lunedì 31 maggio 2010

SUBCULTURE CONTROCULTURE E VIOLENZA






Premessa

Questo articolo prende le mosse dall’intervento di Andrea Rapini, storico e ricercatore presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, presente durante l’incontro di giovedì 20 maggio 2010 del Maggio Filosofico, tenutosi a Rastignano (BO).
Il tema dell’incontro era: “I giovani e la violenza politica nel novecento”. Non intendo in questa sede ricostruire in modo puntuale i contenuti trattati, molto ricchi e, in alcune parti, complessi; cercherò invece di agganciare alcuni stimoli raccolti, per collegarli al tema delle subculture giovanili e delle controculture nel loro rapporto con la violenza.
Rapini, dopo l’excursus storico condotto magistralmente da Luca Alessandrini
incentrato sulla violenza dei giovani dalla fine dell’ottocento fino agli anni ’70 del novecento, ha focalizzato il suo discorso sul ’68 e la nascita dei movimenti studenteschi all’interno delle Università, identificando diverse fasi di sviluppo del movimento. Al principio, come vedremo anche nella ricostruzione del movimento negli USA, l’interesse dei giovani studenti è centrato prevalentemente su questioni interne alla vita universitaria; successivamente uscirà da questi confini per congiungersi, infine, con le lotte operaie.
Anticipo fin d’ora che il collegamento tra movimenti studenteschi degli anni ‘60 e la violenza va ben specificato, per non incorrere in una generalizzazione impropria. Come vedremo nella breve ricostruzione della storia del movimento studentesco negli USA, all’inizio il movimento si caratterizza per una forte impronta non violenta, e solo tra il ’67 e il ’68 si fa strada l’opzione violenta.

Definizione di Subcultura


Iniziamo con una prima precisazione terminologica, citando la voce subcultura dal Dizionario di Sociologia di Gallino:

Sottoinsieme di elementi culturali sia immateriali che materiali –valori, conoscenze, linguaggi, norme di comportamento, stili di vita, strumenti di lavoro- elaborato o utilizzato tipicamente da un dato settore o segmento o strato di una società: una classe, una comunità regionale, una minoranza etnica…Mentre ne condivide alcuni tratti essenziali, tale sottoinsieme di elementi culturali si caratterizza entro il maggior insieme della CULTURA dominante, in certi casi, per esserne una variante differenziata o specializzata, come sono per lo più le S. professionali, oppure un elemento storicamente costitutivo, come le S. regionali o etniche; in altri casi, per il fatto di presentarsi come una forma di deviazione o di opposizione, reale o apparente, nei suoi confronti. È il caso della S. criminale o, per un altro verso, della S. giovanile. Tuttavia, quando una S. incorpora nella quasi totalità elementi che si presentano o sono percepiti come radicalmente opposti alla cultura dominante, si tende a chiamarla piuttosto CONTROCULTURA(corsivo nostro).


In base a questa definizione, quindi, si può operare una prima distinzione tra subcultura e controcultura.
Con il termine subcultura si può intendere un insieme di elementi culturali che non sono propri di tutti i membri di una data società, ma solo di una parte di essi; quando si parla di subculture giovanili si fa riferimento ad una molteplicità di culture adolescenziali, spesso antagoniste tra loro, che manifestano la propria particolarità con specifici gusti musicali e nell'abbigliamento. Il loro minimo comune denominatore è l'opposizione alla cultura adulta. Nonostante ciò, i valori dominanti all'interno delle subculture giovanili sono fortemente condizionati dalla cultura adulta di provenienza: basti pensare all'importanza della variabile razziale nella formazione di molte sottoculture giovanili, specialmente negli Stati Uniti.
Il termine controcultura indica, invece, un certo tipo di subcultura giovanile sviluppatasi negli anni Sessanta in Europa e in America il cui scopo era quello di porsi in aperto e radicale contrasto con la cultura dominante e adulta, aderendo a valori e modi di vita alternativi: il nomadismo, la libertà sessuale, la non-violenza e l’antimilitarismo, l’uso di droghe, il comunitarismo, la religiosità orientale, la musica pop e rock.





