Nel Breve trattato sulla decrescita serena S.Latouche (ed. Bollati Boringhieri 2008) riprende la bella metafora della lumaca di Ivan Illich per indicare un percorso alternativo a quello, molto simile ad un vicolo cieco, in cui il mito della crescita illimitata ci ha infilato.
In questa situazione, sarebbe urgente riscoprire la saggezza della lumaca. Infatti la lumaca non solo ci insegna la necessaria lentezza, ma ci impartisce una lezione ancora più indispensabile. La lumaca – ci spiega Ivan Illich – costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più grande. Invece di contribuire al benessere dell’animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A quel punto qualsiasi aumento della sua produttività servirebbe unicamente a rimediare alle difficoltà create da una dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità. Superato il punto limite dell’ingrandimento delle spire, i problemi della crescita eccessiva si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica.Questo divorzio della lumaca dalla ragione geometrica, che per un periodo aveva anche lei sposato, ci mostra la via per pensare una società della decrescita, possibilmente serena e conviviale.
(S.Latouche 2008, pag.33)
Per Latouche l’economia della crescita illimitata ragiona in termini di progressione geometrica, sorreggendosi su tre pilastri: la pubblicità, il credito e l’obsolescenza accelerata dei prodotti. La pubblicità è lo strumento necessario per stimolare incessantemente il desiderio verso nuovi beni di consumo; il credito, invece, offre, da una parte, la possibilità di acquistare beni di consumo a coloro che altrimenti non avrebbero il reddito sufficiente e, dall’altra, permette agli imprenditori di investire anche senza disporre del capitale necessario; l’obsolescenza programmata dei prodotti, infine, è il mezzo per ricreare continuamente il bisogno di nuovi prodotti.
Il problema centrale generato da questa logica economica è che la nostra sovra-crescita si scontra con i limiti della finitezza della biosfera. La capacità rigeneratrice del pianeta terra non riesce più a seguire la domanda: l’uomo trasforma le risorse in rifiuti più rapidamente di quanto la natura sia in grado di trasformare questi rifiuti in nuove risorse. A questo proposito Latouche introduce il concetto di impronta ecologica.
L’impronta ecologica
Fondamentalmente l'impronta ecologica è un indice statistico utilizzato per misurare la richiesta umana nei confronti della natura. Essa mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della terra di rigenerarle. In parole povere, l’Impronta Ecologica misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti corrispondenti. Utilizzando l'impronta ecologica, è possibile stimare quanti pianeta Terra servirebbero per sostenere l'umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita.
Il concetto di impronta ecologica è stato introdotto nel 1996 da Mathis Wackernagel e Wlliam Rees. A partire dal 1999 il WWF aggiorna periodicamente il calcolo dell'impronta ecologica nel suo Living Planet Report. Da alcuni studi effettuati su scala mondiale e su alcuni paesi emerge che l'impronta mondiale è maggiore della capacità bioproduttiva mondiale. Secondo Mathis Wackernagel, nel 1961 l'umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera, ma nel 1999 era arrivata al 120%. Ciò significa che stiamo consumando più risorse rinnovabili di quanto potremmo, cioè stiamo intaccando il capitale naturale e nel futuro potremo disporre di meno materie prime per i nostri consumi. Nella tabella seguente sono riportati i dati relativi al alcuni paesi (per ogni paese è indicata l'impronta pro capite). Il dato va raffrontato con la biocapacità media mondiale che è di 1,78 ettari pro capite (questi dati sono tratti dall'edizione 2006 del Living Planet Report del WWF).
