domenica 11 luglio 2010

NARCISISMO: TRA SALUTE E PATOLOGIA


Sommario
Nella storia della psicologia i collegamenti tra patologia individuale e patologia sociale sono stati fatti fin dai tempi di Freud . Questo tipo di riflessione è stata sviluppata da Fromm e recentemente da Benasayag e Schmit nel loro bel saggio L’epoca delle passioni tristi. In questo articolo cerchiamo di evidenziare come il narcisismo sia una forza psichica che può variare lungo un continuum e sia da mettere in relazione con le variabili culturali proprie di una certa società.

Il mito di Narciso
Il mito di Narciso si trova nelle Metamorfosi di Ovidio e racconta di un giovane di bellissimo aspetto, figlio del dio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, di cui uomini e donne s’innamoravano perdutamente. Narciso preferiva passare le sue giornate cacciando, senza curarsi delle sue spasimanti, tra cui la ninfa Eco. Rifiutata da Narciso, la ninfa si nascose nei boschi fino a scomparire. Non solo Eco, ma tutte le giovani ed i giovani disprezzati da Narciso, invocarono la vendetta degli dei. Narciso venne così condannato da Nemesi ad innamorarsi della sua immagine riflessa nell’acqua. Sempre più affascinato dall’immagine del suo volto, Narciso giunse a non potersene più staccare, si piegò sull’acqua e si lasciò morire. Dove giaceva il suo corpo spuntò un magnifico fiore, che fu chiamato con il suo nome.

Il narcisismo per Freud

In una prima approssimativa definizione, narcisismo significa quindi amore per la propria immagine. In ambito psicoanalitico, Freud ha utilizzato il concetto di narcisismo operando la seguente distinzione:
1. Narcisismo primario: è concepito come uno stadio in cui il bambino investe tutta la sua libido su se stesso prima di rivolgersi agli oggetti esterni. Rispetto all’autoerotismo, dove ciascuna pulsione cerca il proprio appagamento legato al funzionamento di un organo, nel narcisismo primario l’appagamento è ancora autoerotico, ma con riferimento ad una immagine unificata del proprio corpo o ad un primo abbozzo dell’Io.
2. Narcisismo secondario: si caratterizza da un ripiegamento sull’Io della libido sottratta ai suoi investimenti oggettuali. Questo è possibile innanzitutto perché gli investimenti oggettuali non sopprimono gli investimenti dell’Io, e in secondo luogo perché, scrive Freud “L’Io va considerato come un grande serbatoio di libido da cui viene emanata la libido sugli oggetti, essendo comunque l’Io sempre pronto ad assumere su di sé la libido che da questi rifluisce”
Per comprendere meglio questa distinzione, bisogna ricordare che lo sviluppo psicosessuale per Freud si svolge secondo due linee:
• in relazione alle zone erogene (fase orale, anale, fallica, di latenza e genitale);
• in relazione all’oggetto.
Riguardo alla linea di sviluppo che riguarda il rapporto con l’oggetto, il bambino va incontro ad una prima fase di autoerotismo in cui le pulsioni parziali si soddisfano indipendentemente le une dalle altre, come piacere d’organo.
Si passa poi al narcisismo primario in cui le pulsioni parziali si raccolgono intorno ad un unico oggetto, che in questo caso è l’Io, un Io corpo percepito in modo unitario.
Il passo seguente è quello dell’amore oggettuale ossia dell’amore adulto maturo.
Si parla di narcisismo secondario, in riferimento ad un ritorno del narcisismo nella vita adulta. Il narcisismo secondario caratterizzerebbe sia fenomeni normali (regressione propria dell’innamoramento, dei bambini, di una malattia fisica), sia fenomeni anormali (malattia mentale), intendendo con questo termine il ritiro dell’investimento dal mondo esterno, ed un rifluire di queste cariche sull’Io. La libido, quindi, originariamente investe quella unità che è l’Io, per poi investire gli oggetti, ma può anche essere ritirata da questi e riportata di nuovo sull’Io. Ma, dice Freud in Totem e Taboo “ un essere umano resta in qualche modo narcisista perfino dopo aver trovato gli oggetti esterni per la sua libido”. Lo sviluppo, per Freud, sarebbe una evoluzione dal narcisismo assoluto verso una capacità di ragionamento obiettivo e di amore per l’oggetto, una capacità, comunque, che non va al di là di certi limiti.

