È un momento in cui molto spesso si usa con disinvoltura l’etichetta razzista. Il paradosso dell’antirazzista è che, spesso, nell’applicare questa categoria ad altri cade a sua volta in una forma di razzismo, magari non su base etnica ma culturale.
Qual è l’essenza del razzismo in termini psicologici e sociali? In sintesi, si può dire che il razzismo si basa sulla fondamentale distinzione Noi/Loro, dove Noi (inteso come gruppo etnico, ma anche sociale, politico) siamo superiori a Loro. Questa distinzione Noi/Loro è fondamentale nella costruzione del senso di identità: io sono simile alle persone del mio gruppo di riferimento – che costituisce il Noi – e diverso da altri gruppi -Loro- che per un motivo o per l’altro sono inferiori, pericolosi o disgustosi.
Per approfondire il tema, può essere utile mantenere come riferimento l’ottimo articolo del primatologo Robert Sapolsky, pubblicato su Internazionale n. 1234, intitolato “ Perché odiamo gli altri”. Ne riporto un passaggio.
“È stato dimostrato che la tendenza a dividere il mondo in Noi e Loro è profondamente radicata nel nostro cervello. Rileviamo le differenze tra Noi e Loro con straordinaria rapidità. Provate a mettere qualcuno in una macchina per la risonanza magnetica funzionale, cioè uno scanner che evidenzia l’attività cerebrale, e mostrategli una serie di volti per un ventesimo di secondo, un tempo quasi impercettibile. Vi accorgerete che, anche con questa minima esposizione, il cervello elabora i volti dei Loro diversamente da quelli dei Noi.
Molti studi hanno analizzato il fenomeno contrapponendo i gruppi di diverse comunità. Basta mostrare per un attimo il volto di una persona che ha la pelle di un colore diverso da quello del soggetto e, in genere, in chi guarda si attiva subito l’amigdala, una zona del cervello associata alla paura e all’ansia. È stata rilevata anche una minore attivazione della corteccia fusiforme, la regione del cervello specializzata nel riconoscimento facciale, il che comporta che questi volti si ricordano con minor precisione. Di solito vedere il filmato di una mano che viene punta da un ago provoca un “riflesso isomorfo”, che attiva la parte della corteccia motoria corrispondente alla nostra mano e ci fa chiudere il pugno. Se però la mano che osserviamo appartiene a una persona con la pelle di un colore diverso dal nostro, allora l’effetto è meno pronunciato.
Il modo in cui il cervello distingue tra Noi e Loro appare chiaro anche dal comportamento dell’ormone ossitocina, noto per i suoi effetti prosociali, perché spinge le persone a essere più fiduciose, collaborative e generose. Ma l’ossitocina influisce solo sul nostro comportamento nei confronti di persone che appartengono al nostro stesso gruppo, mentre nei confronti degli estranei produce l’effetto opposto (...)
Attraverso il corso della storia i popoli hanno sempre esaltato le persone che fanno parte del loro gruppo. Noi siamo più corretti, più intelligenti, moralmente superiori e più degni di rispetto. Il concetto di Noi implica anche una sopravvalutazione dei tratti arbitrari che ci caratterizzano, il che richiede un certo impegno: dobbiamo razionalizzare i motivi per cui la nostra cucina è più buona, la nostra musica più commovente, la nostra lingua più logica o poetica...
Un esempio di comportamento prosociale nei confronti del nostro gruppo è la facilità con cui siamo disposti a perdonare le trasgressioni di chi ne fa parte. Quando uno di Loro fa qualcosa di sbagliato, lo attribuiamo alla sua essenza: Loro sono così, lo sono sempre stati e lo saranno sempre. Ma quando sbaglia uno di Noi, tendiamo a cercare una spiegazione alternativa: di solito Noi non siamo così, devono esserci delle attenuanti per il suo comportamento. La possibilità di giustificare i reati in base alle circostanze è il motivo per cui nei processi gli avvocati difensori cercano di avere giurati che considerano l’accusato uno di loro...
Nonostante l’importanza dell’aspetto cognitivo, la distinzione tra Noi e Loro è emotiva e automatica, come si capisce bene quando diciamo: “Non so esattamente perché, ma quello che fanno è sbagliato”. Jonathan Haidt della New York University ha dimostrato che spesso la razionalizzazione è una giustificazione a posteriori di sensazioni viscerali, per convincerci di averne capito razionalmente il motivo. Lo dimostrano gli studi basati sulle neuroimmagini. Come abbiamo già detto, vedere anche per un solo istante la faccia di un Loro attiva l’amigdala. Questo avviene molto prima (sulla scala temporale del funzionamento del cervello) che le regioni cognitive della corteccia elaborino l’immagine. Le emozioni vengono prima (...)
Naturalmente, tipi diversi di Loro evocano sentimenti diversi (e reazioni neurobiologiche diverse). La cosa più comune è considerarli sempre minacciosi, arrabbiati e inaffidabili. Nei giochi economici, i soggetti considerano implicitamente gli individui di altre etnie meno degni di fiducia. I bianchi vedono le facce degli afroamericani più arrabbiate, ed è più probabile che attribuiscano a un’altra comunità, dai tratti ambigui, delle facce arrabbiate.
Ma i Loro non evocano solo la sensazione del pericolo, a volte anche quella del disgusto. Questo chiama in causa una zona del cervello affascinante, l’insula. Nei mammiferi l’insula reagisce al sapore o all’odore di marcio provocando una contrazione dello stomaco e il riflesso del vomito. In altre parole, protegge gli animali dagli alimenti velenosi. La cosa importante è che negli esseri umani l’insula non scatena solo un disgusto sensoriale, ma anche morale: basta chiedere a una persona di raccontare qualcosa di immorale che ha fatto o mostrargli immagini di azioni moralmente riprovevoli (per esempio, un linciaggio) e l’insula si attiva immediatamente. Per questo è tutt’altro che una metafora sostenere che qualcosa di moralmente disgustoso ci dà la nausea. I Loro che spesso provocano un senso di disgusto (per esempio, i tossicodipendenti) non attivano solo l’amigdala ma anche l’insula.
Provare sentimenti visceralmente negativi nei confronti delle caratteristiche astratte dei Loro è impegnativo: per l’insula non è facile essere disgustata dalle credenze astratte di un altro gruppo. Ma i marcatori Noi/Loro costituiscono un buon punto di partenza. L’insula si aggrappa al fatto che Loro mangiano cibi ripugnanti, si spalmano di unguenti che odorano di rancido e si vestono in modo scandaloso. Per usare le parole dello psicologo Paul Rozin dell’Università della Pennsylvania, “il disgusto funge da marcatore etnico o di gruppo”. Decidere che Loro mangiano cose disgustose ci aiuta a pensare che hanno anche idee disgustose sull’etica, per esempio.
Poi ci sono i Loro ridicoli, cioè quelli verso i quali esprimiamo la nostra ostilità ridicolizzandoli. se gli altri ci prendono in giro si dimostrano deboli, non vogliono ammettere la loro inferiorità. Ma se siamo Noi a prenderli in giro, consolidiamo
gli stereotipi negativi e reifichiamo la gerarchia.
Perciò i Loro sono di vari tipi, ma comunque sgradevoli: minacciosi e rabbiosi, disgustosi e
ripugnanti, ridicoli, primitivi e tutti uguali (...)”
