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mercoledì 30 novembre 2011
UNA TESTA BEN FATTA O BEN PIENA?
Nel precedente articolo abbiamo discusso di come il senso dello studio sia fondamentalmente correlato ad un certo contesto socio-culturale.
Se non si vuole dare per scontato il senso che la nostra cultura attribuisce allo studio, bisogna ripartire dall’interrogativo “Perché studiare?”. Se rimaniamo nell’ambito delle acquisizioni di carattere cognitivo legate alle attività di studio, le ipotesi in campo sono sostanzialmente due: 1) lo studio fornisce conoscenze utili per la vita; 2) lo studio aiuta a formare un pensiero critico che permette di orientarsi autonomamente nella vita. Questa alternativa può essere ben sintetizzata prendendo a prestito le parole di Montaigne: è meglio una testa ben fatta o una testa ben piena?
Proviamo a dare una risposta, a partire dal saggio La testa ben fatta di E.Morin.
La prima finalità dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.
Cosa significa “una testa ben piena” è chiaro: è una testa nella quale il sapere è accumulato, ammucchiato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso. Una “testa ben fatta” significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di:
• un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi;
• principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso.
Per quanto riguarda l’attitudine generale, Morin afferma che:
…la mente umana è, come diceva Herbert Simon, general problem setting and solving. Contrariamente all’opinione oggi diffusa, lo sviluppo delle attitudini generali della mente permette ancor meglio lo sviluppo di competenze particolari o specializzate. Più potente è l’intelligenza generale, più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali. L’educazione deve favorire l’attitudine generale della mente a porre e risolvere i problemi e correlativamente deve stimolare il pieno impiego dell’intelligenza generale
Questo pieno impiego richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva dell’infanzia e dell’adolescenza, la curiosità, che troppo spesso l’insegnamento spegne e che, al contrario, si tratta di stimolare o di risvegliare, se sopita. Si tratta subito di incoraggiare, di spronare l’attitudine indagatrice, e di orientarla sui problemi fondamentali della nostra stessa condizione e del nostro tempo.
Dal punto di vista dello studente, si può dire quindi che la finalità delle attività didattiche a scuola e dello studio individuale dovrebbe essere lo sviluppo di una intelligenza generale in grado di confrontarsi con la realtà, di coglierne gli aspetti problematici e di trovare soluzioni originali. Una competenza di questo tipo diventa patrimonio dello studente, al di là della scuola. Potrebbe sembrare una affermazione banale, ma se pensiamo alla diffusione della didattica trasmissiva e passivizzante, centrata sulla ripetizione meccanica dei contenuti (che ha come risultato “una testa ben piena”), ci si può rendere conto di come questa direzione di senso sia ben poco praticata.
La nostra cultura non solo privilegia l’accumulo di conoscenze (che tra l’altro diventano rapidamente obsolete!), ma tende a scoraggiare il confronto con la realtà. In altri termini, è rintracciabile nella nostra cultura scolastica una matrice di tipo idealistico che tende a separare il mondo delle teorie da quello delle pratiche.
Per chiarire meglio questa affermazione, faccio riferimento ad una mia esperienza come insegnante di Psicologia in un Istituto Professionale.
All’inizio dell’anno scolastico, ho interrogato gli studenti di una classe seconda circa quello che avrebbero voluto fare al termine del loro corso di studi per Operatori nei servizi socio-sanitari. Le loro risposte erano del tutto coerenti con l’indirizzo di studi scelto: “Mi piacerebbe lavorare con i bambini!” oppure “Mi piacerebbe lavorare con gli anziani!”. “Bene!”- mi sono detto- “Sono davanti ad una classe motivata con cui si può fare un buon lavoro!” . Nel corso dell’anno, però mi sono dovuto ricredere. Gli studenti alle prese con lo studio di argomenti direttamente collegati con i loro interessi professionali (ad esempio, lo sviluppo del linguaggio nel bambino), si mostravano riluttanti, svogliati.
È interessante notare, d’altra parte, che gli stessi studenti, in occasione di analisi di caso o di una discussione a seguito di un film, mostravano interesse e partecipavano attivamente alla lezione. Era come se l’avvicinarsi al mondo di cui potevano fare esperienza li risvegliasse dal torpore!
Il punto, a mio avviso, è che gli studenti operano una netta distinzione: da una parte ci sono i libri e le conoscenze meccaniche da acquisire per superare le verifiche (attività terribilmente noiosa e deprimente), dall’altra c’è il mondo dell’esperienza e dei problemi reali (discuterne è interessante!)