Narcisismo individuale e sociale per Fromm


Fromm mette in discussione il concetto di libido, di energia sessuale, sostituendolo con quello più generale di energia psichica, ma lascia invariato lo schema interpretativo generale del narcisismo e la concezione dinamica dell’apparato psichico. Vediamo di ricostruire la sua visione del narcisismo, citando alcune pagine del suo Psicoanalisi dell’amore:

Iniziamo la nostra descrizione del narcisismo con due esempi estremi: il “narcisismo primario” del neonato e il narcisismo del malato. Il bimbo non ha ancora rapporti con il mondo esterno (nella terminologia freudiana la sua libido non ha ancora proiettato all’esterno gli oggetti). In altri termini, il mondo esterno non esiste per il bambino, a tal punto che egli non riesce a distinguere tra l’ “io” e il “non io”. Potremmo anche dire che il bambino non ha interesse ( interesse = “essere in ) al mondo esterno. La sola realtà che esiste per il bimbo è se stesso: il suo corpo, le sue sensazioni fisiche di freddo e di caldo, la sete, il bisogno di dormire e di contatto fisico. Il malato mentale è in una situazione che non si differenzia sostanzialmente da quella del neonato. Ma mentre per il bimbo il mondo esterno non è ancora emerso come reale, per quello esso ha cessato di essere reale. Nelle allucinazioni, infatti, i sensi hanno perduto la loro funzione di registrare gli eventi esterni – essi registrano l’esperienza soggettiva in categorie di risposte sensorie agli oggetti esterni. Nell’illusione paranoica agisce lo stesso meccanismo. Timore e sospetto, infatti, che sono emozioni soggettive, si oggettivizzano in modo tale che la persona paranoica si convince che gli altri cospirano contro di lei. È precisamente questa la differenza con la persona nevrotica: quest’ultima può avere costantemente paura di essere odiata, perseguitata, ecc., ma continua a sapere che è di questo che ha paura. Per la persona paranoica il timore si è trasformato in realtà…. La psicosi è uno stato di assoluto narcisismo, nel quale la persona ha infranto ogni nesso con la realtà esterna e ha sostituito la propria persona alla realtà. Essa è completamente piena di sé, è divenuta “dio e il mondo” per se stessa… (Fromm 1971, pp.66-67)

Fromm parlando del neonato ci ricorda che all’inizio il neonato vive quella fase che M.Mahler ha definito fase autistica: nel primo mese di vita il bambino non riesce a differenziare sé dal mondo esterno e non si accorge dell’esistenza separata di un agente di cure, di qualcuno cioè che lo accudisce. Solo dopo il secondo mese di vita emerge gradualmente una vaga e confusa consapevolezza dell’esistenza di un agente di cure materno. Il soddisfacimento dei bisogni fisiologici (fame), il contatto continuo con il corpo materno, l’osservazione del volto che si muove inducono il bambino a riconoscere, sia pur vagamente, l’esistenza di qualcosa che “non è lui stesso”, dal quale dipendono il suo benessere o il suo disagio. L’oggetto-madre non è tuttavia percepito come un’entità distinta da se stesso, ma è colto all’interno di una fusione simbiotica nella quale non esiste un confine netto, né fisico né psichico, tra bambino e madre (fase simbiotica). Solo dopo il quinto mese, con i primi tentativi di esplorazione fisica dell’ambiente, inizia quella fase di allontanamento fisico e psicologico dalla madre che viene definito processo di separazione-individuazione, che si completa intorno al terzo anno di vita con l’acquisizione della propria identità psichica e fisica: dice insistentemente “mio” e “io” per affermare se stesso, dice “no” per affermare la sua indipendenza, comincia a riconoscersi allo specchio.
Il successo di questo percorso evolutivo dovrebbe, quindi, permettere il sorgere nel bambino della consapevolezza di sé come individuo separato, e allo stesso tempo la consapevolezza dell’esistenza di un mondo fuori di sé. Nella psicosi, per Fromm, c’è un ritorno all’indifferenziazione infantile: il mondo esterno si eclissa dietro l’allucinazione. Il narcisismo assoluto, sia quello del bambino sia quello dello psicotico, si caratterizza, quindi, per la negazione della realtà oggettiva. Come dice Fromm: “Quali che siano le diverse manifestazioni di narcisismo, a tutte le sue forme è comune una mancanza di autentico interesse per il mondo esterno…” (op. cit. pag 71)
Ma se il narcisismo conduce, come insegna il mito, all’autodistruzione, perché rimaniamo, in diverso grado, legati a questa tendenza che sembra a tutti gli effetti disfunzionale per la vita? Fromm ci offre questa risposta.