Subculture giovanili e conflitti intergruppi

Cerchiamo di vedere ora il collegamento tra subculture giovanili e violenza. Per trattare il tema del rapporto subculture giovanili e violenza, credo sia necessario, innanzitutto, analizzare le dinamiche psicologiche e sociali dei gruppi adolescenziali.
L'importanza dei gruppi di coetanei nella società urbana post-industriale è senza precedenti: svolgono, infatti, un ruolo insostituibile nel processo di emancipazione dell'adolescente- "emancipazione" è qui da intendere nel senso etimologico del termine come "liberazione dalla manus , ovvero dalla soggezione alla patria potestà"-. L’adolescente, infatti, attraversa nelle nostre società una fase della propria vita particolarmente delicata dal punto di vista della costruzione della propria identità: il corpo cambia e spesso si fa fatica a riconoscersi nei cambiamenti; l’adolescente, con la pubertà, raggiunge la maturità biologica (la capacità di riprodurre), ma al contempo, dal punto di vista sociale e politico, è ancora considerato immaturo e irresponsabile (ad esempio, non può votare o guidare la macchina prima dei 18 anni…) ; l’uscita dall’infanzia e il processo di emancipazione, infine, comportano una ricerca di nuovi modelli d’identificazione e il gruppo di coetanei svolge in questo senso una funzione insostituibile.
Il problema dell’identità si pone, quindi, a più livelli: identità in relazione al corpo e al genere (“Sono un bambino-a o un uomo-donna?”; “Che tipo di uomo o donna sono?”); identità personale come senso di continuità attraverso il tempo e distinto dagli altri (“Qual è la parte di me che rimane costante nel cambiamento – da infante a ragazzo/a - e mi fa dire io sono questo/a e non un altro/a?”); identità sociale intesa come risposta alle domande relative alla collocazione sociale (“Qual è il mio ruolo?”), professionale (“Cosa farò da grande?”) e ideologica (“Quali sono le cose in cui credo?”).
E.Erickson ha sottolineato l’importanza del passaggio dal concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori al concetto di sé ricavato dal giudizio dei coetanei, per i quali sono decisivi l’aspetto fisico, la capacità intellettuale, l’attrazione sessuale che prima erano del tutto estranei alla considerazione di sé. È facile che l’insicurezza in relazione al corpo e alla sua immagine, alle possibilità concrete o percepite di essere attrattivi, o relative alle proprie prestazioni cognitive possano provocare ansia e reazioni compensative (es. atti di coraggio fisico). Un atteggiamento iperprotettivo dei genitori in questa fase, d’altra parte, può portare alla costruzione di una identità negativa, che si caratterizza per una decisa opposizione al mondo degli adulti.
Il gruppo dei coetanei (con i suoi linguaggi, i suoi valori, i suoi segni esteriori) costituisce una alternativa alla famiglia e al mondo adulto e svolge, così, un ruolo cruciale nel processo di costruzione dell’identità. D’altro lato, si può dire che l’identificazione con il gruppo porta l’individuo a categorizzare il proprio gruppo (ingroup) differenziandolo dagli altri (outgroup) e ad associare alla differenziazione un giudizio di valore. L’individuo tende, così, a massimizzare le differenze intergruppi (tra il suo e gli altri gruppi) e ad accentuare le somiglianze intragruppo (tra i membri del suo gruppo), assegnando valori e significati positivi al proprio gruppo e, quindi, a se stesso. Il fenomeno del favoritismo nei confronti del proprio gruppo, e della discriminazione verso altri gruppi spesso ad essa connessa, si spiega a livello individuale con il bisogno da parte del soggetto di accrescere la propria identità sociale positiva. Quindi, il differenziare in senso positivo il proprio gruppo risponde ad un bisogno individuale, strettamente connesso con la formazione dell’identità sociale.
Apro una breve parentesi per osservare che l’abito riveste nelle subculture giovanili una particolare importanza: è il segno visibile di una appartenenza e stabilisce il confine tra noi/loro. In questo senso, nelle subculture giovanili si recupera il valore tradizionale dell’abito proprio delle società prerinascimentali e di molte culture tradizionali: l’abito, cioè, è il significante visibile di una certa appartenenza sociale.
La somiglianza tra l'uso dell'abito nelle culture tradizionali e nelle subculture giovanili è da ricercare in un rapporto cultura-abito tale da rendere l'abito segno esteriore e immediato di una particolarità culturale . Per quanto riguarda le subculture, basti pensare all'equazione che si viene a stabilire tra sfera vestimentaria e valoriale nel movimento hippy: caffettano + fiori + collanine = hippy = love and peace.
La nascita del fenomeno Moda in età rinascimentale rinascimentale crea, invece, una frattura tra significante e significato. A titolo di esempio, si pensi al “look country” di una certa collezione di moda: l’abito “country” in questo caso non significa che chi lo indossa sia contadino o lavori in campagna. L’abito nella Moda è significante vuoto. Si può dire, invece, che la moda presa nel suo complesso costituisca una celebrazione del Nuovo, dove “Nuovo=Meglio”. In questo senso la Moda è figlia di una cultura che celebra il Progresso illimitato come fine in sé.

