mercoledì 30 marzo 2011

Freddo



Dopo aver ascoltato alla radio una recensione positiva sullo spettacolo tratto dal testo di Lars Noren “Freddo” (con la regia di Marco Plini), ho deciso di scuotermi dall’apatia e di andare a teatro. La storia, tratta da un episodio di cronaca realmente accaduto in Svezia, narra di tre adolescenti che si ritrovano a festeggiare la chiusura dell’anno scolastico con birre e wurstel. La loro immagine (cranio rasato, bretelle rosse su maglie nere, tatuaggi con simboli nazi) non lascia molti dubbi sull’area culturale di riferimento dei tre adolescenti che, ben presto, esibiscono l’intero repertorio di certa cultura, o meglio subcultura, dell’estrema destra: esibizioni muscolari, cori nazisti, discussioni sul calcio, odio per gli stranieri. Lì vediamo lì, in un campetto di periferia, a cazzeggiare. Uno di loro è Ismael, anch’egli straniero, tratteggiato come l’utile idiota del gruppo, quello che porta lo zaino per gli altri, sempre pronto a ridere alla battuta del capo o ad assecondarne i deliri nazionalistici. I loro discorsi riflettono la situazione della Svezia di fine millennio, spaventata dall’arrivo degli immigrati che sono vissuti come possibili ‘inquinatori’ del puro sangue svedese. Ben presto si capisce che i tre amici non sono lì senza un motivo: stanno infatti aspettando Kalle, loro compagno di scuola di origine coreana che è stato adottato da una benestante famiglia svedese.
All’arrivo di Kalle, assistiamo ad un crescendo che passa dalla “bonaria presa in giro” alla tortura psicologica sempre più feroce: Kalle prova a dare delle risposte alle provocazioni, ma è come assistere ad una impossibile dialettica tra Ragione e Follia.
“Anche io sono di cultura svedese, sono qui da quando ho due anni, ho genitori svedesi e con la Corea non ho più nessun legame!” prova a rispondere Kalle al capo branco che lo invita a tornarsene a casa sua. “Anche Ismael è straniero!” continua a difendersi Kalle che riceve per risposta: “Cosa cazzo c’entra, lui è uno di noi!”. La linea di divisione non è allora l’appartenenza alla cultura svedese (come vorrebbero far credere i tre), ma l’appartenenza al branco, alla sua subcultura nazionalista che cerca il capro espiatorio, la vittima sacrificale. Così non c’è spiegazione che tenga: i tre si danno la carica a vicenda e, come in preda ad una pulsione primitiva che cerca come meta solo ed esclusivamente l’annullamento dell’altro, passano dalla violenza verbale a quella fisica. La preda cerca di scappare, ma è ingabbiata, e l’escalation di violenza fisica culmina inevitabilmente con l’assassinio di Kalle.
L’impressione più forte che ho avuto nell’assistere a questo spettacolo era che questo episodio si stesse davvero consumando sotto i miei occhi. La finzione faceva presa sulla realtà al punto di temere per le sorti dell’attore che impersonava Kalle. Una storia di cronaca svedese diventa episodio “vivo”, a cui potremmo assistere (forse in forme meno drammatiche) in un qualunque campetto di periferia delle nostre città.
Con questi pensieri sono uscito un po’ spaventato da teatro e ho ripensato al “fora de ball” del nostro ministro Bossi e alla cultura che incarna e conquista porzioni crescenti di consenso, anche tra adolescenti (sempre più spesso vedo giovani leghisti fare proselitismo fuori dalle nostre scuole).

lunedì 21 marzo 2011

IL CIGNO, IL TAO E IL SESSO


Ho appena visto il film Il cigno nero di Darren Aronofsky, film molto chiacchierato che ha diviso la critica. Dello stesso regista avevo visto Requiem for a dream e The Wrestler. In particolare Requiem for a dream mi aveva fortemente impressionato per la forza delle immagini, le fantasie lisergiche, la denuncia della dipendenza (mediatica o da stupefacenti), alcune intuizioni sul rapporto malato tra una madre e un figlio. Questi temi ritornano nel Cigno nero, ma la storia perde quel realismo da “presa diretta sulla vita” di Requiem for a dream, per diventare storia che continuamente slitta dal piano del quotidiano a quello del simbolico.
Il primo elemento richiamato fin dal titolo è il contrasto dualistico di bianco e nero, opposizione inconciliabile di una esistenza che non conosce la mediazione. Fin da questo primo elemento possiamo intuire la portata simbolica che il regista intende dare alla vicenda della prima ballerina della compagnia, Nina, il cigno bianco, che presto incontra, durante le prove, il suo doppio "nero", Lily. L'incontro-scontro tra Nina e Lily diventa specchio che riflette l'incontro-scontro di Nina con la propria parte "oscura". Non c'è, come nel simbolo del tao, una armonia possibile: o bianco o nero; la vita dell'uno è la morte dell'altro, una dialettica rigida senza possibilità di sintesi superiore: la scoperta del proprio cigno nero coincide con la morte del cigno bianco!
Ma cosa intendono simboleggiare il bianco e il nero?
Il bianco è una sorta di innocenza virginale a cui Nina è costretta da una esistenza divisa tra le prove, vissute come una ossessiva ricerca della perfezione, e una madre invasiva e infantilizzante. Una madre che sulle prime sembra particolarmente affettiva e premurosa, ma che pian piano svela il suo vero volto: una donna tirannica che cerca di realizzare i suoi sogni infranti di ex ballerina tramite la figlia, giocando in modo subdolo il ricatto affettivo "Io ho rinunciato alla carriera artistica per diventare madre!". Questa rinuncia ora le dà il diritto di interferire pesantemente nella vita di Nina, che non ha neanche la libertà di chiudersi nella propria stanza (metafora dell’impossibilità di avere un proprio mondo).
Il nero, invece, è la sessualità, invocata così insistentemente dal regista "luciferino" che vuole fare emergere da Nina "il cigno nero". Il doppio di Nina, Lily, funge da modello e da iniziatrice. Sarà lei a farle scoprire l'estasi (anche in senso chimico) e l'abbandono alla vita sessuale.
Questa iniziazione, però, non è come ci si potrebbe aspettare l'inizio di una positiva evoluzione. In un primo tempo lo spettatore ha questa impressione: Nina inizia ad opporsi alla tirannia materna, a chiudere la porta della sua camera per impedirle l'accesso al suo mondo.
Però, proprio come nella trama del Lago dei cigni che è chiamata ad interpretare sulla scena, la vittoria del cigno nero (la scoperta del suo lato oscuro) coincide con la morte del cigno bianco.
Questa considerazione apre ad una ulteriore chiave di lettura del film: la ricerca ossessiva della perfezione e della bellezza possono innalzare al cielo dell’arte, ma questa coincidenza di arte-vita è fatale, come la biografia di Oscar Wilde ha tristemente insegnato.