I.E. I.E. rispetto alla terra
Austria 4.9 -3.12
U.S.A 9.6 -7.82
Australia 6.6 -4.82
Svezia 6.1 -4.32
Canada 7.6 -5.82
Francia 5.6 -3.82
Italia 4.2 -2.42
Spagna 5.4 -3.62
Argentina 2.3 -0.52
Cina 1.6
0.18
Egitto 4.2 -2.42
Etiopia 0.8
0.98
India 0.8
0.98
Mondo1.78
Latouche così commenta i dati relativi all’impronta ecologica:
Dunque gli uomini hanno abbandonato da tempo il sentiero di una civiltà sostenibile, che richiederebbe di limitarsi a 1,8 ettari a persona, ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile. Inoltre, questa impronta media nasconde disparità enormi… Anche se esistono differenze considerevoli di spazio bioproduttivo disponibile nei diversi paesi, siamo lontanissimi da una uguaglianza planetaria….In altre parole, l’umanità già consuma il 30% in più della capacità di rigenerazione della biosfera. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti e sei se tutti vivessero come i nostri amici americani. Come è possibile una situazione del genere? Lo è grazie a due fenomeni. In primo luogo, come il figliol prodigo noi non ci accontentiamo di vivere del nostro reddito ma viviamo sfruttando il patrimonio di famiglia. Bruciamo in pochi decenni quello che il pianeta ha fabbricato in milioni di anni…In secondo luogo, nel Nord noi riceviamo un’assistenza tecnica massiccia dal Sud. La maggior parte dei paesi dell’Africa consuma meno di 0,2 ettari procapite di spazio bioproduttivo, il che corrisponde ad un decimo del pianeta, e al tempo stesso ci forniscono gli alimenti per il nostro bestiame… (Ibidem, pp.35-36)
In concreto questi dati ci dicono che il sovra-consumo dei paesi privilegiati si realizza a scapito delle future generazioni e a scapito dei paesi poveri. Siamo quindi in cammino verso una strada che è paragonabile alla crescita del guscio della lumaca di una ulteriore fatidica spira che le renderà insopportabile il peso del guscio.
Il mito della crescita e le sue origini
Erich Fromm in Avere o essere ( Mondadori 1977) delinea già con lungimiranza e chiarezza il quadro generale della crisi dei valori legati al mito della crescita illimitata. Questo mito in realtà è figlio di quella che Fromm chiama la grande promessa di progresso illimitato:
La Grande Promessa di Progresso illimitato – vale a dire la promessa del dominio sulla natura, di abbondanza materiale, della massima felicità per il massimo numero di persone e di illimitata libertà personale - ha sorretto le speranze e la fede delle generazioni che si sono succedute a partire dall’inizio dell’era industriale…L’imponenza della Grande Promessa, le stupende realizzazioni materiali e intellettuali dell’era industriale, devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento. È infatti innegabile che l’era industriale non sia riuscita ad esaudire la Grande Promessa, e un numero sempre crescente di persone stanno oggi assumendo coscienza di quanto segue:
• la soddisfazione illimitata di tutti i desideri non comporta il vivere bene, né è la strada per raggiungere la felicità o anche soltanto il massimo piacere.
• il sogno di essere padroni assoluti delle nostre esistenze ha avuto fine quando abbiamo cominciato ad aprire gli occhi e a renderci conto che siamo tutti divenuti ingranaggi della macchina burocratica, e che i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri gusti sono manipolati dai governi, dall’industria e dai mezzi di comunicazione di massa controllati dagli uni e dall’altra.
• il progresso economico è rimasto limitato ai paesi ricchi, e lo iato tra nazioni ricche e nazioni povere si è più che mai ampliato.
• lo stesso progresso tecnico ha avuto come conseguenza il manifestarsi di pericoli ecologici e di rischi di conflitti nucleari, e sia gli uni che gli altri, agendo isolatamente o insieme, possono metter fine all’intera civiltà e forse anche alla vita tutta quanta.
(Fromm 1977, pp.13-15)
La crisi dell’idea di progresso illimitato, tipica della modernità, dove il futuro è promessa, ha lasciato il posto alla percezione del futuro come minaccia, una percezione diffusa che ha una ricaduta anche sul piano dei vissuti personali.
