diversi modi: la differenza di genere, la differenza etnica, la differenza dei diversamente abili. Sono questi i temi di cui questo spazio intende occuparsi, intrecciando i saperi delle Scienze Umane: filosofia, pedagogia, psicologia, etologia,antropologia, sociologia.Benvenuti!

martedì 23 marzo 2010

L'ottavo giorno in un percorso didattico





Mi è capitato di veder il film “L’ottavo giorno” con una classe di quarta elementare e insieme a studenti al terzo anno delle superiori. In entrambi i casi il film è stato apprezzato e, oltre ad avere una immediata presa emotiva, ha dato modo di aprire una discussione importante sulla sindrome di Down (Georges è un formidabile attore con sindrome di Down), sul senso della relazione d’aiuto, sul rispetto delle differenze e sul bisogno di normalità di Georges. Può essere, così, ben utilizzato come momento di riflessione di un gruppo classe che si prepara ad accogliere un compagno disabile.
Iniziamo con una sintetica ricostruzione della trama.


Trama
Harry, stimato docente di formazione aziendale della Future Bank, insegna la strada del successo ai futuri manager, basandosi su una filosofia che sintetizza in poche regole: sorridere sempre e soprattutto imitare l'interlocutore, tic, atteggiamenti e linguaggio. Perché la gente odia i diversi. Ne incontrerà invece uno molto presto…È il "suo giorno" di marito separato per tenere con sé le sue bambine, ma talmente assorbito dal suo lavoro finirà per scordarsene e arrivare in stazione quando le bambine ormai hanno deciso di tornare indietro. Mentre riflette su quella sua giornata estenuante, al volante della propria automobile, in piena notte, Harry è preso da un colpo di sonno e provoca un incidente: ha investito un cane. Subito si fa avanti il suo presunto padrone, Georges, un giovane ragazzo Down smarrito e farneticante, fuggito dall'Istituto in cui è stato relegato dopo la morte della madre. Sentendosi in colpa per la morte del cane, Harry cercherà di rimediare occupandosi di Georges. Lo conduce, quindi, al primo posto di polizia, dove, però, si scontrerà con la cavillosità dell’agente di guardia. Non gli resta che portarlo nel proprio alloggio di "single" e offrirgli l'unico letto disponibile, il suo. Andati a vuoto numerosi tentativi di disfarsi di Georges, tra cui quello di portarlo dove vive la sorella, Harry inizia un percorso di avvicinamento umano a Georges che lo porterà a vedere il mondo da una nuova prospettiva. Finché, dovendosi assentare un momento dall'automobile in cui lo ha lasciato, non trova più Georges: è salito sulla terrazza dello stabile, si è rimpinzato di cioccolato - verso il quale ha una pericolosa allergia - ha perduto l'equilibrio ed è precipitato giù.

Il percorso didattico, dopo la visione del film, potrebbe prevedere qualche domanda-stimolo come:
1. Qual è secondo voi il significato del titolo del film?
2. Perché Georges scappa dall’Istituto che lo ospita?
3. Come valutate l’incontro tra Georges e Harry?
4. Cosa cambia in Harry?
5. Quali sono i momenti più difficili per Georges?
6. Cosa avrebbe permesso un lieto fine per Georges?


Dopo questo primo momento di avvio della discussione, si potrebbe proporre un approfondimento, mettendo in correlazione quanto emerso dalle domande-stimolo con alcuni concetti chiave:

- NORMALITA’ “MALATA”: è la normalità di Harry, uomo in carriera, stimato formatore aziendale, che vende il suo infallibile metodo fatto di sorrisi e ottimismo di facciata, ottimismo e sorrisi destinati ad infrangersi davanti al fallimento come marito e padre. Nel film è come se si mettesse in evidenza un gioco di scena/retroscena dove alla facciata di finto buon umore segue il ritratto impietoso di un fallimento umano senza speranza.
- BISOGNO DI NORMALITA’ DEL DIVERSO: Georges scappa dall’Istituto, quando i suoi compagni di disavventura dell’Istituto partono per trascorrere le vacanze in famiglia: lui non ha famiglia, non ha nessuno che lo aspetti, anche se più avanti nel film si scoprirà l’esistenza di una sorella che ha “rimosso” Georges (l’apparizione inaspettata di Georges davanti casa sua ha proprio il sapore del ritorno del rimosso). Georges “scappa”, ma in realtà lui si dirige verso quello spazio di normalità svanita rappresentata nel film dalla casa materna ormai vuota.
- L’INCONTRO CON LA DIVERSITA’ E LA COEVOLUZIONE: l’incontro apparentemente casuale di Harry con Georges (l’impressione è di due oggetti che travolti dalle onde del destino – rappresentato nel film simbolicamente con il temporale – vanno a sbattere uno sull’altro) cambierà la vita di entrambi, in particolare quella di Harry. Quella che sembrerebbe una relazione d’aiuto a senso unico (Harry che aiuta Georges) si trasformerà, in un rovesciamento dialettico inaspettato, nella possibilità di redenzione e di riscatto di Harry. Sarà lui infatti a imparare a guardare il mondo da una prospettiva insolita il mondo, a guardare con gli occhi di Georges, uno sguardo ancora pieno di meraviglia per il mondo. Questo sguardo nuovo lo porterà a ritrovare la sua umanità perduta. A sua volta Georges troverà in Harry una casa, quello spazio di normalità tanto desiderato.
- L’OTTAVO GIORNO: “l’ottavo giorno” oltre ad essere il titolo del film è il titolo del mito cosmogonico e antropogonico raccontato da Georges che rivisita il mito biblico: << in principio non c’era niente
 si sentiva solo la musica.
Il primo giorno fece il sole
 che pizzica gli occhi.
Il secondo giorno fece l’acqua:
è bagnata, e bagna i piedi
 se ci cammini dentro.
Poi fece il vento 
che fa il solletico.
Il terzo giorno fece l’erba, 
quando la tagli piange:
le fa male, bisogna consolarla, 
parlarle con dolcezza.
Se tocchi un albero 
diventi albero.
Il quarto giorno fece le vacche
, quando ansimano è caldo.
Il quinto giorno fece gli aeroplani
, se non li prendi
 puoi guardarli passare.
Il sesto giorno fece le persone:
gli uomini, le donne, i bambini
, io preferisco le donne e i bambini
 perché non pungono quando li baci.
Il settimo giorno, per riposarsi, fece le nuvole; 
se le guardi a lungo 
ci vedi disegnate le storie.
Allora si domandò se mancava niente:
l’ottavo giorno fece Georges e vide che era buono.>>. Questo mito invita a pensare alla differenza come evento naturale. Nel film questa “differenza” si scontra con la legge senza amore della comunità: da una parte il diritto naturale ad esistere come gli altri e, dall’altra, la legge della città che vuole confinare la differenza nei recinti degli Istituti. È un conflitto che conduce Georges allo scacco, al salto nel vuoto. Nella realtà dei normali non c’è posto per lui…

lunedì 1 marzo 2010

I Due Tigrotti

Questa è una storia ideata, scritta e drammatizzata da meravigliosi bambini di una quarta elementare durante un laboratorio espressivo che ho condotto nell'anno scolastico 2005/06.