È un momento in cui molto spesso si usa con disinvoltura l’etichetta razzista. Il paradosso dell’antirazzista è che, spesso, nell’applicare questa categoria ad altri cade a sua volta in una forma di razzismo, magari non su base etnica ma culturale.
Qual è l’essenza del razzismo in termini psicologici e sociali? In sintesi, si può dire che il razzismo si basa sulla fondamentale distinzione Noi/Loro, dove Noi (inteso come gruppo etnico, ma anche sociale, politico) siamo superiori a Loro. Questa distinzione Noi/Loro è fondamentale nella costruzione del senso di identità: io sono simile alle persone del mio gruppo di riferimento – che costituisce il Noi – e diverso da altri gruppi -Loro- che per un motivo o per l’altro sono inferiori, pericolosi o disgustosi.
Per approfondire il tema, può essere utile mantenere come riferimento l’ottimo articolo del primatologo Robert Sapolsky, pubblicato su Internazionale n. 1234, intitolato “ Perché odiamo gli altri”. Ne riporto un passaggio.
“È stato dimostrato che la tendenza a dividere il mondo in Noi e Loro è profondamente radicata nel nostro cervello. Rileviamo le differenze tra Noi e Loro con straordinaria rapidità. Provate a mettere qualcuno in una macchina per la risonanza magnetica funzionale, cioè uno scanner che evidenzia l’attività cerebrale, e mostrategli una serie di volti per un ventesimo di secondo, un tempo quasi impercettibile. Vi accorgerete che, anche con questa minima esposizione, il cervello elabora i volti dei Loro diversamente da quelli dei Noi.
Molti studi hanno analizzato il fenomeno contrapponendo i gruppi di diverse comunità. Basta mostrare per un attimo il volto di una persona che ha la pelle di un colore diverso da quello del soggetto e, in genere, in chi guarda si attiva subito l’amigdala, una zona del cervello associata alla paura e all’ansia. È stata rilevata anche una minore attivazione della corteccia fusiforme, la regione del cervello specializzata nel riconoscimento facciale, il che comporta che questi volti si ricordano con minor precisione. Di solito vedere il filmato di una mano che viene punta da un ago provoca un “riflesso isomorfo”, che attiva la parte della corteccia motoria corrispondente alla nostra mano e ci fa chiudere il pugno. Se però la mano che osserviamo appartiene a una persona con la pelle di un colore diverso dal nostro, allora l’effetto è meno pronunciato.
Il modo in cui il cervello distingue tra Noi e Loro appare chiaro anche dal comportamento dell’ormone ossitocina, noto per i suoi effetti prosociali, perché spinge le persone a essere più fiduciose, collaborative e generose. Ma l’ossitocina influisce solo sul nostro comportamento nei confronti di persone che appartengono al nostro stesso gruppo, mentre nei confronti degli estranei produce l’effetto opposto (...)
Attraverso il corso della storia i popoli hanno sempre esaltato le persone che fanno parte del loro gruppo. Noi siamo più corretti, più intelligenti, moralmente superiori e più degni di rispetto. Il concetto di Noi implica anche una sopravvalutazione dei tratti arbitrari che ci caratterizzano, il che richiede un certo impegno: dobbiamo razionalizzare i motivi per cui la nostra cucina è più buona, la nostra musica più commovente, la nostra lingua più logica o poetica...
Un esempio di comportamento prosociale nei confronti del nostro gruppo è la facilità con cui siamo disposti a perdonare le trasgressioni di chi ne fa parte. Quando uno di Loro fa qualcosa di sbagliato, lo attribuiamo alla sua essenza: Loro sono così, lo sono sempre stati e lo saranno sempre. Ma quando sbaglia uno di Noi, tendiamo a cercare una spiegazione alternativa: di solito Noi non siamo così, devono esserci delle attenuanti per il suo comportamento. La possibilità di giustificare i reati in base alle circostanze è il motivo per cui nei processi gli avvocati difensori cercano di avere giurati che considerano l’accusato uno di loro...
Nonostante l’importanza dell’aspetto cognitivo, la distinzione tra Noi e Loro è emotiva e automatica, come si capisce bene quando diciamo: “Non so esattamente perché, ma quello che fanno è sbagliato”. Jonathan Haidt della New York University ha dimostrato che spesso la razionalizzazione è una giustificazione a posteriori di sensazioni viscerali, per convincerci di averne capito razionalmente il motivo. Lo dimostrano gli studi basati sulle neuroimmagini. Come abbiamo già detto, vedere anche per un solo istante la faccia di un Loro attiva l’amigdala. Questo avviene molto prima (sulla scala temporale del funzionamento del cervello) che le regioni cognitive della corteccia elaborino l’immagine. Le emozioni vengono prima (...)