Nel saggio L’epoca delle passioni tristi Benasayag e Schmit (Feltrinelli 2005), filosofo e psicoanalista il primo, psicoanalista e psichiatra il secondo, rifacendosi alla lezione di Freud contenuta in Il disagio della civiltà, ipotizzano che le patologie degli individui non possano essere comprese se non all’interno della crisi generale della società e della cultura. È il tema della fine della modernità.
Si può affermare, citando Foucault, che l’epoca dell’uomo è tramontata. Potremmo anche parlare della fine della modernità o della rottura dello storicismo teleologico, del venir meno cioè di quella credenza che stava a fondamento delle nostre società e che si manifestava nella speranza di un futuro migliore e inalterabile: una sorta di messianismo scientifico che assicurava un domani luminoso e felice come una terra promessa…Qui ci interessa affrontare il problema in modo molto concreto, cercare di capire come qualcosa di apparentemente esterno alla nostra esistenza possa avere un forte impatto sulla nostra quotidianità…proviamo a focalizzare l’attenzione su un tema che ci sembra centrale e che consente immediatamente di comprendere questa crisi dell’interiorità originata dall’esterno: il modo in cui l’uomo d’oggi vive e percepisce il tempo, il suo tempo. Tale percezione è profondamente segnata da quello che potremmo definire cambiamento di segno del futuro…Assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro…Credevamo con forza che saremmo riusciti a “spiegare le leggi di natura”, e quindi a modificare quel che ci sembrava difettoso. Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologia non ancora conosciuto…In questa sfumatura del “non ancora” risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura…La cultura occidentale si è costituita a partire da questo “non ancora” carico di promesse messianiche... L’Occidente ha fondato i suoi sogni di avvenire sulla convinzione che la storia dell’umanità sia inevitabilmente una storia di progresso…Oggi c’è un clima diffuso di pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso, per non dire oscuro…Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività. Il futuro, l’idea stessa di futuro, reca ormai il segno opposto, la positività pura si trasforma in negatività, la promessa diventa minaccia. (Benasayag, Schmit 2005, pp.17-20)
Queste considerazioni possono essere meglio comprese se si fa riferimento alle due concezioni del tempo che il pensiero filosofico ci ha consegnato: la concezione lineare e quella circolare. L’idea di un tempo lineare che si può rappresentare come una retta proiettata verso l’infinito, si caratterizza per una visione in cui il passato è negatività, il presente è il momento del suo superamento e il futuro è terra promessa. Leggiamo in proposito cosa dice Umberto Galimberti nella sua rubrica sul supplemento di Repubblica (21/02/2009):
La visione cristiana del mondo prevede che il passato sia male (peccato originale), il presente redenzione e il futuro salvezza. Allo stesso modo la scienza concepisce il passato come male (ignoranza), il presente come ricerca e il futuro come progresso. Ma anche il marxismo ritiene che il passato sia male (ingiustizia), il presente riscatto (rivoluzione), il futuro paradiso in terra. Anche la psicoanalisi pensa il passato come malattia, il presente come cura e il futuro come guarigione. La visione del mondo cristiana ha pervaso col suo ottimismo tutte le espressioni culturali dell’Occidente, che dunque è cristiano non solo nelle sue radici, ma anche nell’albero, nei rami e nelle foglie. Ma, come ci ha avvertito Nietzsche, oggi “Dio è morto”, nel senso che un tempo c’era e creava mondi…e ora non c’è più perché il mondo accade come se Dio non fosse…Con la morte di Dio è finito in Occidente l’ottimismo cristiano…L’ottimismo che il cristianesimo aveva profuso nella cultura dell'Occidente si è estinto, e al suo posto è subentrato il nichilismo…Infatti nell’orizzonte dispiegato dalla tecnica, che tende solo al suo autopotenziamento, possiamo parlare di “sviluppo” che è una dimensione quantitativa, ma non di “progresso” che fa riferimento al miglioramento qualitativo della condizione umana. Il risultato è che noi oggi non viviamo più l’ottimismo cristiano e…ci concentriamo su un presente che non guarda il futuro, perché lo intravvede non più come una promessa, ma come una minaccia, da cui distoglie lo sguardo, come sempre accade di fronte a ciò che non si riesce a controllare e soprattutto che non riesce più ad accogliere la nostra speranza di riscatto, di salvezza, di progresso, di salute.