Purtroppo, il nostro sistema d’istruzione ancora troppo spesso incoraggia la formazione di una intelligenza di tipo scolastico, centrata sulla memorizzazione di conoscenze utili solo per le verifiche!
Proviamo ora a chiarire meglio, seguendo il ragionamento di Morin, una seconda caratteristica della “testa ben fatta”.
Una testa ben fatta è una testa atta a organizzare le conoscenze così da evitare la loro sterile accumulazione
Ogni conoscenza è una traduzione e nello stesso tempo una ricostruzione (a partire da segnali, segni, simboli), sotto forma di rappresentazioni, idee, teorie, discorsi. L’organizzazione delle conoscenze (…) comporta operazioni di interconnessione (congiunzione, inclusione, implicazione) e di separazione (differenziazione, opposizione, selezione, esclusione). Il processo è circolare, passa dalla separazione al collegamento, dal collegamento alla separazione, e poi, dall’analisi alla sintesi, dalla sintesi all’analisi. In altri termini, la conoscenza comporta nello stesso tempo separazione e interconnessione, analisi e sintesi.
La nostra civiltà e di conseguenza il nostro insegnamento hanno privilegiato la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi. Interconnessione e sintesi rimangono sottosviluppate. È per questo che sia la separazione che l’accumulo, senza l’interconnessione delle conoscenze, vengono privilegiati a scapito dell’organizzazione che interconnette le conoscenze.
Proprio in quanto il nostro modo di conoscenza disgiunge gli oggetti tra loro, ci è necessario concepire ciò che li interconnette. E in quanto isola gli oggetti dal loro contesto naturale e dall’insieme di cui fanno parte, è necessità cognitiva porre una conoscenza specifica nel suo contesto e situarla in un insieme. (…). Di conseguenza, lo sviluppo dell’attitudine a contestualizzare e globalizzare i saperi diviene un imperativo dell’educazione.
Queste considerazioni offrono importanti spunti per la riflessione e permettono di focalizzare alcune direzioni di senso auspicabili nella prassi pedagogica: la necessità di un approccio ecologico al sapere (ogni informazione o conoscenza dovrebbe essere situata in un ambiente sociale, culturale, economico, politico e naturale); l’importanza dell’organizzazione di percorsi interdisciplinari nella scuola; la necessità per lo studente di costruire un metodo di studio che, oltre a prevedere il lavoro di analisi (es. l’approfondimento del significato di alcuni concetti chiave della disciplina in oggetto) e di sintesi (es. la ricostruzione del significato generale di un testo), sia organizzato in modo da intrecciare le conoscenze a disposizione con le nuove informazioni, giungendo alla formazione di mappe concettuali sempre più articolate.
Volendo riassumere quanto detto, si potrebbe dire che il compito della scuola sia dare forma ad una intelligenza generale in grado di indagare la realtà nella sua complessità (complessità, nella sua etimologia, rimanda a ciò che è composto da più parti collegate tra loro e interdipendenti), individuandone gli aspetti problematici e le possibili soluzioni. “Pensare la complessità” significa impegnarsi nella costruzione di rappresentazioni sempre più articolate della realtà, rappresentazioni indispensabili per muoversi nel mondo. È un allenamento cognitivo che spinge a vedere le cose da diversi punti di vista, evitando la superficialità e il riduzionismo.
Morin, infine, auspica la convergenza delle scienze naturali con le scienze umane È sul solco di questa nuova prospettiva scientifica che, a suo avviso, andrebbe sviluppata “l’intelligenza generale, l’attitudine a problematizzare, il collegamento tra le conoscenze.” Sottolinea, inoltre, che “ Al nuovo spirito scientifico si dovrà aggiungere lo spirito rinnovato della cultura umanistica. Non dimentichiamo che la cultura umanistica favorisce l’attitudine ad aprirsi a tutti i grandi problemi, l’attitudine a riflettere, a cogliere le complessità umane, a meditare sul sapere e a integrarlo nella propria vita per meglio chiarire correlativamente la condotta e la conoscenza di sé”.
Alla domanda “Perché studiare?”, allora, si può rispondere dicendo che lo studio dovrebbe essere finalizzato alla formazione di una “testa ben fatta”, capace di comprendere sia il mondo esterno (naturale e sociale) sia quello interno, che riguarda il sé. Una comprensione in grado di orientare l’uomo nella ricerca di un buon adattamento alla realtà, che implica una modificazione di sé e dell’ambiente.
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