domenica 28 marzo 2010

Il diritto del più forte



Il risultato delle elezioni regionali richiede uno sforzo di comprensione di ciò che si agita sotto la superficie dei fenomeni, almeno per come vengono rappresentati da quel mediatore che sono i mass media.
Ingenuamente molti si attendevano che la miriade di processi e scandali che hanno travolto il centrodestra e i suoi leaders, minandone la credibilità da un punto di vista etico, avrebbe condotto ad esiti disastrosi per questa parte politica. Così non è stato. Quali le ragioni?
Chi ha pensato ad un tracollo del centrodestra sostanzialmente riponeva fiducia in un principio di legalità, che può essere sintetizzato con la lapidaria massima presente in ogni tribunale “la legge è uguale per tutti”. Questa fede ha radici antiche e nobili. Nella cultura greca il principio di legalità era così forte che Socrate preferì bere la cicuta e morire piuttosto che salvarsi e invalidare le leggi della città.
La legge della città è ciò che normalmente consente una convivenza civile. Al di fuori della legge, direbbero i contrattualisti come Hobbes, c’è lo stato di natura, la lotta di tutti contro tutti. Il Nomos, la legge, vive in un costante rapporto dialettico con il diritto di natura, la Physis. Talvolta questa dialettica, però, non ha possibilità di sintesi superiore, di superamento: nell’Antigone Creonte emana l’editto, legge della città, con cui s’impedisce la sepoltura di Polinice, negando il diritto “naturale” di Antigone a rendere le debite onoranze funebri al fratello.
La legge della città e il diritto di natura. Sofisti come Crizia interpretarono la Physis come diritto del più forte, rivendicando il potere dell’aristocrazia. Il diritto “naturale” del più forte non conosce leggi, regole: è il più forte che fa e disfa le regole, in relazione ai propri interessi.
Attualizziamo il tema “leggi e diritto del più forte”, leggendo in proposito l’analisi di Franco Berardi sul Manifesto:

La critica al regime berlusconiano non sempre riesce a cogliere il carattere barocco del neoliberismo italiano. Un sistema economico, sociale e culturale che è riuscito a tradurre la deregulation e la legge del più forte a norma dominante.
Negli ultimi mesi la protesta contro il regime berlusconiano ha raggiunto toni quasi patetici. Si parla di crisi del berlusconismo come per esorcizzare la realtà di una perfetta corrispondenza tra la corruzione del ceto politico-imprenditoriale e il cinismo diffuso nella società. Ma la crisi dove sarebbe? L'escalation di arroganza non è segno di una crisi, direi, ma del suo contrario: è segno della stabilizzazione di un sistema che non ha più bisogno di legge perché basta la legge del più forte per regolare le relazioni di precarietà, sfruttamento e schiavismo nel campo del lavoro e della vita quotidiana.
Quanto più evidente è il disprezzo del ceto al potere per la legge e le regole, tanto più la protesta si concentra sulla difesa della legalità. Il problema è che la legge e le regole non valgono niente quando non esiste la forza per renderle operanti. E dove sta la forza, cos'è la forza in un sistema centrato sulla produzione mediatica della coscienza?...
Forse occorrerebbe smetterla di considerare il caso italiano come un'anomalia: al contrario è l'esempio estremo degli effetti prodotti dalla deregulation, fenomeno mondiale che distrugge prima di tutto ogni regola nel rapporto tra lavoro e capitale...
Questo è accaduto, in tutto il mondo non solo in Italia dal momento in cui le politiche neoliberiste hanno occupato la scena. Il principio della scuola neoliberale, la deregulation che ha distrutto i limiti legali e politici all'espansione capitalista non può intendersi come un mutamento puramente politico…
Il mercato del lavoro globale diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta più di semplice sfruttamento, ma di schiavismo, di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo. La violenza è diventata la forza economica prevalente nell'epoca neoliberista…
La violenza è la forza regolatrice dell'economia semiocapitalista, perciò non é contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità…
Le regole che i legalisti rivendicano sono decaduti nella cultura e nel lavoro. Occorre liberare la società dal legalismo, perché la società cominci a non rispettare le regole del semiocapitale, a essere autonoma nella post-legalità che il Semiocapitale ha istituito. Ciò che occorre alla società è la forza per non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto, e per affermare un altro modo di vita, una nuova solidarietà del lavoro. Allora, nel campo senza regole del semiocapitalismo, la società potrà affermare i suoi bisogni e soprattutto le sue potenzialità. Difendere la legge diviene un lavoro risibile, quando il potere dichiara ogni giorno nei fatti che quelle regole non contano più niente. Solo a partire dall'abbandono di ogni illusione legalista sarà possibile creare autonomia sociale, essere all'altezza (o se si preferisce alla bassezza) della sfida che il semiocapitale ha lanciato.