Non a caso Galimberti cita Nietzsche. È a lui che dobbiamo la ripresa della concezione circolare o ciclica del tempo, che echeggia una visione del tempo propria non solo del pensiero greco, ma anche di quello orientale (induismo e buddismo). La nascita di Nietzsche filosofo è segnata proprio dall’intuizione della circolarità del tempo, intuizione avuta nel 1881 durante una passeggiata in Alta Engadina, In Così parlo Zarathustra si legge: “Tutto va avanti, tutto ritorna indietro: eternamente ruota la ruota dell’essere”. Nietzsche, così, lascia alle proprie spalle non solo la visione rettilinea del tempo inaugurata dal pensiero ebraico-cristiano, ma anche la categoria di teleologia secondo la quale il mondo ha uno scopo, che dà senso e verso cui tendere. Non c’è un fine che trascende l’uomo. Il fine e il senso vanno trovati nell’uomo e nel presente.
La decrescita serena
La decrescita, all’interno del paradigma della crescita, è vista solo come una iattura da scongiurare. Nel saggio I miti del nostro tempo (Feltrinelli, 2009) Galimberti osserva:
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto.. La categoria della crescita è così diventata una forma mentis, uno stato d’animo, un rimedio all’angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una finanziaria dura, se per i giochi spericolati della finanza internazionale questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un’ansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei s’infila un vuoto d’aria e, tutti composti, ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi del nostro ventre, che però avvertiamo solo noi.
E così ciascuno per sé sente il brivido della “crescita zero” o addirittura della “decrescita”…
Il tema della decrescita serena, così, può essere considerato solo se cambiamo paradigma e inquadriamo questo concetto all’interno di una diversa cornice di pensiero. Così, Latouche, nel saggio già citato, spiega il concetto di decrescita serena:
La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità dell’abbandono dell’obbiettivo della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale, con conseguenze disastrose per l’ambiente e dunque per l’umanità…Per noi la decrescita non è la crescita negativa, ossimoro che rispecchia alla perfezione il dominio dell’immaginario della crescita. Sappiamo che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nello sgomento, aumenta i tassi di disoccupazione e precipita l’abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Possiamo immaginare quale catastrofe provocherebbe un tasso di crescita negativo! Come non c’è niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c’è niente di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende latitante. Questo regresso sociale e civile è esattamente quel che ci aspetta se non cambiamo la nostra direzione di marcia. Per tutte queste ragioni, la decrescita è concepibile soltanto all’interno di una <
(Latouche 2008, pp.17-19)
Siamo davanti all’alternativa che l’economista Kenneth Boulding definiva la scelta tra l’economia del cow boy, fondata sulla rapina e il saccheggio delle risorse naturali, e l’economia del cosmonauta per il quale la terra è una nave spaziale unica, sprovvista di risorse illimitate, nel senso dell’impossibilità di attingere risorse all’infinito e dell’impossibilità di sostenere una crescente mole di rifiuti inquinanti. Boulding concludeva dicendo che chi crede sia possibile una crescita infinita in un mondo finito o è un pazzo o un economista.
Le otto R della decrescita
Ma quali sono le proposte della decrescita? Latouche le riassume in modo efficace da punto di vista comunicativo con le otto R:
…la grande trasformazione necessaria per la costruzione di una società autonoma di decrescita può essere rappresentata come l’articolazione di otto cambiamenti interdipendenti che si rafforzano reciprocamente. Si può sintetizzare l’insieme di questi cambiamenti in un circolo virtuoso di otto R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti possono innescare un processo di decrescita serena, conviviale e sostenibile.
Vediamo quindi ora di approfondire il significato di queste otto R per ricostruire il senso del discorso sulla decrescita di Latouche.