È bene evidenziare come la parte emotiva giochi un ruolo fondamentale nella percezione di chi appartiene ad un gruppo estraneo (etnico ma non solo). Questa reazione viscerale può oscillare tra paura, aggressività e disgusto. Adottando una visione antropologica di tipo bio-psico-sociale, possiamo dire che la parte biologica (la componente animale che lotta per la difesa del territorio ) e quella psicologica (riguardante la costruzione dell’identità mediante la distinzione Noi/Loro) ci spingono verso l’aggressività, la paura, il disgusto. Queste parti, evidentemente, riguardano tutti. Chi pensa di esserne esente semplicemente non può accettare la loro presenza e attiva diversi meccanismi di difesa: scinde le parti inaccettabili e la proietta sugli altri.
Come se ne esce? Esiste una via d’uscita sul piano individuale (che comporta un lavoro su di sé con l’accettazione delle parti rimosse) e una sociale ed educativa, in cui si prova a riconfigurare in diversi modi lo schema Noi/Loro: è un processo definito come ricategorizzazione . Riprendo a questo proposito qualche altro passaggio dell’articolo di Sapolsky.
“La ricategorizzazione può avvenire anche in situazioni violente, improbabili e particolarmente dolorose. Nella battaglia di Gettysburg, nella guerra di secessione americana, fu ferito a morte il generale dei confederati Lewis Armistead. Mentre era
steso sul campo di battaglia fece un segnale usato nella massoneria sperando di essere riconosciuto da un altro massone. A riconoscerlo fu l’ufficiale unionista Hiram Bingham, che lo protesse e lo portò nel suo ospedale da campo. Improvvisamente la distinzione tra unionisti e confederati era diventata irrilevante rispetto a quella tra massoni e non massoni.
Durante la seconda guerra mondiale, a Creta un commando inglese rapì il generale tedesco Heinrich Kreipe e lo portò con sé in una pericolosa marcia di 18 giorni per raggiungere la costa dove ad aspettarli c’era una nave britannica. Un giorno il gruppo vide la neve sulla montagna più alta di Creta. Kreipe mormorò tra sé il primo verso (in latino) di un’ode di Orazio su un monte coperto di neve e il comandante inglese Patrick Leigh Fermor continuò la poesia. I due ufficiali si resero così conto, per usare le parole di Fermor, di “essersi abbeverati alla stessa fonte”. Questa ricategorizzazione spinse Fermor a far curare le ferite di Kreipe e a garantirne personalmente l’incolumità. Dopo la guerra i due rimasero in contatto e s’incontrarono di nuovo decenni dopo in un programma te- levisivo greco. “Nessun rancore”, disse Kreipe, elogiando “l’ardita operazione” dell’ex nemico.
Infine c’è la tregua di Natale durante la prima guerra mondiale, quando i soldati delle opposte trincee passarono la giornata cantando, pregando e bevendo insieme, giocando a calcio, scambiandosi regali e cercando di far durare il più possibile il cessate il fuoco. Bastò un solo giorno perché la distinzione tra inglesi e tedeschi cedesse il posto a quella, più importante, tra soldati in trincea e ufficiali nelle retrovie. Tutti abbiamo in testa varie dicotomie, ma anche quelle che sembrano imprescindibili e fondamentali, nelle giuste circostanze possono svanire in un attimo.
Ma come possiamo farle evaporare? Con il contatto. Crescere in un ambiente dove regna la diversità ha delle conseguenze, e questo ci porta a parlare degli effetti del contatto prolungato sulla distinzione tra Noi e Loro. Negli anni cinquanta lo psicologo Gordon Allport propose una “teoria del contatto”. una sua versione imprecisa è: mettete insieme i Noi e i Loro (per esempio, gli adolescenti di due paesi ostili in un campeggio estivo), e l’animosità scompare, le cose in comune cominciano a pesare più delle differenze, tutti diventano Noi. Una versione più precisa è: mettete i Noi e i Loro insieme in una situazione di difficoltà, e succederà senz’altro qualcosa di simile. Ma qualcosa potrà sempre andare storto e rovinare tutto. Nello specifico è importante che: entrambe le parti siano costituite da un numero più o meno uguale di persone, e che tutti siano trattati nello stesso modo; il contatto sia prolungato e su un terreno neutrale; ci sia un obiettivo “sovraordinato” per raggiungere il quale tutti devono collaborare, una sorta di scopo comune (per esempio, in un campeggio estivo, la trasformazione di un prato in un campo di calcio)...
Un buon modo per ridurre la reazione implicita Noi/Loro è introdurre in anticipo un controstereotipo (per esempio, quello di un Loro famoso e amato da tutti). Un altro
consiste nel rendere esplicito l’implicito: mostrare alle persone i loro pregiudizi. Un altro ancora è un potente strumento cognitivo: il cambio di prospettiva. Fingete di essere un Loro e spiegate i motivi del vostro rancore. Come vi sentireste dopo essere stati un po’ nei loro panni?
Sostituendo l’essenzialismo con l’individualizzazione. In uno studio è stato chiesto ai soggetti se accettavano le disuguaglianze razziali. Metà di loro era stata spinta a pensare in modo essenzialistico:“Alcuni scienziati hanno confermato le basi genetiche della differenza tra i gruppi razziali”; l’altra metà a pensare in modo non essenzialistico: “secondo gli scienziati, le differenze tra i gruppi razziali non hanno alcuna base genetica”. I secondi si sono rivelati meno propensi ad accettare le disuguaglianze.
Eliminando le gerarchie. Le gerarchie acuiscono le differenze tra Noi e Loro, perché quelli che sono in cima alla piramide giustificano la loro posizione denigrando chi è più in basso, mentre chi è in basso pensa che le classi dominanti siano a basso calore umano e ad alta competenza (B/A)...
Dalle grandi barbarie alle piccole aggressioni, la contrapposizione tra Noi e Loro ha provocato enormi sofferenze. Ma non penso che il nostro obiettivo debba essere “curarci” da questa dicotomia (eliminarla non è possibile, dato che tutti abbiamo un’amigdala).”
Da questa citazione, quindi, risulta del tutto evidente l’importanza di un lavoro educativo in cui la barriera tra Noi e Loro viene resa permeabile e il senso del Noi e del Loro diventa flessibile, mediante processi in grado di stimolare l’empatia e la cooperazione. Quello che non si può fare ( se non al prezzo di pesanti conseguenze…) è ignorare le difficoltà implicite in un percorso di questo tipo, ignorare le parti in ombra che ognuno di noi si porta dentro e confidare ingenuamente (o in modo ipocrita) che le differenze tra Noi e Loro possano magicamente svanire con il semplice contatto.
DiversaMente
C'è chi sfugge l'alterità per le problematicità che pone e chi accetta la sfida. Questo spazio virtuale è dedicato a chi cerca di vincere le proprie paure e le proprie difese e si confronta con l'altro nella convinzione che questa è la strada per diventare sempre più umano.
mercoledì 20 giugno 2018
giovedì 12 giugno 2014
Le teorie dell’intelligenza e le implicazioni pedagogiche
Le abilità innate possono essere definite come capacità potenzialmente presenti dalla nascita, che permettono l’acquisizione di apprendimenti complessi. Si può pensare ad abilità geneticamente predeterminate o a predisposizioni ad apprendere nei più diversi ambiti. Nel caso si pensi ad abilità geneticamente predeterminate, i limiti vengono concepiti come strutturali: alcuni nonostante l’impegno, le strategie e la motivazione non riusciranno mai ad andare oltre un certo livello prefissato (si può fare l’esempio del ritardo mentale). La seconda posizione, invece, postula che chiunque con un approccio corretto al compito, dal punto di vista strategico e motivazionale, e un adeguato sostegno sociale può sviluppare le proprie capacità.