Torniamo ora alle dinamiche psico-sociali nei gruppi adolescenziali. L’esito dei confronti intergruppi (noi/loro) riveste per il singolo un’importanza decisiva, in quanto contribuisce indirettamente al consolidamento della propria autostima. Se il proprio gruppo è superiore agli altri, gli appartenenti al gruppo potranno godere indirettamente di maggior prestigio e considerazione. Questo bisogno di avere un concetto di sé positivo induce spesso l’individuo, nel differenziare in senso positivo il proprio gruppo, a distorcere i confronti intergruppi, e può condurre molto facilmente al pregiudizio sociale e a manifestazioni violente verso gli altri gruppi, giungendo ad azioni sociali discriminatorie e distruttive.
A questo proposito, faccio riferimento allo studio di Stan Cohen (1972) sugli scontri tra i mods e i rockers avvenuti in Inghilterra, nei primi mesi del 1964. Questo lavoro mette in luce il ruolo dei media nell’organizzazione della reazione sociale alla devianza, riprendendo i temi preannunciati da Turner e Surace relative alla subcultura degli zooters negli USA(1956).
Nella primavera del 1964 alcuni gruppi sia di rockers che di mods andarono a passare una giornata al mare nella località di Clacton, a circa due ore di viaggio da Londra, e lì scoppiarono delle risse fra i due gruppi. Il giorno successivo la stampa popolare mise gli incidenti in prima pagina e, rifacendosi all'iconografia delle gang di strada di New York, li presentò come furiose battaglie fra bande rivali organizzate. Questo atto di labelling (etichettamento ) ebbe, secondo Cohen, due grossi effetti: in primo luogo, fece scattare l'allarme sociale, costringendo la polizia a intensificare la sorveglianza dei due gruppi, (ne derivarono arresti più frequenti che finirono con l'alimentare l'allarme iniziale); in secondo luogo, evidenziando le differenze di stile e dando rilievo all'antagonismo fra i gruppi, la pubblicazione incoraggiò i teen-agers a pensare se stessi negli stessi termini in cui le due sub-culture venivano descritte (questo, insieme alla solidarietà di gruppo creata dalla comune soggezione alle interferenze poliziesche, polarizzò sempre di più le due subculture). La convergenza di questi processi produsse ulteriori scontri fra i gruppi, attirando ulteriori attenzioni da parte della stampa e scatenando ulteriore allarme nel pubblico.
Non approfondiamo in questa sede un tema così ampio come quello del rapporto tra devianza e controllo sociale. Quel che ci premeva mettere in evidenza citando lo studio di Cohen è che nell’ambito delle subculture giovanili è sicuramente presente il tema della violenza. In particolare, nel caso preso in esame, siamo davanti al ricorso alla violenza all’interno di un conflitto intergruppo tra subculture giovanili.


La controcultura anni ’60 negli USA


Passiamo ora all’analisi del rapporto controcultura e violenza, ricostruendo in particolare il contesto storico e sociale della nascita del movimento studentesco a metà degli anni ’60 negli USA. Nel dopoguerra, l’istruzione primaria generalizzata, cioè l’alfabetizzazione di base, divenne l’aspirazione di tutti i governi. L’alfabetizzazione fece progressi sensazionali, in particolare nei paesi rivoluzionari governati dal comunismo. Si moltiplicarono anche le iscrizioni alle scuole secondarie e all’università.
L’esplosione degli iscritti all’università fu impressionante: prima della seconda guerra mondiale in Germania, Francia e Gran Bretagna la popolazione degli studenti universitari in rapporto alla popolazione complessiva era di uno studente per mille abitanti (la somma della popolazione dei tre paesi era 150 milioni, mentre la somma degli studenti era 150.000); alla fine degli anni ’80 gli studenti si contavano a milioni.
L’aumento della popolazione di studenti universitari provocò fenomeni inattesi sul piano sociale, culturale e politico. Infatti, è innegabile che solo con gli anni ’60 gli studenti divennero, sia socialmente sia politicamente, una forza importante, come dimostrò al di là di ogni statistica la ribellione studentesca del 1968 che ebbe estensione mondiale. Riporto a questo proposito un passaggio da Il secolo breve di Hobsbawn.