Il narcisismo è una passione la cui intensità in molti individui può paragonarsi solo al desiderio sessuale e al desiderio di stare al mondo. In realtà molte volte si rivela più forte dell’uno e dell’altro. Persino nell’individuo medio nel quale esso non raggiunge tale intensità, resta un nucleo narcisistico che risulta quasi indistruttibile. Stando così le cose noi potremmo sospettare che, come il sesso e la sopravvivenza, anche la passione narcisistica abbia una importante funzione biologica….Biologicamente, dal punto di vista della sopravvivenza, l’uomo deve attribuire a se stesso un’importanza superiore a quella di chiunque altro. Se non facesse così da dove prenderebbe l’energia e l’interesse a difendersi contro gli altri, a lavorare per la propria sussistenza, a lottare per la propria sopravvivenza, a levare le proprie richieste contro quelle degli altri?...
Comunque, una volta riconosciuto che il narcisismo ricopre una funzione biologica importante, ci troviamo davanti ad un altro problema. L’estremo narcisismo non ha la funzione di rendere l’uomo indifferente agli altri, incapace di mettere al secondo posto i propri bisogni quando questo sia necessario per cooperare con gli altri? Il narcisismo non rende l’uomo asociale e, in realtà, quando raggiunge un grado estremo, pazzo? Non c’è dubbio che l’estremo narcisismo individuale sarebbe un grave ostacolo a tutta la vita sociale. Ma se è vero questo, si deve dire che il narcisismo è in conflitto col principio della sopravvivenza, perché l’individuo può sopravvivere soltanto se si organizza in gruppi; difficilmente qualcuno sarebbe in grado di proteggersi da solo contro i pericoli della natura, né sarebbe capace di fare molti generi di lavoro che possono essere fatti solo in gruppo. Si arriva allora al risultato paradossale che il narcisismo è necessario alla sopravvivenza, e al tempo stesso è una minaccia alla sopravvivenza. La soluzione di tale paradosso segue due direzioni: una è che il narcisismo ottimale serve alla sopravvivenza più di quello massimale, cioè a dire: il grado biologicamente necessario di narcisismo si riduce al grado di narcisismo compatibile con la cooperazione sociale; l’altra sta nel fatto che il narcisismo individuale viene trasformato in narcisismo di gruppo, che il clan, la nazione, la religione, la razza, ecc., divengono gli oggetti della passione narcisistica invece che di quella individuale. Così l’energia narcisistica si mantiene ma viene utilizzata nell’interesse della sopravvivenza del gruppo piuttosto che per la sopravvivenza dell’individuo…
Dal punto di vista di qualsiasi gruppo organizzato che voglia sopravvivere, è importante che il gruppo sia investito da parte dei suoi membri di energia narcisistica. La sopravvivenza di un gruppo dipende, in qualche modo, dal fatto che i suoi membri considerino la sua importanza quanto o di più di quella delle loro stesse vite, e che credano inoltre nella validità, o anzi nella superiorità, del loro gruppo in confronto agli altri.
(op. cit. pp.72-78)