Le due visioni delle abilità innate hanno profonde ripercussioni sulla motivazione: se queste abilità sono predisposizioni ad apprendere che possono essere sviluppate, lo studente può sperare di migliorare il proprio rendimento scolastico mediante l’impegno o efficaci strategie di studio (motivazione alla riuscita); al contrario, se si pensa che le abilità siano rigidamente determinate lo studente arriverà ad evitare situazioni in cui rischia di mostrarsi poco abile, giungendo facilmente a situazioni d’ansia e di calo della motivazione. Le relazioni fra abilità e motivazione risentono quindi del modo in cui le abilità sono concepite, più che dell’effettivo livello di capacità.
L’abilità “innata” che ha sicuramente maggiore peso nel contesto scolastico è l’intelligenza. Sappiamo quanto sia problematica una definizione dell’intelligenza e come sia difficile stabilire fino a che punto sia innata o acquisita in base alle esperienze. Nel saggio L’intelligenza di C. Cornoldi (2007) troviamo le seguenti considerazioni:
…in che misura la nostra intelligenza dipende da fattori innati e in che misura dalla esperienze? Questo dibattito viene espresso in lingua inglese con un quesito molto semplice: "nature o nurture?", "dotazione biologica o effetto dell’esperienza e dell’educazione?"; che si presta, in realtà, a diverse interpretazioni e a differenti risposte. (…) si è fornita una stima di ereditabilità per l’intelligenza attorno al 70% e una molto più bassa per altri tratti, come la propensione alla religiosità, l’interesse per gli avvenimenti sportivi, ecc. I valori di ereditabilità forniti sull’intelligenza sono quindi elevati e fanno propendere attualmente l’ago della bilancia dalla parte degli innatisti, di coloro cioè che ritengono che l’intelligenza sia innata.
Nella storia dello studio dell’ereditarietà dell’intelligenza, si assiste in questo modo a corsi e ricorsi. Infatti uno dei più classici studi sull’argomento, quello di Galton (1869), con un titolo più che illustrativo Hereditary Genius, sosteneva che la genialità era sostanzialmente ereditaria…Il modo di procedere di Galton aveva forme di ingenuità che la moderna genetica ha del tutto superato. Fino a che punto il figlio di un valente pittore diventa pure un grande pittore per il fatto che ne ha ereditato il talento innato, e fino a che punto deve al padre le opportunità che gli ha dato di sviluppare sin da bambino sensibilità e tecniche idonee? Esperienze appropriate, fin dai primi anni di vita, possono in effetti dirigere una persona verso una certa manifestazione dello spirito, educarne il gusto e le capacità espressive… si può pensare che per sviluppare elevate abilità intellettive l’individuo deve avere avuto le stimolazioni idonee. Riflettiamo su alcune di queste stimolazioni idonee…Se la stimolazione fetale non è ottimale, così come accade ai prematuri, lo sviluppo intellettivo può risentirne. Più clamorose sono le conseguenze sullo sviluppo della persona (intelligenza compresa) dal fatto di subire forti deprivazioni di stimolazione nei primi anni di vita. Un bambino può anche essere geneticamente dotato, ma – se nei primi anni di vita non riceve le opportune stimolazioni che ricevono normalmente la gran parte dei bambini- il suo sviluppo intellettivo ne risente. (pp 124-127)
Dal punto di vista del successo scolastico, è di particolare importanza la teoria dell’intelligenza di cui insegnanti e studenti dispongono. Con il termine "teoria dell’intelligenza" ci si riferisce a come l’intelligenza viene interpretata, quali che siano i contenuti. È possibile distinguere tra teorie esplicite e teorie implicite dell’intelligenza. Le teorie esplicite fanno riferimento ai risultati che provengono dall’applicazione dei test d’intelligenza e si possono raggruppare in tre tipologie: teorie unitarie, che postulano un fattore unitario nelle diverse manifestazioni dell’intelligenza (il fattore G); teorie multiple che mettono l’accento su alcune forme fondamentali di intelligenza (Sternberg parla di tre forme di intelligenza – analitica, pratica e creativa-; Gardner, invece, ha proposto sette diverse forme di intelligenza -linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporea, intrapersonale, interpersonale-); teorie gerarchiche che cercano di mettere insieme teorie unitarie e multiple, prendendo in considerazione sia abilità di livello generale con funzioni di controllo, gerarchicamente superiori, sia abilità più specifiche.
Per un insegnante, approfondire il tema delle teorie esplicite dell’intelligenza, può avere una ricaduta importante sulle modalità didattiche utilizzate e sulle diverse proposte formative rivolte agli studenti. Ad esempio, l’insegnante che fa propria la teoria delle intelligenze multiple di Gardner potrà utilizzare durante le lezioni non solo il linguaggio verbale, che fa riferimento all’intelligenza linguistica, ma anche supporti visivi che possono facilitare l’intelligenza spaziale. Oppure, utilizzando la prospettiva delle tre intelligenze proposte da Sternberg, un insegnante potrà affrontare uno stesso tema in modo diversificato. Così, ad esempio si rivolgerà all’intelligenza analitica facendo confrontare la teoria dei sogni di Freud con quella di Crick; all’ intelligenza creativa chiedendo la messa a punto di un esperimento per testare la teoria dell’interpretazione dei sogni; all’intelligenza pratica chiedendo quali sono le implicazioni che ha avuto nella propria vita la teoria dell’interpretazione dei sogni di Freud (esempio ripreso da Sternberg).
La teoria triarchica dell’intelligenza umana può trovare applicazione immediata all’interno di una classe. La sua applicazione è comunque differente da quella di altre teorie sulle intelligenze multiple, come quella di Gardner. Quest’ultima identifica ambiti differenziati del talento intellettivo. Così, suggerisce la presenza di ambiti o campi dell’attività umana che noi dovremmo inserire nel nostro curriculum, come la musica o la psicomotricità. La teoria triarchica, invece, specifica gli utilizzi della conoscenza umana (cioè per intenti analitici, creativi o pratici). Infatti essa si applica a ogni area e a ogni argomento. (Sternberg, Swerling 1997:72)
Le teorie implicite dell’intelligenza crediamo, però, abbiano un peso ancor maggiore dal punto di vista del successo scolastico. Le teorie implicite si basano sul concetto d’intelligenza posseduto dalle singole persone e si possono distinguere in due tipi: l’intelligenza come entità o l’intelligenza dell’accrescimento o incrementale. Nel primo caso l’intelligenza è concepita come un insieme di abilità difficilmente modificabili per effetto delle esperienze e degli apprendimenti ( si può parlare di teorie implicite innatiste). Nel secondo caso, invece, si ritiene che l’intelligenza possa essere modificata, in genere positivamente, mediante opportune stimolazioni (teoria implicita empirista).
Lo studente che concepisce l’intelligenza come entità e percepisce un basso livello di abilità nello svolgimento dei compiti si sentirà impotente ed eviterà le situazioni impegnative o che richiedono uno sforzo prolungato (“Non riesco, non sono capace, sono poco intelligente!”). Al contrario chi ha lo stesso tipo di teoria ma percepisce un buon livello di abilità sarà portato a cercare situazioni di apprendimento sfidanti per poter dimostrare le proprie abilità.
Chi concepisce l’intelligenza non come entità fissa, ma come qualcosa di modificabile sarà maggiormente motivato ad impegnarsi per l’apprendimento e la crescita.