Rivalutare
Noi viviamo in società basate su vecchi valori borghesi: onestà, servizio dello stato, trasmissione del sapere, lavoro ben fatto ecc. Eppure, <<è sotto gli occhi di tutti che questi valori sono diventati vuoti simulacri (…), quel che conta è solo quanto denaro avete intascato, poco importa come, e quante volte siete comparsi in televisione>> (cit. di C,Castoriadis Les Carrefours du labyrinthe vol.4 Le Seuil. Paris 1996, p.68). Per dirla in altre parole, con Dominique Belpomme, gli "indumenti intimi del sistema rivelano megalomania individualistica, rifiuto della morale, ricerca della comodità, egoismo." Si possono dunque vedere immediatamente i valori da rivendicare, quelli che dovrebbero avere oggi la meglio sui valori dominanti. L’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l’ethos del gioco sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, l’autonomia sull’eteronomia, il gusto della bella opera sull’efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale ecc.
Rivalutazione quindi come rovesciamento dei valori dominanti, dove l’alternativa di fondo sembra echeggiare quella tra avere o essere di cui ha parlato magistralmente Fromm nel saggio già citato. Mettendo a confronto uno haiku di Basho, poeta giapponese vissuto nel XVII secolo, e una poesia di Tennyson, poeta inglese del XIX secolo, Fromm nota come nello haiku traspaia la gioia del solo guardare attentamente il fiore ( è uno sguardo che porta ad identificarsi con il fiore e a godere della sua vita), mentre nella poesia di Tennyson il fiore non può essere semplicemente contemplato, deve essere strappato così da poterlo tenere in mano (il possesso a costo della vita del fiore). Fromm chiarisce cosa significa per lui essere:
Con "essere"intendo quell’atteggiamento esistenziale in cui non si ha nulla né si aspira ad avere alcunché, ma si è in una condizione di gioia, si usano le proprie facoltà in maniera creativa, si è tutt’uno con il mondo.
(Fromm 1977, pag. 36)
La gioia dell’essere, quindi, deriva semplicemente dal realizzare se stessi – la propria fioritura – e dal sentirsi in relazione con il mondo. L’avere, invece, assume un carattere predatorio: non ci si limita a guardare il fiore, lo si deve strappare per entrarne in possesso.
La seconda R proposta da Latouche è riconcettualizzare:
Il cambiamento dei valori dà luogo a una visione diversa del mondo e dunque a un altro modo di vedere la realtà. Riconcettualizzare, o ridefinire/ridimensionare, è essenziale per esempio per i concetti di ricchezza e di povertà, ma anche per il binomio infernale, fondatore dell’immaginario economico, rarità/abbondanza, che è necessario decostruire con la massima urgenza. Come hanno perfettamente indicato Ivan Illich e Jean-Pierre Dupuy, l’economia trasforma l’abbondanza naturale in rarità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione. Ultima illustrazione del fenomeno: dopo la privatizzazione dell’acqua, l’appropriazione degli organismi viventi, in particolare con gli OGM. In questo modo i contadini vengono espropriati della fecondità naturale delle piante a vantaggio delle imprese agroalimentari.
(Latouche 2008, pp.46-47)
La terza R è ristrutturare, intendendo con questo termine l’adeguamento dell’apparato produttivo e i rapporti sociali al cambiamento dei valori.
La quarta R è ridistribuire: questa ridistribuzione riguarda sia i rapporti tra Nord e Sud sia il rapporto tra diverse generazioni. Come abbiamo detto parlando dell’impronta ecologica, il nostro sovra-consumo attuale lo paghiamo a spese del Sud del mondo e delle generazioni future.