Per Fromm, quindi, il narcisismo è una forza ineliminabile che, in un certo grado, è funzionale alla sopravvivenza, all’affermazione di sé; ma quando è eccessivo rende l’individuo inadatto alla vita sociale e alla cooperazione con altri individui. Per evitare i rischi derivanti dall’eccessivo narcisismo individuale, la società incoraggia lo spostamento dell’ energia narcisistica dal piano individuale a quello sociale. A questo punto sarà il proprio clan, la nazione o il gruppo di fedeli ad essere investito di energia narcisistica. L’appartenenza ad un gruppo, considerato dai suoi membri superiore, si riverbera, infatti, positivamente sull’ autostima degli individui che ne fanno parte. L’identificazione con un gruppo considerato “superiore” permette, infatti, di migliorare l’immagine di sé, tramite un processo che si potrebbe definire sillogistico: “il mio gruppo è superiore (premessa maggiore); io faccio parte del gruppo (premessa minore) = io sono superiore (conclusione)”. Così come a livello individuale il narcisismo eccessivo provoca l’incapacità di ragionare in termini oggettivi, anche a livello sociale una elevata coesione narcisistica genera fenomeni patologici dello stesso segno.

Riguardo alla patologia del narcisismo di gruppo, il sintomo più evidente e frequente, come nel caso del narcisismo individuale, è una mancanza di obiettività e di giudizio razionale… Se le azioni politiche si fondano sulle auto-glorificazioni narcisistiche, la mancanza di obiettività conduce sovente a conseguenze disastrose… Il narcisismo di gruppo ha bisogno di soddisfazioni proprio come quello individuale. Da un certo punto di vista questa soddisfazione è fornita dalla comune ideologia della superiorità del proprio gruppo, e della inferiorità di tutti gli altri… Se il narcisismo di un gruppo viene ferito, troviamo allora la stessa reazione di ira di cui abbiamo parlato riguardo al narcisismo individuale….La violazione della bandiera, gli oltraggi contro il proprio Dio, imperatore, leader, la perdita della guerra e del territorio hanno sovente portato a violenti sentimenti di vendetta collettiva che in seguito sfociarono in nuove guerre. Il narcisismo ferito può essere placato soltanto se l’offensore viene schiacciato e così l’affronto al proprio narcisismo viene cancellato. La rivalsa individuale e nazionale, si basa sul narcisismo ferito e sul bisogno di “curare” la ferita mediante l’annientamento dell’offensore.
(ibidem, pp.85-87)

Esiste quindi una patologia narcisistica individuale e una patologia narcisistica sociale. Quali relazioni esistono tra questi due livelli di narcisismo? Per provare a dare una risposta, è opportuno mettere a confronto diversi modelli culturali.

Modelli culturali e visioni del sé

Una certa dose di amor proprio, stima e rispetto di sé, sono nella nostra cultura occidentale non solo normali, bensì auspicabili.
Che questo assunto, però, non sia universale, lo possiamo capire ricostruendo alcuni passaggi dell’intervento di Jeanne Tsai, psicologa della Stanford University, in uno degli incontri di Mind and Life (gruppo di studio formato dal Dalai Lama e ricercatori di primo piano nell’ambito della psicologia e delle neuroscienze), i cui contenuti sono riportati nel saggio Emozioni distruttive (Dalai Lama, D. Goleman 2003).