L’importanza della teoria dell’intelligenza risiede negli effetti che questa produce sull’apprendimento. In particolare, una teoria dell’intelligenza come accrescimento sostiene l’apprendimento e produce differenze in positivo sulle effettive prestazioni nei seguenti casi:
• di fronte agli insuccessi, che non vengono vissuti come dimostrazione di scarse abilità, ma come indice di un impegno insufficiente o non adeguato. Tale interpretazione è particolarmente funzionale all’apprendimento, in quanto consente di mantenere positive aspettative di riuscita, nonostante i precedenti fallimenti;
• quando l’ambiente scolastico pone richieste impegnative che inducono lo studente ad affrontare compiti lunghi e difficili in cui le proprie abilità vengono messe alla prova, con il rischio di fallire, ma anche con la possibilità di imparare;
• nel passaggio dall’uno all’altro livello scolare per cui studenti che possiedono una teoria incrementale tendono a migliorare rispetto alle prestazioni precedenti, indipendentemente dall’effettivo livello di queste, mentre coloro che possiedono una teoria dell’entità tendono a mantenere i livelli preesistenti… (De Beni, Moè 2000:136-137)
Quindi chi possiede una teoria incrementale tende a migliorare continuamente fino ad ottenere prestazioni superiori rispetto a chi possiede una teoria dell’entità.
Dal punto di vista degli insegnanti, disporre di una teoria implicita dell’intelligenza come entità o al contrario di una teoria incrementale, può determinare effetti considerevoli sui risultati nei processi di insegnamento-apprendimento. Se l’insegnante ha una teoria implicita innatista, sarà portato a dedicare poco tempo e poche attenzioni a coloro che vengono valutati come “poco intelligenti”: in questo caso, infatti, si è convinti che l’impegno (sia da parte dell’insegnante sia da parte dello studente) non puo’ influire sui risultati. Si sarà, quindi, portati ad investire le proprie energie con gli studenti più promettenti.
Un meccanismo di questo tipo è stato studiato alla fine degli anni ’60 dagli psicologi Rosenthal e Jacobson, che definirono questo fenomeno come effetto Pigmalione. Pigmalione era il mitico re di Cipro che, secondo la leggenda, scolpì una statua di donna e poi se ne innamorò, al punto da desiderare che essa si animasse. Afrodite lo accontentò e la statua prese vita… Per Rosenthal e Jacobson succede qualcosa di simile nel rendimento scolastico dei ragazzi, che, secondo le loro ricerche, è fortemente influenzato dalle aspettative degli insegnanti. Per verificare la loro ipotesi Rosenthal e Jacobson condussero delle ricerche in una scuola di un quartiere malandato di San Francisco.
All’inizio dell’esperimento, nel 1964, dicemmo agli insegnanti che avevamo bisogno di convalidare un nuovo tipo di test costruito per predire il rendimento scolastico o i progressi intellettuali dei bambini…Nel maggio del 1964 gli insegnanti somministrarono il test a tutti i bambini della scuola materna e dal primo al quinto anno della scuola elementare…Prima che la Oak School riaprisse, nel mese di settembre, circa il 20% dei bambini erano stati da noi scelti e definiti <>… I nomi dei venti bambini erano stati scelti a caso. Il trattamento sperimentale dei bambini non consisteva che nel dare i loro nomi ai loro nuovi insegnanti indicandoli come allievi dai quali ci si poteva spettare dei progressi eccezionali nello sviluppo intellettuale durante l’anno. Di conseguenza, la differenza fra questi ei bambini <>, che costituivano il gruppo di controllo, era interamente e solo nella testa degli insegnanti.
A tutti i bambini fu somministrato di nuovo lo stesso test quattro mesi dopo l’inizio della scuola, al termine dell’anno scolastico e nel mese di maggio dell’anno seguente….I risultati indicarono che i bambini dai quali gli insegnanti si aspettavano maggiori progressi nello sviluppo intellettuale fecero realmente questi progressi.
La spiegazione di questo fenomeno sta, secondo gli autori, nel fatto che gli insegnanti avrebbero interagito con i bambini “dotati” in modo diverso, comunicandogli anche in modo non verbale (tono di voce, espressioni facciali, posizioni del corpo) le loro aspettative, seguendoli con più attenzione e fornendo incoraggiamenti. I bambini, dal canto loro, reagendo di conseguenza, hanno modificato il proprio impegno, ma anche l’immagine di sé e il livello dei propri obiettivi.
Gli insegnanti coinvolti nell’esperimento, quindi, a livello perlopiù inconscio, hanno offerto maggiore attenzione e un certo numero di feed back non verbali agli studenti che, sulla base dei test di intelligenza, avevano più probabilità di successo. È il meccanismo noto come profezia che si autoadempie: ciò che si crede avverrà, avviene davvero. Ma le aspettative sono, nel caso degli insegnanti, in relazione alla teoria implicita dell’intelligenza: per l’insegnante che dispone di una teoria innatista, ogni sforzo con un ragazzo “deficiente” sarà inutile; così per evitare la frustrazione di un fallimento, sarà portato a dedicare più attenzione a colui che reputa “intelligente”. L’insegnante che dispone di una teoria incrementale, al contrario, avrà un diverso atteggiamento con chi parte da situazioni scolastiche più difficili, perché attribuisce valore all’impegno e alle esperienze di apprendimento.
Le due visioni delle abilità innate hanno profonde ripercussioni sulla motivazione: se queste abilità sono predisposizioni ad apprendere che possono essere sviluppate, lo studente può sperare di migliorare il proprio rendimento scolastico mediante l’impegno o efficaci strategie di studio (motivazione alla riuscita); al contrario, se si pensa che le abilità siano rigidamente determinate lo studente arriverà ad evitare situazioni in cui rischia di mostrarsi poco abile, giungendo facilmente a situazioni d’ansia e di calo della motivazione. Le relazioni fra abilità e motivazione risentono quindi del modo in cui le abilità sono concepite, più che dell’effettivo livello di capacità.
L’abilità “innata” che ha sicuramente maggiore peso nel contesto scolastico è l’intelligenza. Sappiamo quanto sia problematica una definizione dell’intelligenza e come sia difficile stabilire fino a che punto sia innata o acquisita in base alle esperienze. Nel saggio L’intelligenza di C. Cornoldi (2007) troviamo le seguenti considerazioni:
…in che misura la nostra intelligenza dipende da fattori innati e in che misura dalla esperienze? Questo dibattito viene espresso in lingua inglese con un quesito molto semplice: "nature o nurture?", "dotazione biologica o effetto dell’esperienza e dell’educazione?"; che si presta, in realtà, a diverse interpretazioni e a differenti risposte. (…) si è fornita una stima di ereditabilità per l’intelligenza attorno al 70% e una molto più bassa per altri tratti, come la propensione alla religiosità, l’interesse per gli avvenimenti sportivi, ecc. I valori di ereditabilità forniti sull’intelligenza sono quindi elevati e fanno propendere attualmente l’ago della bilancia dalla parte degli innatisti, di coloro cioè che ritengono che l’intelligenza sia innata.