…Queste masse di giovani uomini e donne con i loro insegnanti, calcolabili in milioni o almeno in centinaia di migliaia di unità, sempre più concentrati in grandi e spesso isolati campus o <> universitarie…divennero un fattore di novità dal punto di vista politico e culturale. Erano elementi transnazionali, perché con facilità e rapidità si spostavano e comunicavano idee ed esperienze da un paese all’altro, e più dei rispettivi governi sapevano sfruttare la tecnologia della comunicazione. Come si dimostrò negli anni ’60, non soltanto erano politicamente radicali e ribelli, ma erano gli unici a poter dare espressione efficace, a livello nazionale e internazionale, allo scontento politico e sociale….Se mai ci fu un solo momento negli anni d’oro dopo il 1945 corrispondente al sogno dell’insurrezione mondiale simultanea coltivato dai rivoluzionari dopo il 1917, quello fu certamente il 1968, quando gli studenti si ribellarono dagli Stati Uniti e dal Messico a Occidente fino alla Polonia, alla Cecoslovacchia e alla Jugoslavia nei paesi dell’Est, stimolati perlopiù dalla straordinaria esplosione del maggio parigino del 1968, epicentro di una sollevazione studentesca diffusa in tutto il Continente. (tr.it. 2007, p.351)


Può essere sorprendente la constatazione che giovani uomini e giovani donne che si trovano a vivere in una fase di boom economico e che hanno l’occasione, con gli studi universitari, di cambiare in meglio la propria posizione sociale, coltivino ideali politici radicali di sinistra. Prima della seconda guerra mondiale, infatti, la grande maggioranza degli studenti nell’Europa centrale e occidentale e nel Nordamerica era apolitica o di destra. Così, paradossalmente le agitazioni studentesche si collocano proprio all’apice del boom economico.
Vediamo di capire meglio le ragioni della nascita del movimento studentesco negli USA. Al principio il movimento è totalmente interno alle Università e solo in un secondo tempo uscirà da questi confini. La prima rivolta, che prese il nome di Free Speech Movement, si scatenò a Berkeley nel settembre del 1964 quando le autorità amministrative vietarono la raccolta di fondi per una causa politica esterna alla vita dell'università. Il vero oggetto d'interesse per il Movimento è, innanzitutto, il rapporto tra studenti e sistema formativo. Poter contare all'interno della struttura scolastica, diventando protagonisti di un processo che riguarda la propria vita, è una esigenza fortemente avvertita. Si afferma, infatti, la percezione che il processo educativo americano sia una crudele cerimonia iniziatica. Nell'articolo di Weinberg "Il Free Speech Movement e i diritti civili", contenuto nella raccolta L'altra America degli anni'60 vol. 1, a cura di F. Pivano, leggiamo:

Due dei temi più fondamentali che hanno cominciato a manifestarsi nei primissimi discorsi della protesta e che hanno continuato a occupare una posizione centrale anche in seguito sono stati la condanna della concezione dell’università come fabbrica di sapere e la richiesta che gli studenti siano ascoltati. Questi due temi di protesta sono stati accolti così bene a causa della sensazione generica diffusa tra gli studenti che l’università li ha condannati all’anonimato; che hanno scarsissime probabilità di controllo sul loro ambiente e sul loro futuro; che la società universitaria è quasi completamente sorda ai loro bisogni individuali. Gli studenti lamentano la mancanza di contatti umani, la mancanza di comunicazione, la mancanza di dialogo che esiste all’università. Molti ritengono che una gran parte dei programmi dei rispettivi corsi sia di scarso interesse, che molti dei compitiu più difficili loro assegnati siano esclusivamente costituiti da tediose sgobbate di valore educativo scarso o nullo. Troppo spesso, nel corso degli studi, lo studente deluso, in un momento di amarezza, si chiede: “A che cosa porta tutto questo?” In un lampo di intuizione, lo studente vede il processo educativo come una crudele cerimonia iniziatica: l'istruzione che conduce al conseguimento del diploma di graduation appare un rito per mettere alla prova la capacità di sopportazione del candidato, una serie di prove che, se superate con successo, consentono l'ingresso ai corsi della graduate school; e, a quelli che sono riusciti a passare indenni attraverso le prove dell'intero rito, è concesso il titolo pomposo: il Ph.D. Più uno emerge, migliore è il posto di lavoro che ottiene...Troppo spesso il processo educativo appare come un'eliminatoria, regolata dalle leggi della domanda e dell'offerta. Quanto meglio uno gioca la partita tanto meglio uno è compensato.
(tr. it. 1971, pp.134-135)