“In che modo la cultura influenza le emozioni? Le culture sono simili e diverse per molti aspetti. Gli scienziati sociali hanno identificato una delle differenze tra le culture occidentali e quelle non occidentali: la visione del sé che, a sua volta, influenza le nostre emozioni o il nostro modo di sentire”. Jeanne spiegò che il nucleo profondo del sé sembra dipendere meno dalla cultura, mentre lo strato più esterno ne è fortemente influenzato. Questo strato esterno era l’argomento della sua presentazione odierna.
Sebbene ogni orientamento culturale di una certa ampiezza, quale ad esempio la visione del sé, si muova lungo un continuum, Jeanne sviluppò l’argomentazione sottolineando i casi estremi. “ Un tipo di questo strato esterno è quello che gli psicologi Hazel Markus e Shinobu Kitayama chiamano un sé ‘indipendente’ – tipico di individui che vivono in culture occidentali – che vede il sé come separato dagli altri, inclusi i genitori, la prole, i colleghi e amici. Queste persone considerano il sé come qualcosa che possiede dei valori, delle credenze – degli attributi interni.
In opposizione a questo tipo, esiste un sé ‘interdipendente’, molto più tipico di individui che vivono in culture asiatiche. Queste persone vedono il sé come qualcosa di collegato agli altri, qualcosa che fa effettivamente parte di un contesto sociale. Il sé interdipendente si definisce in termini di relazioni sociali…
“Come facciamo a sapere se queste visioni diverse del sé esistono davvero? Sebbene la letteratura e le arti forniscano degli esempi, a noi psicologi piace fare delle domande del tipo ‘Chi sei?’. Gli americani, dotati di un sé indipendente rispondono: ‘Sono aperto, sono amichevole, sono intelligente, sono una buona persona’, mentre i membri delle culture asiatiche dicono: “Sono figlia o figlio di, lavoro in questa ditta, suono il piano”. Si definiscono più in termini di ruoli sociali che non di attributi interiori”…
“Queste diverse visioni culturali del sé influiscono sugli obiettivi che costellano la vita di un individuo. L’obiettivo della vita di una persona con un sé indipendente consiste nel separare, nel dividere questo sé dagli altri. Sono persone che, in linea di massima, lo fanno esprimendo le proprie credenze interiori, dicendo come stanno e sottolineando la loro importanza, soprattutto in relazione agli altri…Ma questi obiettivi sono diversi da quelli di qualcuno che possiede un sé interdipendente, che consistono nel mettersi in contatto con gli altri e nel mantenere i rapporti. Lo facciamo moderando le nostre credenze interiori e minimizzando l’importanza che crediamo di avere rispetto agli altri…Queste visioni divergenti del sé influenzano aspetti diversi delle emozioni…Anzitutto alterano ciò che costituisce un’emozione desiderabile…gli occidentali danno valore al potenziamento del sé mentre gli asiatici ne danno alla cancellazione del sé…Nella cultura americana pensiamo che sia molto, molto importante avere un alto livello di autostima…Riteniamo che sia un bene avere una autostima elevata, e che una autostima bassa sia un male; se è bassa, ad esempio, è in relazione alla depressione e a sensazioni d’ansia… L’idea è che gli asiatici poiché hanno in media un’autostima più bassa, possono sembrare meno sani dal punto di vista psicologico all’interno della cultura americana dominante. Ma non è così – si tratta semplicemente del fatto che la loro visione normale non implica una valorizzazione del sé pari a quella degli angloamericani”.
(op. cit. pp 334-340)

Può essere interessante notare a questo proposito che la diffusione del Disturbo Narcisistico di Personalità sembra riguardare prevalentemente alcuni contesti culturali. Secondo alcuni osservatori, infatti, questo disturbo è diffuso quasi esclusivamente in paesi capitalistici occidentali.
Come si caratterizza questo disturbo? Vediamo la descrizione che ne fa P.Kernberg e altri in Disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti.


Anche se il senso di grandiosa importanza del sé è centrale nel DP narcisistico, una caratteristica associata è la vulnerabilità dell’autostima. Tale ipersensibilità rende i pazienti con DP narcisistico estremamente sensibili alla critica o all’insuccesso, a cui possono rispondere col disdegno, la rabbia o un contrattacco di sfida. Il loro senso endemico di aver diritto è spesso riflesso in un funzionamento difettoso del Super Io, che si presenta come una mancanza di preoccupazione, colpa, o dispiacere riguardo al trattare male gli altri. Il mancato auto-monitoraggio che ne risulta dà luogo a tratti antisociali; fallimenti personali, sconfitte o un comportamento irresponsabile possono essere giustificati con razionalizzazioni, prevaricazioni o chiare menzogne. Inoltre gli introietti persecutori, distruttivi, primitivi, che contribuiscono alla formazione della coscienza ma che non sono stati ben integrati all’interno del super io, emergono proiettati all’esterno negli altri come angosce paranoiche, o vengono espresse all’interno come sintomi somatici e ipocondriaci. Infine l’invidia, implacabile caratteristica del paziente con DP narcisistico, distrugge sia la capacità di sperimentare soddisfazione per ciò che si è riusciti a fare o gratitudine per quello che gli altri hanno fatto. Il senso cronico di invidia e svalutazione, l’idealizzazione primitiva di sé e degli altri, gli sforzi verso un controllo onnipotente, il ritiro narcisistico o il mantenersi a distanza sono tutte difese che mirano a proteggere il sé grandioso.
(op. cit, pag. 174)