La quinta R è rilocalizzare:
Rilocalizzare significa evidentemente produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione, in imprese locali finanziate dal risparmio collettivo raccolto localmente. Tutte le produzioni realizzabili su scala locale per bisogni locali dovrebbero dunque essere realizzate localmente. Se le idee devono ignorare le frontiere, al contrario i movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile. D’altra parte, in un’ottica di costruzione di una società di decrescita serena, la rilocalizzazione non è soltanto economica. Sono anche la politica, la cultura, il senso della vita che devono ritrovare un ancoraggio territoriale. Questo implica che qualsiasi decisione economica, politica o culturale che può essere presa a livello locale deve essere presa a tale livello.
(Ibidem, pp.49-50)
La sesta R è ridurre, che per Latouche significa diminuire l’impatto sulla biosfera provocato dal sovraconsumo dei paesi privilegiati. La bulimia di una parte del mondo, dove il pieno di consumi nasconde il vuoto dell’essere, ha un prezzo troppo alto per tutti.
La settima-ottava R sono riutilizzare/riciclare: il tema del riutilizzare/riciclare ormai è entrato anche nell’agenda di grandi imprese come la BASF (ha creato un tessuto in fibra di nylon riciclabile indefinitamente) o la Xerox (le fotocopiatrici sono concepite come assemblaggio di componenti che possono essere riciclati al termine della vita della macchina). La volontà politica di andare in questa direzione, invece, è ancora debole.
Latouche, dopo aver esposto in forma sintetica le sue otto R, sottolinea che:
Si può dire che le otto R sono tutte egualmente importanti. Tuttavia tre hanno un ruolo strategico: la rivalutazione, in quanto presiede a qualsiasi cambiamento; la riduzione in quanto sintetizza tutti gli imperativi pratici della decrescita; e la rilocalizzazione, in quanto riguarda la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone. La rilocalizzazione occupa dunque un posto centrale nell’utopia concreta e può essere declinata pressoché immediatamente in programma politico. Si può dire che la decrescita rinnovi la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Infatti, se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, la sua realizzazione può essere avviata solo sul campo.
(Ibidem, pp.56-57)
L’analisi del voto regionale
La parola chiave rilocalizzazione indica credo una direzione di senso ormai avvertita acutamente nel quadro della politica italiana. Il successo di partiti come la Lega Nord, fortemente radicati nel territorio e tendenzialmente federalisti, lo testimonia. Riprendo a questo propositi alcune considerazioni sulle recenti elezioni regionali svolte in un articolo dal titolo LE RAGIONI DELL'ASTENSIONE.
L’astensionismo effettivo insieme alle schede bianche o nulle rappresenta il 40% dell’elettorato, il primo partito italiano. Cosa significa? La disaffezione verso i grandi partiti, l’affermazione di Lega Nord e del Movimento 5 stelle sono fenomeni eterogenei? A mio avviso, la risposta è che questi fenomeni debbano essere compresi all’interno di uno stesso quadro.
Nel voto del sud e in quello per la Lega Nord si può leggere un bisogno di vicinanza e radicamento nel territorio che in sé è una spinta indispensabile per bilanciare i processi legati alla globalizzazione. D’altra parte, l’affermazione dei grillini, oltre a canalizzare la rabbia diffusa verso la “grande politica”, risponde al bisogno di parlare di temi urgenti e concreti (ad esempio la ripubblicizzazione dell’acqua, la raccolta differenziata…).
Siamo in presenza di una crisi sempre più profonda del principio di rappresentanza, vissuta come cambiale in bianco verso politici che una volta raggiunto il loro spazio di potere si dimenticano del cittadino, almeno per il tempo della legislatura. Torneranno poi a bussare alla porta di casa dopo cinque anni alla fine del mandato.
Se davvero la politica vuole ritrovare un senso, deve radicarsi nei territori, ascoltare i bisogni e provare a dare risposte…
Il bisogno di radicamento nel territorio, di vicinanza della politica al cittadino andrebbe agganciato per portarlo verso altri esiti che non siano il ringhioso razzismo della Lega.
Se ci si pone l’obiettivo di costruire l’alternativa si deve coltivare una visione politica alternativa: non è più tempo di tatticismi o di prudente navigazione a vista.
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