Il sistema educativo americano appare, quindi, come una istituzione che opera una “selezione naturale”, finalizzata all'emergere del più forte e poco preoccupata della crescita e della formazione culturale degli studenti. Lo scontento manifestato nel settembre 1964 trascende, quindi, l'episodio contingente. I circa quattro mesi di rivolta che seguono, permetteranno di ottenere spazi "liberi" e il diritto di organizzare “Teach In” su argomenti politici all'interno dell'università.
Il primo “Teach In” fu dedicato al Vietnam. L'impegno americano, infatti, era andato via via aumentando e nel 1965 erano cominciati i primi bombardamenti. Contemporaneamente erano iniziate e si erano estese le manifestazioni di protesta. Le matrici da cui muoveva il rifiuto per la guerra andavano moltiplicandosi: da un lato, c'erano vari comitati, più o meno affiliati ai vari movimenti radicali e antinucleari internazionali, che propugnavano una scelta pacifista e antinucleare per la società occidentale; dall'altro, si faceva strada un modello di pensiero aperto alle culture orientali e precapitalistiche. La scoperta della spiritualità e del misticismo orientale si unì, infatti, alla rilettura in chiave antropologica della mitica comunione con la natura delle popolazioni indiane d'America: l'insieme si formalizzò nella proposta di un "uomo nuovo", impegnato a ritrovare la propria interiorità e pacificamente inserito in un contesto naturale da osservare e rispettare.
I maestri del nuovo umanesimo furono i protagonisti della cultura alternativa del decennio precedente: Allen Ginsberg, Gary Snyder, Timothy Leary. La strada da percorrere verso l'ideale di "uomo nuovo" viene indicata con estrema chiarezza da Timothy Leary ( articolo riportato nell’antologia L’altra America negli anni ’60 vol. 1)

Dovete cominciare col cambiare il vostro abito, la vostra casa, i vostri movimenti, il vostro ambiente, in modo tale che rifletta la grandezza e la gloria della vostra visione divina. Dovete avere un aspetto diverso e agire diversamente. Ma questo processo di sintonizzazione dev'essere armonico ed elegante. Per favore nessun gesto distruttivo o ribelle!...Camminate, parlate, mangiate, bevete come se foste un felice Dio della foresta.
(op. cit., p. 185)

La prospettiva terrorizzante da cui si cerca di uscire con questa proposta di vita è quella esemplificata nella figura dell’impiegato di Manhattan, descritta da Leary in questi termini:

...lavora in una camera buia, che puzza di aria inquinata. Si muove in mezzo ad un ammasso di mobili anonimi e fatti in serie per andare in un bagno di celluloide o in una cucina impersonale di plastica. Fa una prima colazione a base di cibo-carburante anonimo, tolto da una scatola o impacchettato. Indossa la divisa anonima del cittadino-robot, biancheria di cotone, scarpe, camicia, cravatta e giacca. Viaggia in gallerie buie di metallo fuligginoso e di cemento grigio verso la scatola di alluminio che è il suo ufficio... Il denaro che guadagna gli serve per il suo cibo di celluloide e per il suo appartamento dall'aria inquinata. Quest'uomo è circondato da un ambiente grigio, inquinato, morto, impersonale, fatto da una catena di montaggio, prodotto in serie e anonimo. Questo è l'ambiente di un robot-meccanico.
(op. cit., p.184)