In una cultura che incoraggia una visione di sé “indipendente”, in cui l’individuo è spinto a definire il proprio essere tramite attributi interni (e non in virtù del sistema di relazioni in cui si colloca), e dove questi attributi vanno nella direzione della “forza e capacità performativa” è forse strano che l’individuo tenda a nascondere le proprie fragilità e a coltivare una immagine grandiosa di sé?

La clinica del legame

Benasayag e Schmit nel saggio L’epoca delle passioni tristi (2005) partono dalla valutazione negativa della nostra società, disgregata dal punto di vista delle relazioni (un contesto sociale di per sé patogeno), e arrivano a proporre una clinica del legame.

“Lavorare per l’autonomia delle persone”: questo potrebbe essere il motto dell’attuale ideologia dominante nell’ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale…In una società in cui i legami sono vissuti come costrizioni o come contratti, l’essere autonomi è percepito come una qualità sociale altamente desiderabile…Non è inutile un breve richiamo ad Aristotele. Aristotele infatti, contraddicendo il senso comune, spiega che lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive…Paradossalmente, quindi, la nostra società è riuscita a foggiare un ideale di libertà che assomiglia, come una goccia d’acqua, alla vita dello schiavo così come la definisce Aristotele…
Si direbbe che, nella nostra società, essere autonomi significhi semplicemente essere forti… Noi psicoterapeuti siamo tenuti a porci questo obiettivo: rendere le persone deboli che ci consultano “meno deboli”, anche sapendo che è assolutamente impossibile. Così facendo, infatti, le mettiamo ancor più in difficoltà, perché rimandiamo loro un’immagine svalutante di sé, in quanto non riescono a fare ciò che dovrebbero, ovvero essere autonome e forti.
Il grado di forza e debolezza è il solo criterio adottato per pensare le nostre vite e concepire le nostre esistenze. La forza rappresenta una tale ossessione che la nostra società ha prodotto una concezione della libertà fondata sul dominio: libero è colui che domina….I nostri contemporanei sognano un’autonomia-dominio, aspirano a conquistare un potere sugli altri e sull’ambiente che consenta loro di perseguire i propri scopi e soddisfare le proprie voglie, senza ostacoli e senza l’opposizione di chicchessia. …Alcuni interventi terapeutici si propongono come finalità questa autonomia-potere e cercano di aiutare il paziente a dominare al meglio il suo ambiente, la sua psiche e i suoi sintomi. In questa logica non interessa affatto cercare di comprendere il messaggio o la difficoltà esistenziale che si nascondono dietro il sintomo o in un comportamento, perché quel che conta è diventare un lupo performante, dominare tutto, comprese le proprie pulsioni, non nel senso proposto dagli ideali di saggezza di molte filosofie, ma per canalizzarle ai fini di una vita produttiva e utilitarista…
La nostra società avalla l’idea che tutto sia possibile e che la libertà sia strettamente legata al dominio: dobbiamo fare di tutto per vincere il destino. L’alternativa filosofica a questa tendenza dominante ritiene che la libertà consista nell’assumere il proprio destino…
Noi siamo ciò che è dato, ciò che viene tessuto da una certa epoca e per una certa epoca. Non “possediamo” un destino ma, al tempo stesso, non siamo niente di più, perchè ogni tentativo di sfuggirvi ci condanna al nulla, alla fatalità. In breve, noi siamo questo destino….Il destino è quell’insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano determinando una singolarità, una persona. È costituito dai legami che creiamo e sviluppiamo liberamente…La libertà conciliata con il destino ci installa in una dimensione di fragilità….Entrare nella fragilità significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa. I legami non sono i limiti dell’io, ma ciò che conferisce potenza alla mia libertà e al mio essere. La mia libertà dunque non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono solo atti di liberazione che ci connettono agli altri. È questa la dimensione, o meglio sono queste le dimensioni della fragilità. Una prospettiva filosofica di questo tipo può costituire la base di una psicoterapia ed è in grado, a nostro parere, di far fronte alle sfide della nostra epoca.
(op. cit. pag.101-106)