Naturalmente, tipi diversi di Loro evocano sentimenti diversi (e reazioni neurobiologiche diverse). La cosa più comune è considerarli sempre minacciosi, arrabbiati e inaffidabili. Nei giochi economici, i soggetti considerano implicitamente gli individui di altre etnie meno degni di fiducia. I bianchi vedono le facce degli afroamericani più arrabbiate, ed è più probabile che attribuiscano a un’altra comunità, dai tratti ambigui, delle facce arrabbiate.
Ma i Loro non evocano solo la sensazione del pericolo, a volte anche quella del disgusto. Questo chiama in causa una zona del cervello affascinante, l’insula. Nei mammiferi l’insula reagisce al sapore o all’odore di marcio provocando una contrazione dello stomaco e il riflesso del vomito. In altre parole, protegge gli animali dagli alimenti velenosi. La cosa importante è che negli esseri umani l’insula non scatena solo un disgusto sensoriale, ma anche morale: basta chiedere a una persona di raccontare qualcosa di immorale che ha fatto o mostrargli immagini di azioni moralmente riprovevoli (per esempio, un linciaggio) e l’insula si attiva immediatamente. Per questo è tutt’altro che una metafora sostenere che qualcosa di moralmente disgustoso ci dà la nausea. I Loro che spesso provocano un senso di disgusto (per esempio, i tossicodipendenti) non attivano solo l’amigdala ma anche l’insula.
Provare sentimenti visceralmente negativi nei confronti delle caratteristiche astratte dei Loro è impegnativo: per l’insula non è facile essere disgustata dalle credenze astratte di un altro gruppo. Ma i marcatori Noi/Loro costituiscono un buon punto di partenza. L’insula si aggrappa al fatto che Loro mangiano cibi ripugnanti, si spalmano di unguenti che odorano di rancido e si vestono in modo scandaloso. Per usare le parole dello psicologo Paul Rozin dell’Università della Pennsylvania, “il disgusto funge da marcatore etnico o di gruppo”. Decidere che Loro mangiano cose disgustose ci aiuta a pensare che hanno anche idee disgustose sull’etica, per esempio.
Poi ci sono i Loro ridicoli, cioè quelli verso i quali esprimiamo la nostra ostilità ridicolizzandoli. se gli altri ci prendono in giro si dimostrano deboli, non vogliono ammettere la loro inferiorità. Ma se siamo Noi a prenderli in giro, consolidiamo
gli stereotipi negativi e reifichiamo la gerarchia.
Perciò i Loro sono di vari tipi, ma comunque sgradevoli: minacciosi e rabbiosi, disgustosi e
ripugnanti, ridicoli, primitivi e tutti uguali (...)”
È bene evidenziare come la parte emotiva giochi un ruolo fondamentale nella percezione di chi appartiene ad un gruppo estraneo (etnico ma non solo). Questa reazione viscerale può oscillare tra paura, aggressività e disgusto. Adottando una visione antropologica di tipo bio-psico-sociale, possiamo dire che la parte biologica (la componente animale che lotta per la difesa del territorio ) e quella psicologica (riguardante la costruzione dell’identità mediante la distinzione Noi/Loro) ci spingono verso l’aggressività, la paura, il disgusto. Queste parti, evidentemente, riguardano tutti. Chi pensa di esserne esente semplicemente non può accettare la loro presenza e attiva diversi meccanismi di difesa: scinde le parti inaccettabili e la proietta sugli altri.
Come se ne esce? Esiste una via d’uscita sul piano individuale (che comporta un lavoro su di sé con l’accettazione delle parti rimosse) e una sociale ed educativa, in cui si prova a riconfigurare in diversi modi lo schema Noi/Loro: è un processo definito come ricategorizzazione . Riprendo a questo proposito qualche altro passaggio dell’articolo di Sapolsky.
“La ricategorizzazione può avvenire anche in situazioni violente, improbabili e particolarmente dolorose. Nella battaglia di Gettysburg, nella guerra di secessione americana, fu ferito a morte il generale dei confederati Lewis Armistead. Mentre era
steso sul campo di battaglia fece un segnale usato nella massoneria sperando di essere riconosciuto da un altro massone. A riconoscerlo fu l’ufficiale unionista Hiram Bingham, che lo protesse e lo portò nel suo ospedale da campo. Improvvisamente la distinzione tra unionisti e confederati era diventata irrilevante rispetto a quella tra massoni e non massoni.