Per uscire da questo tunnel esistenziale ci si rivolge alle filosofie orientali e spesso si fa ricorso all'uso di sostanze stupefacenti -funghi sacri, marijuana, LSD-, in grado di provocare l'espansione dello spettro percettivo, fare esperienza di nuovi stati di coscienza e liberare grandi energie creative, prive di condizionamenti sociali.
Nel 1965, Ginsberg stila un programma per una grande manifestazione (articolo contenuto in L’altra America negli anni ‘60 vol. 1), cercando così di chiarire in modo inequivocabile a tutti le intenzioni e le modalità della riunione e impedire reazioni disordinate in caso di provocazioni:

La parata può diventare uno spettacolo esempio di come controllare situazioni di ansietà e paura/minaccia (quali lo Spettro degli Hell’s Angels o lo Spettro del Comunismo).
E manifestare con esempio concreto, vale a dire con la parata stessa, come trasformare la psicologia di guerra e superare, oltrepassare, la reazione-immagine-vizio di paura/violenza.
Vale a dire, la parata può realizzarsi come esempio di salute pacifica che è il contrario di un cieco combattimento contro combattimento.
Annunciate in anticipo che è una marcia sicura, portate la nonna e i bambini, portate famiglia e amici. Dichiarazioni aperte: "Non veniamo a combattere e non combatteremo"
(op. cit., p.263)

La manifestazione diventa una grande festa pacifica fatta di suoni, canti, colori e tantissimi fiori.
Il momento culminante del movimento è, però, il grande raduno del 14 gennaio 1967, tenutosi nel Parco del Golden Gate a San Francisco, vero e proprio centro della cultura alternativa giovanile. Questo grande rito collettivo si chiude, al tramonto, con Allen Ginsberg e Gary Snyder che salmodiano il mantra Om Sri Maitreya rivolti verso il sole, in una atmosfera di grande pace e poesia.
Da questo racconto della nascita del movimento credo emerga con tutta evidenza come questa controcultura, fortemente antagonista rispetto ai valori della cultura dominante, abbia scelto con nettezza l’opzione non violenta, non solo nelle dichiarazioni d’intenti ma anche nelle pratiche sociali cui ha dato luogo.
Bisogna considerare, d’altra parte, che il movimento hippy negli Stati Uniti rappresenta uno sviluppo piuttosto coerente dei valori alla base della subcultura beat degli anni 50 (non a caso Ginsberg è la figura ponte tra i due movimenti).
Per avere a questo proposito una idea più chiara, riporto un passaggio dell'articolo "Agnello, non leone", contenuto nella raccolta Scrivere bop, dove Kerouac chiarisce che:

Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato, la parola italiana per beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutto nella vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore. Come si può realizzare una cosa del genere nel nostro folle mondo moderno fatto di molteplicità e milioni? Praticando un pò di solitudine, andandosene da soli ogni tanto a far provvista della ricchezza più grande: le vibrazioni della sincerità. Essere seccati non è essere beat. Si può essere chiusi in se stessi ma ciò non significa necessariamente essere scontrosi. Il beat non è una forma di critica stanca e vecchia. E' una forma di affermazione spontanea. Che razza di cultura sarebbe se tutti con faccia rabbuiata dicessero"Questo non mi sembra giusto"?
(ibidem, 49-50)

Da queste parole emerge il profilo di un movimento che cerca una profonda rigenerazione spirituale, sia attingendo alle fonti più pure della religione cristiana sia cercando di avvicinare le filosofie orientali, in particolare il buddismo. Come nel movimento hippy, è una ricerca che propone valori profondamente antagonisti rispetto al materialismo consumista e al "carrierismo", che possiamo considerare fondanti dell'american way of life.
Ad un certo punto del Movimento, però, si inizia a parlare di violenza. Tutto questo lo possiamo desumere in modo molto chiaro dalle parole di Tuli Kupferberger nell’articolo “La politicizzazione di uno hippy” scritto il 4 agosto 1967 (L’alta America negli anni sessanta vol. 2)

Si, siamo impegnati, gente che sceglie tra due sistemi di vita, due ordini sociali, due concezioni. Abbiamo rinunciato alle norme morali e alle promesse insulse di una società malvagia. L’abbiamo abbandonata, fisicamente, intellettualmente, emotivamente, ed economicamente.
Ma ora l’epoca della protesta pacifica, nell’ambito della legge, l’epoca del dissenso è finita. Con i crani massacrati e col sangue l’America bianca è giunta alla conclusione che aveva cercato di evitare a tutti i costi. Che stiamo vivendo sotto un sistema di oppressione tirannico e violento che non si fermerà di fronte a niente per conseguire i suoi scopi, e che se desideriamo por fine alla distruzione della vita umana in patria e all’estero non abbiamo altra alternativa che iniziative illegali e violente. (corsivo nostro).
(op. cit., p. 193)