Nella storia dello studio dell’ereditarietà dell’intelligenza, si assiste in questo modo a corsi e ricorsi. Infatti uno dei più classici studi sull’argomento, quello di Galton (1869), con un titolo più che illustrativo Hereditary Genius, sosteneva che la genialità era sostanzialmente ereditaria…Il modo di procedere di Galton aveva forme di ingenuità che la moderna genetica ha del tutto superato. Fino a che punto il figlio di un valente pittore diventa pure un grande pittore per il fatto che ne ha ereditato il talento innato, e fino a che punto deve al padre le opportunità che gli ha dato di sviluppare sin da bambino sensibilità e tecniche idonee? Esperienze appropriate, fin dai primi anni di vita, possono in effetti dirigere una persona verso una certa manifestazione dello spirito, educarne il gusto e le capacità espressive… si può pensare che per sviluppare elevate abilità intellettive l’individuo deve avere avuto le stimolazioni idonee. Riflettiamo su alcune di queste stimolazioni idonee…Se la stimolazione fetale non è ottimale, così come accade ai prematuri, lo sviluppo intellettivo può risentirne. Più clamorose sono le conseguenze sullo sviluppo della persona (intelligenza compresa) dal fatto di subire forti deprivazioni di stimolazione nei primi anni di vita. Un bambino può anche essere geneticamente dotato, ma – se nei primi anni di vita non riceve le opportune stimolazioni che ricevono normalmente la gran parte dei bambini- il suo sviluppo intellettivo ne risente. (pp 124-127)
Dal punto di vista del successo scolastico, è di particolare importanza la teoria dell’intelligenza di cui insegnanti e studenti dispongono. Con il termine "teoria dell’intelligenza" ci si riferisce a come l’intelligenza viene interpretata, quali che siano i contenuti. È possibile distinguere tra teorie esplicite e teorie implicite dell’intelligenza. Le teorie esplicite fanno riferimento ai risultati che provengono dall’applicazione dei test d’intelligenza e si possono raggruppare in tre tipologie: teorie unitarie, che postulano un fattore unitario nelle diverse manifestazioni dell’intelligenza (il fattore G); teorie multiple che mettono l’accento su alcune forme fondamentali di intelligenza (Sternberg parla di tre forme di intelligenza – analitica, pratica e creativa-; Gardner, invece, ha proposto sette diverse forme di intelligenza -linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporea, intrapersonale, interpersonale-); teorie gerarchiche che cercano di mettere insieme teorie unitarie e multiple, prendendo in considerazione sia abilità di livello generale con funzioni di controllo, gerarchicamente superiori, sia abilità più specifiche.
Per un insegnante, approfondire il tema delle teorie esplicite dell’intelligenza, può avere una ricaduta importante sulle modalità didattiche utilizzate e sulle diverse proposte formative rivolte agli studenti. Ad esempio, l’insegnante che fa propria la teoria delle intelligenze multiple di Gardner potrà utilizzare durante le lezioni non solo il linguaggio verbale, che fa riferimento all’intelligenza linguistica, ma anche supporti visivi che possono facilitare l’intelligenza spaziale. Oppure, utilizzando la prospettiva delle tre intelligenze proposte da Sternberg, un insegnante potrà affrontare uno stesso tema in modo diversificato. Così, ad esempio si rivolgerà all’intelligenza analitica facendo confrontare la teoria dei sogni di Freud con quella di Crick; all’ intelligenza creativa chiedendo la messa a punto di un esperimento per testare la teoria dell’interpretazione dei sogni; all’intelligenza pratica chiedendo quali sono le implicazioni che ha avuto nella propria vita la teoria dell’interpretazione dei sogni di Freud (esempio ripreso da Sternberg).
La teoria triarchica dell’intelligenza umana può trovare applicazione immediata all’interno di una classe. La sua applicazione è comunque differente da quella di altre teorie sulle intelligenze multiple, come quella di Gardner. Quest’ultima identifica ambiti differenziati del talento intellettivo. Così, suggerisce la presenza di ambiti o campi dell’attività umana che noi dovremmo inserire nel nostro curriculum, come la musica o la psicomotricità. La teoria triarchica, invece, specifica gli utilizzi della conoscenza umana (cioè per intenti analitici, creativi o pratici). Infatti essa si applica a ogni area e a ogni argomento. (Sternberg, Swerling 1997:72)
Le teorie implicite dell’intelligenza crediamo, però, abbiano un peso ancor maggiore dal punto di vista del successo scolastico. Le teorie implicite si basano sul concetto d’intelligenza posseduto dalle singole persone e si possono distinguere in due tipi: l’intelligenza come entità o l’intelligenza dell’accrescimento o incrementale. Nel primo caso l’intelligenza è concepita come un insieme di abilità difficilmente modificabili per effetto delle esperienze e degli apprendimenti ( si può parlare di teorie implicite innatiste). Nel secondo caso, invece, si ritiene che l’intelligenza possa essere modificata, in genere positivamente, mediante opportune stimolazioni (teoria implicita empirista).
Lo studente che concepisce l’intelligenza come entità e percepisce un basso livello di abilità nello svolgimento dei compiti si sentirà impotente ed eviterà le situazioni impegnative o che richiedono uno sforzo prolungato (“Non riesco, non sono capace, sono poco intelligente!”). Al contrario chi ha lo stesso tipo di teoria ma percepisce un buon livello di abilità sarà portato a cercare situazioni di apprendimento sfidanti per poter dimostrare le proprie abilità.
Chi concepisce l’intelligenza non come entità fissa, ma come qualcosa di modificabile sarà maggiormente motivato ad impegnarsi per l’apprendimento e la crescita.
L’importanza della teoria dell’intelligenza risiede negli effetti che questa produce sull’apprendimento. In particolare, una teoria dell’intelligenza come accrescimento sostiene l’apprendimento e produce differenze in positivo sulle effettive prestazioni nei seguenti casi:
• di fronte agli insuccessi, che non vengono vissuti come dimostrazione di scarse abilità, ma come indice di un impegno insufficiente o non adeguato. Tale interpretazione è particolarmente funzionale all’apprendimento, in quanto consente di mantenere positive aspettative di riuscita, nonostante i precedenti fallimenti;
• quando l’ambiente scolastico pone richieste impegnative che inducono lo studente ad affrontare compiti lunghi e difficili in cui le proprie abilità vengono messe alla prova, con il rischio di fallire, ma anche con la possibilità di imparare;
• nel passaggio dall’uno all’altro livello scolare per cui studenti che possiedono una teoria incrementale tendono a migliorare rispetto alle prestazioni precedenti, indipendentemente dall’effettivo livello di queste, mentre coloro che possiedono una teoria dell’entità tendono a mantenere i livelli preesistenti… (De Beni, Moè 2000:136-137)
Quindi chi possiede una teoria incrementale tende a migliorare continuamente fino ad ottenere prestazioni superiori rispetto a chi possiede una teoria dell’entità.
Dal punto di vista degli insegnanti, disporre di una teoria implicita dell’intelligenza come entità o al contrario di una teoria incrementale, può determinare effetti considerevoli sui risultati nei processi di insegnamento-apprendimento. Se l’insegnante ha una teoria implicita innatista, sarà portato a dedicare poco tempo e poche attenzioni a coloro che vengono valutati come “poco intelligenti”: in questo caso, infatti, si è convinti che l’impegno (sia da parte dell’insegnante sia da parte dello studente) non puo’ influire sui risultati. Si sarà, quindi, portati ad investire le proprie energie con gli studenti più promettenti.
Un meccanismo di questo tipo è stato studiato alla fine degli anni ’60 dagli psicologi Rosenthal e Jacobson, che definirono questo fenomeno come effetto Pigmalione. Pigmalione era il mitico re di Cipro che, secondo la leggenda, scolpì una statua di donna e poi se ne innamorò, al punto da desiderare che essa si animasse. Afrodite lo accontentò e la statua prese vita… Per Rosenthal e Jacobson succede qualcosa di simile nel rendimento scolastico dei ragazzi, che, secondo le loro ricerche, è fortemente influenzato dalle aspettative degli insegnanti. Per verificare la loro ipotesi Rosenthal e Jacobson condussero delle ricerche in una scuola di un quartiere malandato di San Francisco.
All’inizio dell’esperimento, nel 1964, dicemmo agli insegnanti che avevamo bisogno di convalidare un nuovo tipo di test costruito per predire il rendimento scolastico o i progressi intellettuali dei bambini…Nel maggio del 1964 gli insegnanti somministrarono il test a tutti i bambini della scuola materna e dal primo al quinto anno della scuola elementare…Prima che la Oak School riaprisse, nel mese di settembre, circa il 20% dei bambini erano stati da noi scelti e definiti <
A tutti i bambini fu somministrato di nuovo lo stesso test quattro mesi dopo l’inizio della scuola, al termine dell’anno scolastico e nel mese di maggio dell’anno seguente….I risultati indicarono che i bambini dai quali gli insegnanti si aspettavano maggiori progressi nello sviluppo intellettuale fecero realmente questi progressi.