Durante la seconda guerra mondiale, a Creta un commando inglese rapì il generale tedesco Heinrich Kreipe e lo portò con sé in una pericolosa marcia di 18 giorni per raggiungere la costa dove ad aspettarli c’era una nave britannica. Un giorno il gruppo vide la neve sulla montagna più alta di Creta. Kreipe mormorò tra sé il primo verso (in latino) di un’ode di Orazio su un monte coperto di neve e il comandante inglese Patrick Leigh Fermor continuò la poesia. I due ufficiali si resero così conto, per usare le parole di Fermor, di “essersi abbeverati alla stessa fonte”. Questa ricategorizzazione spinse Fermor a far curare le ferite di Kreipe e a garantirne personalmente l’incolumità. Dopo la guerra i due rimasero in contatto e s’incontrarono di nuovo decenni dopo in un programma te- levisivo greco. “Nessun rancore”, disse Kreipe, elogiando “l’ardita operazione” dell’ex nemico.
Infine c’è la tregua di Natale durante la prima guerra mondiale, quando i soldati delle opposte trincee passarono la giornata cantando, pregando e bevendo insieme, giocando a calcio, scambiandosi regali e cercando di far durare il più possibile il cessate il fuoco. Bastò un solo giorno perché la distinzione tra inglesi e tedeschi cedesse il posto a quella, più importante, tra soldati in trincea e ufficiali nelle retrovie. Tutti abbiamo in testa varie dicotomie, ma anche quelle che sembrano imprescindibili e fondamentali, nelle giuste circostanze possono svanire in un attimo.
Ma come possiamo farle evaporare? Con il contatto. Crescere in un ambiente dove regna la diversità ha delle conseguenze, e questo ci porta a parlare degli effetti del contatto prolungato sulla distinzione tra Noi e Loro. Negli anni cinquanta lo psicologo Gordon Allport propose una “teoria del contatto”. una sua versione imprecisa è: mettete insieme i Noi e i Loro (per esempio, gli adolescenti di due paesi ostili in un campeggio estivo), e l’animosità scompare, le cose in comune cominciano a pesare più delle differenze, tutti diventano Noi. Una versione più precisa è: mettete i Noi e i Loro insieme in una situazione di difficoltà, e succederà senz’altro qualcosa di simile. Ma qualcosa potrà sempre andare storto e rovinare tutto. Nello specifico è importante che: entrambe le parti siano costituite da un numero più o meno uguale di persone, e che tutti siano trattati nello stesso modo; il contatto sia prolungato e su un terreno neutrale; ci sia un obiettivo “sovraordinato” per raggiungere il quale tutti devono collaborare, una sorta di scopo comune (per esempio, in un campeggio estivo, la trasformazione di un prato in un campo di calcio)...
Un buon modo per ridurre la reazione implicita Noi/Loro è introdurre in anticipo un controstereotipo (per esempio, quello di un Loro famoso e amato da tutti). Un altro
consiste nel rendere esplicito l’implicito: mostrare alle persone i loro pregiudizi. Un altro ancora è un potente strumento cognitivo: il cambio di prospettiva. Fingete di essere un Loro e spiegate i motivi del vostro rancore. Come vi sentireste dopo essere stati un po’ nei loro panni?
Sostituendo l’essenzialismo con l’individualizzazione. In uno studio è stato chiesto ai soggetti se accettavano le disuguaglianze razziali. Metà di loro era stata spinta a pensare in modo essenzialistico:“Alcuni scienziati hanno confermato le basi genetiche della differenza tra i gruppi razziali”; l’altra metà a pensare in modo non essenzialistico: “secondo gli scienziati, le differenze tra i gruppi razziali non hanno alcuna base genetica”. I secondi si sono rivelati meno propensi ad accettare le disuguaglianze.
Eliminando le gerarchie. Le gerarchie acuiscono le differenze tra Noi e Loro, perché quelli che sono in cima alla piramide giustificano la loro posizione denigrando chi è più in basso, mentre chi è in basso pensa che le classi dominanti siano a basso calore umano e ad alta competenza (B/A)...
Dalle grandi barbarie alle piccole aggressioni, la contrapposizione tra Noi e Loro ha provocato enormi sofferenze. Ma non penso che il nostro obiettivo debba essere “curarci” da questa dicotomia (eliminarla non è possibile, dato che tutti abbiamo un’amigdala).”
Da questa citazione, quindi, risulta del tutto evidente l’importanza di un lavoro educativo in cui la barriera tra Noi e Loro viene resa permeabile e il senso del Noi e del Loro diventa flessibile, mediante processi in grado di stimolare l’empatia e la cooperazione. Quello che non si può fare ( se non al prezzo di pesanti conseguenze…) è ignorare le difficoltà implicite in un percorso di questo tipo, ignorare le parti in ombra che ognuno di noi si porta dentro e confidare ingenuamente (o in modo ipocrita) che le differenze tra Noi e Loro possano magicamente svanire con il semplice contatto.