La “legge uguale per tutti” quindi è impotente, non riesce più a regolare la convivenza civile: vige la legge del più forte. Sembra quasi che la metafisica Volontà di potenza di Nietzsche sia il vero motore di questa svolta del mercato, una volontà che vede la politica prona davanti agli interessi di mercato e finanza.
In questo quadro l’attacco costante di Berlusconi alla magistratura, amministratrice delle leggi, trova la sua ragion d’essere. La fortuna di Berlusconi, frutto di corruzione, evasione fiscale e riciclaggio di denaro della mafia, costituisce la prova lampante di un diritto che s’afferma nello spregio di qualsiasi regola, di qualsiasi legge. L’anomalia italiana, se vogliamo, sta nel fatto che questa volontà di potenza della finanza e dell’economia si è esibita sulla scena della politica in prima persona, senza intermediari.
L’ideologia neoliberista con il mito della crescita infinita che l’accompagna, non tollera alcun limite, non tollera il vincolo delle leggi. La crescita è un fine in sé, un fine a misura dei pochi che affamano il resto del mondo.
Come dice Galimberti nel suo I miti del nostro tempo a proposito del mito della crescita:

Oggi di fronte alla tecnica e all’economia globalizzata, la politica…appare come un sovrano spodestato che si aggira tra le mappe dello Stato e della società civile rese inservibili, perché più non rimandano alla legittimazione della sovranità. Rispetto all’età di Platone, infatti l’incremento quantitativo delle tecniche di produzione al servizio di un’economia che ha in vista solo la crescita infinita ha prodotto quel capovolgimento per cui sono l’economia, e il lavoro che la alimenta, a decidere quali spazi concedere alla politica, e se concederli.
Ne consegue che la regia della storia oggi non è più nelle mani della politica, che nella città ideale di Platone è interprete dell’etica e, in vista del bene comune, determina gli scopi a cui deve subordinarsi il lavoro degli uomini, ma è nelle mani dell’economia il cui fare, regolato dalla ragione strumentale che prevede il minimo impiego di mezzi per il massimo conseguimento dei risultati, ha subordinato a sé l’agire, ossia la scelta dei fini a cui da sempre sono deputate l’etica e la politica, a cui spetta decidere quale orientamento dare al “fare”, e quali azioni politiche sono da “fare”.
(U.Galimberti 2009, pp.284-285)

Così le decisioni che contano non sono prese dalla politica e non rispondono ad un’etica. Siamo al ribaltamento dell’imperativo categorico kantiano che pone l’interrogativo razionale se la massima che ispira le proprie azioni possa diventare o meno legge valida universalmente. È l’interesse del più forte, il privilegio di pochi, a diventare legge, appropriandosi dei territori dell’etica e della politica.
Ma a questo punto ci si può domandare, perché questo diritto di pochi ottiene il consenso di molti. Chi evade le tasse, chi pratica la corruzione e il malaffare ha evidenti interessi a sostenere questo diritto, al di fuori della legalità. Ma il cittadino qualunque? Per provare a rispondere mi sembra utile il parallelo con il mondo del mercato e dei consumi. Come si fa convincere i consumatori all’acquisto di beni di cui non si percepisce un effettivo bisogno? Si produce anche il bisogno! Il sistema produttivo, cioè, non produce solo merci, ma anche il loro bisogno e lo fa costruendo le micronarrazioni mitiche della pubblicità, con le loro promesse di felicità.
Come spiega Marx nell’ Ideologia tedesca esiste sempre un rapporto tra classe dominante e idee dominanti:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale.

L’interesse dei pochi e l’ideologia neoliberista che ne è il corollario sul piano delle idee, richiede bisogni perennemente insoddisfatti, bisogni da produrre e ricreare di continuo. Ha bisogno, quindi, di consumatori e la pubblicità fornisce quello strumento di persuasione e seduzione indispensabile per suscitare desideri e conquistare menti. Ma la comunicazione politica è così distante da quella pubblicitaria? Proprio la parabola di Berlusconi dimostra come il successo politico dipenda sempre più dall’uso degli strumenti della comunicazione pubblicitaria e di una informazione manipolata secondo logiche pubblicitarie. Una pubblicità che teme il confronto così come si teme la pubblicità comparativa che confronta diversi prodotti. In questa chiave si può leggere la censura dei talk show come Anno Zero e Ballarò. Ciò che teme di più il potere che rivendica il diritto del più forte è da una parte la legge e dall’altra la libera informazione.

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