La spiegazione di questo fenomeno sta, secondo gli autori, nel fatto che gli insegnanti avrebbero interagito con i bambini “dotati” in modo diverso, comunicandogli anche in modo non verbale (tono di voce, espressioni facciali, posizioni del corpo) le loro aspettative, seguendoli con più attenzione e fornendo incoraggiamenti. I bambini, dal canto loro, reagendo di conseguenza, hanno modificato il proprio impegno, ma anche l’immagine di sé e il livello dei propri obiettivi.
Gli insegnanti coinvolti nell’esperimento, quindi, a livello perlopiù inconscio, hanno offerto maggiore attenzione e un certo numero di feed back non verbali agli studenti che, sulla base dei test di intelligenza, avevano più probabilità di successo. È il meccanismo noto come profezia che si autoadempie: ciò che si crede avverrà, avviene davvero. Ma le aspettative sono, nel caso degli insegnanti, in relazione alla teoria implicita dell’intelligenza: per l’insegnante che dispone di una teoria innatista, ogni sforzo con un ragazzo “deficiente” sarà inutile; così per evitare la frustrazione di un fallimento, sarà portato a dedicare più attenzione a colui che reputa “intelligente”. L’insegnante che dispone di una teoria incrementale, al contrario, avrà un diverso atteggiamento con chi parte da situazioni scolastiche più difficili, perché attribuisce valore all’impegno e alle esperienze di apprendimento.
sabato 18 gennaio 2014
Dell'amore in vecchiaia
Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva
La vita di Georges e Anne, una coppia felice di ottantenni, scorre nella normalità, quando si verifica all'improvviso un evento che segna una frattura brusca: Anne viene colpita da ictus. Inizia il suo calvario su una sedia a rotelle, prima con un braccio atrofizzato, poi metà corpo paralizzato, e via via, sempre peggio. Georges le sta accanto, si prende amorevolmente cura di lei. La vede soffrire e cerca di sollevarla dall'inferno in cui sta precipitando. Il legame d’amore della coppia, da questo momento è messo duramente alla prova, perché Georges rifiuta tutti gli aiuti esterni (manda via brutalmente una badante perché giudicata totalmente indatta per il suo lavoro). Non accetta che sua moglie venga pettinata, accudita come una bambola senz'anima.
L'interpretazione magistrale dei due protagonisti (Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva)e l'uso sapiente della macchina da presa, ci vanno vivere in diretta tutta la complessità e la profondita dei sentimenti della coppia. Il corpo sofferente di Anne e la preoccupazione disegnata sul volto di Georges coinvolgono lo spettatore, senza mediazioni, fisicamente. Ma, dal piano della sofferenza fisica, si passa senza soluzione di continuità alla sofferenza psicologica e spirituale.
Georges vede deperire Anne sotto i propri occhi, in un crescendo senza speranza...Lui cerca di lottare, ma tutte le sue cure si infrangono contro la volontà di morire di Anne. In quella che rappresenta la scena più intensa, lui cerca di farla bere e lei si rifiuta ostinatamente, anche davanti alla minaccia del ricovero in ospedale, per essere idratata artificialmente. La paura dell'ospedale (di cui i due parlano all'inizio del film) è l'ultima carta che Georges si può giocare! Georges finisce per arrendersi davanti a tanta determinazione e con un gesto, disperato e amorevole allo stesso tempo, compie la sua volontà.
Amour è un film che interroga nel profondo tutti noi e che non ammette risposte di circostanza.
La vita di Georges e Anne, una coppia felice di ottantenni, scorre nella normalità, quando si verifica all'improvviso un evento che segna una frattura brusca: Anne viene colpita da ictus. Inizia il suo calvario su una sedia a rotelle, prima con un braccio atrofizzato, poi metà corpo paralizzato, e via via, sempre peggio. Georges le sta accanto, si prende amorevolmente cura di lei. La vede soffrire e cerca di sollevarla dall'inferno in cui sta precipitando. Il legame d’amore della coppia, da questo momento è messo duramente alla prova, perché Georges rifiuta tutti gli aiuti esterni (manda via brutalmente una badante perché giudicata totalmente indatta per il suo lavoro). Non accetta che sua moglie venga pettinata, accudita come una bambola senz'anima.
L'interpretazione magistrale dei due protagonisti (Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva)e l'uso sapiente della macchina da presa, ci vanno vivere in diretta tutta la complessità e la profondita dei sentimenti della coppia. Il corpo sofferente di Anne e la preoccupazione disegnata sul volto di Georges coinvolgono lo spettatore, senza mediazioni, fisicamente. Ma, dal piano della sofferenza fisica, si passa senza soluzione di continuità alla sofferenza psicologica e spirituale.
Georges vede deperire Anne sotto i propri occhi, in un crescendo senza speranza...Lui cerca di lottare, ma tutte le sue cure si infrangono contro la volontà di morire di Anne. In quella che rappresenta la scena più intensa, lui cerca di farla bere e lei si rifiuta ostinatamente, anche davanti alla minaccia del ricovero in ospedale, per essere idratata artificialmente. La paura dell'ospedale (di cui i due parlano all'inizio del film) è l'ultima carta che Georges si può giocare! Georges finisce per arrendersi davanti a tanta determinazione e con un gesto, disperato e amorevole allo stesso tempo, compie la sua volontà.
Amour è un film che interroga nel profondo tutti noi e che non ammette risposte di circostanza.
sabato 26 ottobre 2013
STUDENTI CON DSA E LA DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA-PERSONALIZZATA
L’attenzione alle differenze di ciascun studente, all’interno di un gruppo classe, è una via percorribile e, allo stesso tempo, auspicabile? La crescente complessità nella composizione della popolazione studentesca sollecita la riflessione pedagogica su questo tema.
Oggi, infatti, le nostre aule scolastiche sono frequentate da studenti disabili (certificati come tali ai sensi della legge 104), studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (segnalati come tali ai sensi della legge 170), studenti con Bisogni Educativi Speciali (che possono fruire delle stesse facilitazioni degli studenti con DSA), studenti demotivati o ripetenti…
Partiamo dalla legge 170/10 (art.2) che prevede, per favorire il successo scolastico degli studenti con DSA, adeguate misure educative e didattiche di supporto e l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata. Cosa si intende per didattica individualizzata e personalizzata? Per provare a dare una risposta, partiamo dal significato di “individualizzato” e di “personalizzato” proposto dalle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento del 2011:
“Individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo, anziché sull’intera classe o sul piccolo
gruppo, che diviene “personalizzato” quando è rivolto ad un particolare discente.
Più in generale - contestualizzandola nella situazione didattica dell’insegnamento in classe -
l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe,
ma è concepita adattando le metodologie in funzione delle caratteristiche individuali dei discenti,
con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento delle competenze fondamentali del curricolo,
comportando quindi attenzione alle differenze individuali in rapporto ad una pluralità di dimensioni.
L’azione formativa personalizzata ha, in più, l’obiettivo di dare a ciascun alunno l’opportunità
di sviluppare al meglio le proprie potenzialità e, quindi, può porsi obiettivi diversi per ciascun
discente, essendo strettamente legata a quella specifica ed unica persona dello studente a cui ci
rivolgiamo.