Riflessioni conclusive

Al termine di questa panoramica riguardante il narcisismo quali conclusioni si possono trarre? Ripensando alla lezione di Freud, secondo cui la patologia individuale (conflitto intrapsichico tra le diverse istanze, in particolare tra Es e Super Io) non può essere compresa se non in relazione ad un contesto sociale (nel suo caso una società che sacrifica la libertà in nome della sicurezza -si rilegga a questo proposito Il disagio della civiltà-), ritengo che il fenomeno del narcisismo a livello individuale non sia comprensibile se non in relazione ad una analisi del nostro contesto socio-culturale. La nostra è una società che, come dice Jeanne Tsai, coltiva una visione del sé indipendente, dell’individuo come monade. Potremmo anche dire che la nostra cultura celebra l’individualismo estremo a scapito delle relazioni, vissute quasi come legami di cui disfarsi appena possibile. Questa società e questa cultura incoraggiano le patologie narcisistiche sia a livello individuale sia a livello di gruppo. L’unica via d’uscita da questa situazione mi sembra essere quella indicata da Fromm. Nel saggio già citato, Fromm, partendo dalla constatazione dell’esistenza in ognuno di noi di un nucleo narcisistico probabilmente ineliminabile, propone un cambiamento di “oggetto”.

Se l’intera famiglia umana, potesse diventare l’oggetto del narcisismo di gruppo invece di assumere come oggetto una nazione, una razza, un sistema politico, sarebbe un grosso vantaggio. Se l’individuo potesse sperimentarsi, in primo luogo, come cittadino del mondo e potesse andare orgoglioso dell’umanità e delle opere compiute da essa, il suo narcisismo si volgerebbe verso il genere umano, piuttosto che verso i suoi membri in conflitto. Se i sistemi educativi di tutti i paesi stimolassero le imprese del genere umano invece delle imprese di una singola nazione, si potrebbe fare qualcosa di più convincente e dinamico in favore dell’orgoglio di essere uomo…
(op. cit. pp.90-91)

In questa prospettiva, che personalmente condivido, lo sforzo culturale, educativo e politico dovrebbe andare nella direzione di riconoscere sempre più l’interdipendenza delle persone e delle nazioni, a scapito di visioni illusorie che prospettano individui-atomi e nazioni gloriose e autosufficienti.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI



BENASAYAG, M., SCHMIT, G.
2005 L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

DALAI LAMA, GOLEMAN, D.
2004 Emozioni distruttive, Mondadori, Milano.

FREUD, S.
1971 Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.

FROMM, E.
1971 Psicoanalisi dell’amore, Newton Compton, Roma.

KERNBERG et al.
2001 I disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti, Fioriti, Roma.

2 commenti:

  1. ottimo articolo, Massimo; chiaro e illuminante; lo condivido, solo con qualche riserva sull'ottimismo umanitarista e universalista di Fromm.
    Ciao
    Stefano

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  2. Ciao Stefano rileggevo in questi giorni I sette saperi per l'educazione futura di Morin e mi ha colpito (tra i tanti punti interessanti) la triade che lui propone alla base degli obiettivi educativi:individuo-società-specie. In relazione all'individuo l'obiettivo è l'autonomia; in relazione alla società l'obiettivo educativo è la partecipazione al gruppo; in relazione alla specie l'obiettivo è lo sviluppo del sentimento di appartenenza alla specie umana. L'idea di Fromm di trasferire l'energia narcisistica dal piano individuale e del proprio gruppo ristretto verso la specie umana (diventare così cittadino del mondo) mi sembra andare nella stessa direzione. Che un percorso di questo tipo sia difficile è evidente...Possiamo però rinunciare ad una direzione di senso in grado di condurci verso un futuro possibile anziché alla catastrofe?

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