(Linee Guida, pag. 6)
Da questo primo passaggio, possiamo desumere che l’ individualizzazione è l’ azione formativa orientata al conseguimento di obiettivi comuni mediante metodologie didattiche adattate “a misura” delle caratteristiche individuali degli studenti; mentre la personalizzazione è l’azione formativa che intende promuovere lo sviluppo delle potenzialità proprie dei singoli studenti, e per questo motivo persegue obiettivi diversi per ciascun studente. In altri termini, si può dire che l’individualizzazione intende garantire l’uguaglianza delle opportunità formative e la parità di esiti rispetto alle competenze fondamentali, mentre la personalizzazione risponde alla necessità di valorizzare i talenti individuali (esigenza tipica nella modernità delle società liberali anglosassoni).
Vediamo ora la definizione di didattica individualizzata e personalizzata proposta dalle Linee Guida.
La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere
l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire specifiche competenze, anche nell’ambito
delle strategie compensative e del metodo di studio; tali attività individualizzate possono essere
realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse dedicati, secondo tutte le
forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla normativa vigente.
La didattica personalizzata, invece, anche sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e
nel Decreto legislativo 59/2004, calibra l’offerta didattica, e le modalità relazionali, sulla specificità
ed unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe,
considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo; si può favorire, così,
l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo sviluppo consapevole delle sue ‘preferenze’
e del suo talento. Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica
personalizzata si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche,
tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori
didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la calibrazione
degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un apprendimento
significativo.
La sinergia fra didattica individualizzata e personalizzata determina dunque, per l’alunno e lo
studente con DSA, le condizioni più favorevoli per il raggiungimento degli obiettivi di
apprendimento.
(Linee guida, pp. 6-7)
Vediamo di tradurre in altri termini queste indicazioni. La didattica individualizzata, focalizzata sul raggiungimento di alcuni obiettivi di apprendimento comuni alla classe, si pone il problema di come farli raggiungere allo studente DSA. Se, quindi, l’obiettivo comune per tutti gli studenti della classe è “leggere e comprendere un testo narrativo”, la didattica individualizzata in favore di uno studente DSA è quel processo che promuove l’adozione di una strategia di studio efficace per la comprensione del testo oppure l’utilizzo competente di un software di sintesi vocale per la lettura del testo. La didattica personalizzata, invece, è quella didattica che punta ad accrescere i punti di forza dello studente DSA. Dal momento che lo stile di apprendimento preferito dagli studenti DSA è quello visivo-non verbale, didattica personalizzata è quella che favorisce il Visual Learning (apprendimento basato sulla memoria visiva), ad esempio con l’uso di mappe concettuali multimediali o l’insegnamento di mnemotecniche per immagini.
Siamo entrati, in modo non casuale, nel tema del metodo di studio, che, come afferma C. Cornoldi in un suo articolo sulla rivista Dislessia, rappresenta per gli studenti DSA il primo e più importante strumento compensativo.
Quando viene accertata una condizione di dislessia, c’è sostanziale accordo tra
utenti (pazienti e loro genitori) e clinici sul fatto che da subito debbano essere utilizzati
strumenti compensativi e dispensativi per favorire l’apprendimento scolastico nonostante
l’inefficienza della lettura strumentale…
Lo scopo di questo articolo è quello di dimostrare perché un metodo di studio, che
tenga conto della scarsa efficienza di lettura, debba essere considerato un fondamentale
strumento compensativo eventualmente da affiancare a tutti gli altri, tecnologici e didattici,
indicati nei documenti citati…
Perché uno studente con dislessia ha bisogno di un efficiente metodo di studio?
Sostanzialmente perché rispetto ai suoi coetanei normolettori non può permettersi di
adottare il metodo di studio più diffuso che consiste nel leggere più volte il materiale da
studiare, da cui poter eventualmente ricavare riassunti o schemi scritti più o meno ricchi
di contenuti, da rileggere prima delle verifiche. La sua difficoltà di lettura gli rallenterebbe
non solo i tempi, ma lo affaticherebbe e gli renderebbe precari i processi di comprensione
ed elaborazione del testo.
Ora, a pensarci bene, il lavoro metacognitivo sul metodo di studio è un lavoro di carattere transdisciplinare che potrebbe essere utilmente rivolto a tutta la classe. Gli insegnanti, infatti, normalmente si lamentano delle lacune o insufficienze del metodo di studio dei propri studenti, senza però progettare un percorso finalizzato al miglioramento del loro metodo di studio.
La riflessione e il lavoro sui bisogni educativi speciali,così, acquista senso quando permette di identificare nuclei di conoscenze-competenze importanti per ciascuno degli studenti e di costruire percorsi didattici mirati. Rimanendo all’esempio del metodo di studio, la conoscenza-apprendimento di strategie efficaci nelle diverse fasi dello studio (dalla fase della prelettura a quella della memorizzazione) rappresenta una competenza di vitale importanza per lo studente DSA ma estremamente importante anche per i “normodotati”. È il famoso “imparare ad imparare” di cui in pedagogia si parla da diverso tempo.
sabato 7 settembre 2013
LA CHIUSURA DEPRESSIVA E IL COME SE DI PASCAL
« Quando come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo eterno tedio,
e stringendo in un unico cerchio l'orizzonte
fa del dì una tristezza più nera della notte,
quando la terra si muta in umida cella segreta
dove sbatte la Speranza, timido pipistrello,
con le ali contro i muri e con la testa nel soffitto marcito;
quando le immense linee della pioggia
sembrano inferriate di una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,
furiose ad un tratto esplodono campane
e un urlo lacerante lanciano verso il cielo
che fa pensare al gemere ostinato
d'anime senza pace né dimora.
-Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero. »
(Buaudelaire Spleen )
La lettura di questi versi di Baudelaire toglie l’aria, alimenta un forte senso di claustrofobia… Il poeta con poche, violente, pennellate dipinge alcuni vissuti tipici della depressione: “il cielo pesa greve” rappresenta il senso di pesantezza che spinge al ripiegamento (“schiaccia l’anima”); “quando la terra si muta in umida cella segreta dove sbatte la speranza” esprime il sentirsi chiusi in trappola nella dimensione di un presente che non può dispiegarsi verso il futuro.
I vissuti di oppressione ( come se la forza di gravità esercitasse una terribile pressione dall’alto) riguardano in primo luogo il corpo: il depresso assume la classica postura del sacco sgonfio, le spalle scivolano in avanti, l’addome cede, la colonna vertebrale si chiude…Tutto questo si accompagna ad una perdita di energia!
A livello psicologico emerge, in primo piano, una chiusura della prospettiva temporale: la vita non riesce a proiettarsi nel futuro, si ripiega su se stessa e guarda al passato. Questo significa l’impossibilità di fare nuovi investimenti e la perdita della speranza.
La “cella” in cui vive il depresso suggerisce, inoltre, una radicale chiusura rispetto alle relazioni sociali. Il rapporto con il mondo è percepito come pericoloso e si ha bisogno di mettere distanza, chiudersi. La cella da una parte soffoca e dall’altra protegge!
I vissuti depressivi, quindi, si caratterizzano come “oppressione, ripiegamento e chiusura”.
Non sappiamo esattamente quale possa essere l’origine della depressione: una carenza a livello dei neurotrasmettitori (serotonina, dopamina…), il fallimento nell’elaborazione del lutto o il ritiro sociale… Sappiamo, però, che la sfera corporea, la sfera psicologica e quella sociale sono tutte coinvolte e che, nei tre diversi livelli, si manifesta una caratteristica “chiusura” depressiva. È legittimo pensare, a questo punto, che il processo di guarigione possa essere avviato da movimenti di “apertura” a livello corporeo, psicologico e sociale. La difficoltà a procedere in questa direzione consiste nella resistenza che il disturbo depressivo oppone agli sforzi di apertura (scarsa energia e postura del sacco sgonfio, ripiegamento nel passato ed evitamento delle relazioni sociali).
Analogamente al “come se” di Pascal, si parte da una condizione in cui la qualità cercata è assente e nell’agire, appunto, “come se” la qualità cercata esistesse, se ne determina l’esistenza:
« [...] Seguite il sistema con cui essi [i Santi] hanno cominciato: facendo tutto come se credessero, usando l'acqua benedetta, facendo celebrare messe, ecc.. Naturalmente anche questo vi farà credere e vi farà diventare come un bambino. [...] »(Blaise Pascal, Pensieri, 233)
Nel nostro caso il “come se” di Pascal può essere applicato in primo luogo a livello del corpo. L’esperienza insegna che l’attività fisica ha un potente effetto antidepressivo: sia il rilassamento profondo (indotto da pratiche come lo yoga) sia le attività che “forzano” l’organismo (come nel caso del fare jogging) stimolano, infatti, la produzione di endorfine, ovvero quelle morfine endogene legate all’euforia e al benessere. Per coloro che praticano yoga, inoltre, sono consigliate tutte quelle asana che contrastano la postura del sacco sgonfio, mediante l’inarcamento all’indietro della schiena (il ponte o il cammello), e il senso di schiacciamento al suolo, mediante le posizioni capovolte (la candela o sirsasana).
L’andare controtendenza è qualcosa che riguarda anche la sfera psicologica e sociale: accendere la speranza progettando il futuro oppure cercando le relazioni sociali, in particolare quelle più intime e affettive, offrendosi “nudi” agli altri… La difficoltà risiede nel fatto che, così facendo, ci si oppone al “naturale” ripiegamento depressivo, si va in direzione contraria rispetto alla via facile della patologia!
venerdì 31 maggio 2013
I nuovi luoghi dell’ esclusione
A metà degli anni 70, frequentavo il Liceo “Pacinotti”, a Cagliari. Dai piani alti dell’edificio, lo sguardo superava il muro di cinta e cadeva all’interno dell’ ospedale che confinava con il mio Liceo: l’ospedale psichiatrico di Villa Clara (più comunemente chiamato “manicomio”). Negli ampi cortili si muovevano, lente, persone magre, con pochi stracci addosso, spesso nude, che si masturbavano in modo compulsivo. Ho saputo più tardi che questi luoghi non erano luoghi di cura, ma luoghi di detenzione o, peggio, di tortura. In quegli anni, inoltre, nelle scuole i disabili e le persone con disturbi mentali non si vedevano, erano “invisibili”, almeno nelle classi frequentate dai "normodotati". In generale, quindi, le persone “diverse” per anomalia genetica, deficit cognitivo o malattia mentale erano tenute distanti, conducevano esistenze parallele.
Alla fine degli anni 70, in Italia si è realizzata probabilmente l’unica rivoluzione culturale che ancora oggi fa sentire i suoi effetti, una rivoluzione che in gran parte dobbiamo al pensiero e all’azione di Franco Basaglia. Nel 1978 il Parlamento approvò una legge (legge 180)che decretava la chiusura di quei luoghi dell’orrore, dove non si curavano le persone, ma le si teneva in prigionia. Anche nella scuola gradualmente, a partire dal 1977, sono cadute le barriere e dal 1992 abbiamo una legge (legge 104) che garantisce l’integrazione delle persone disabili nella scuola pubblica. Tutte quelle persone tenute fino a quel momento distanti o chiuse in luoghi separati, sono entrate nei luoghi di tutti, i luoghi frequentati dalle persone “normali”, guadagnando sempre più i diritti fino ad allora negati (il diritto all’educazione, ad essere curati …). Possiamo immaginare questo percorso verso l’integrazione come un percorso di avvicinamento: da luoghi separati, distanti, ai luoghi di tutti. Così, è successo nella scuola…
Questo processo è ancora in corso! Non basta abbattere vecchi recinti, spesso se ne creano di nuovi, inaspettati, magari a partire da buone intenzioni. Ecco, allora, trovare nella scuola pubblica spazi attrezzati per il sostegno o laboratori di varia natura che, in nome della didattica individualizzata, ricreano separazione. Difficilmente si riesce a creare momenti e spazi di incontro effettivi tra studenti disabili e “normodotati”; così, ognuno conduce perlopiù vite scolastiche parallele, all’interno dello stesso contenitore. E, magari, quando si promuove una iniziativa che favorisce un processo di avvicinamento reale (ad esempio, un laboratorio aperto a tutti gli studenti e non solo ai disabili), gli insegnanti che “rinunciano” alle loro ore di insegnamento della disciplina fanno resistenza: si porta via del tempo utile...
Siamo abituati ad associare al termine disabile una carrozzina e a concepire gli ostacoli sul percorso di un disabile come ostacoli fisici. Ahinoi! Gli ostacoli peggiori per l’integrazione vengono da una cultura che non riesce a fare i conti con la differenza dello studente disabile, con la complessità che questo incontro genera, e preferisce dare una delega totale allo specialista (insegnante specializzato di sostegno), in grado di fare un intervento individualizzato, in qualche luogo ben attrezzato, da qualche altra parte!
Alla fine degli anni 70, in Italia si è realizzata probabilmente l’unica rivoluzione culturale che ancora oggi fa sentire i suoi effetti, una rivoluzione che in gran parte dobbiamo al pensiero e all’azione di Franco Basaglia. Nel 1978 il Parlamento approvò una legge (legge 180)che decretava la chiusura di quei luoghi dell’orrore, dove non si curavano le persone, ma le si teneva in prigionia. Anche nella scuola gradualmente, a partire dal 1977, sono cadute le barriere e dal 1992 abbiamo una legge (legge 104) che garantisce l’integrazione delle persone disabili nella scuola pubblica. Tutte quelle persone tenute fino a quel momento distanti o chiuse in luoghi separati, sono entrate nei luoghi di tutti, i luoghi frequentati dalle persone “normali”, guadagnando sempre più i diritti fino ad allora negati (il diritto all’educazione, ad essere curati …). Possiamo immaginare questo percorso verso l’integrazione come un percorso di avvicinamento: da luoghi separati, distanti, ai luoghi di tutti. Così, è successo nella scuola…
Questo processo è ancora in corso! Non basta abbattere vecchi recinti, spesso se ne creano di nuovi, inaspettati, magari a partire da buone intenzioni. Ecco, allora, trovare nella scuola pubblica spazi attrezzati per il sostegno o laboratori di varia natura che, in nome della didattica individualizzata, ricreano separazione. Difficilmente si riesce a creare momenti e spazi di incontro effettivi tra studenti disabili e “normodotati”; così, ognuno conduce perlopiù vite scolastiche parallele, all’interno dello stesso contenitore. E, magari, quando si promuove una iniziativa che favorisce un processo di avvicinamento reale (ad esempio, un laboratorio aperto a tutti gli studenti e non solo ai disabili), gli insegnanti che “rinunciano” alle loro ore di insegnamento della disciplina fanno resistenza: si porta via del tempo utile...
Siamo abituati ad associare al termine disabile una carrozzina e a concepire gli ostacoli sul percorso di un disabile come ostacoli fisici. Ahinoi! Gli ostacoli peggiori per l’integrazione vengono da una cultura che non riesce a fare i conti con la differenza dello studente disabile, con la complessità che questo incontro genera, e preferisce dare una delega totale allo specialista (insegnante specializzato di sostegno), in grado di fare un intervento individualizzato, in qualche luogo ben attrezzato, da qualche altra parte!
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