I nuovi sviluppi del Movimento sono rintracciabili nella Marcia della Pace sul Pentagono del 20-22 ottobre 1967, dove Jerry Rubin cercò di tirare le fila di tutti i canali di protesta, da quello non violento a quello violento. Tra l’ottobre del 1967 e l’agosto 1968 si portò a termine quel processo definito di “politicizzazione degli hippies”. Sono le giornate di Chicago dell’agosto ’68 a segnare la svolta.
Leggiamo dal resoconto di Tennis Frawley “Maiale a Chicago” scritto il 30 agosto 1968 (in L’altra America negli anni sessanta vol. 2).

I fatti di Chicago della settimana scorsa hanno creato una situazione bizzarra in America. Non è mai stato così evidente che il sistema politico del paese conta sulla forza per sopravvivere….Comunque dopo l’esperienza di Chicago dubitiamo che armi più letali non saranno usate dalle truppe disfatte dei giovani contestatori. La gomma da masticare e i giornali arrotolati sono di poca difesa contro la gestapo, e la filosofia delle Pantere Nere sembra avere più senso dopo questo confronto.
(op. cit., p.239)

Dopo questa premessa, da cui si evince un profondo ripensamento a proposito della filosofia della non violenza fin lì praticata, Frawley passa alla cronaca di quei giorni.
Giovedì
Il sangue cominciò a scorrere questo giovedì mattina…quando un indiano americano del Sud Dakota di 17 anni fu ucciso da una fucilata nella Old Town…Dean Johnson, il ragazzo indiano, era stato sballottato al punto da volersi difendere. La gente dice che fu stupido da parte sua far fuoco sul poliziotto. Forse fu stupido – ma coraggioso….La pistola del ragazzo non funzionò e fu ucciso mentre cercava di fuggire.

Martedì
Alle 11 di mattina grandi dosi di gas lacrimogeni furono usate al Lincoln Park, e a manganellate furono attaccati e fatti allontanare alcuni esponenti del clero che s’erano uniti ai dimostranti pregando. In serata arrivarono Bon Seale e le Pantere Nere e Seale tenne un discorso stimolante che fu ben accolto. Seale suggerì che non bisognava più percorrere la città in grandi gruppi ma in gruppetti armati di tre o quattro in tutta la città – e parzialmente questa tattica fu adottata per le dimostrazioni al Grant Park…
Mercoledì
Il fronte si era spostato al Grant Park dove 15.000 persone dimostravano contro il quartier generale del Partito Democratico. La dimostrazione fu caratterizzata dai lacrimogeni, da brutali bastonature, e da molto movimento per le strade…Chicago ha reso più evidente al movimento la futilità della non militanza. La gioventù è più decisa che mai. La macchina del braccio forte del sindaco Daley, una reazione alla reazione personale di Daley al dissenso, rappresenta il punto chiave dell’organizzazione giovanile della resistenza armata. Il consumatore deve morire di morte violenta.
(op. cit., pp.239-244)

A conclusione di questo lungo articolo, si può dire che il movimento giovanile, nato in ambito universitario a metà degli anni sessanta negli USA, si è caratterizzato al principio da forme di lotta non violenta, ma nel corso della sua evoluzione, davanti alla repressione violenta delle forze dell’ordine, e con la saldatura di gruppi come le Pantere Nere, ha cambiato gradualmente la sua fisionomia, si è “politicizzato”, arrivando alla pratica della resistenza violenta.




Riferimenti bibliografici

Cohen S.
1972 Folks Devils and Moral Panics, MacGibbbon and Kee, London

Erickson E. H.
1974 Aspetti di una nuova identità, Armando, Roma
Galimberti
2006 Dizionario di Psicologia, (voce Identità), De Agostini, Novara


Gallino L.
2006 Dizionario di Sociologia, Utet, Torino


Hobsbawn E. J.
2007 Il secolo breve, Burexploit Rizzoli, Milano

Kerouac J.
1996 Scrivere Bop, Mondadori, Milano

F. Pivano (a cura di)
1993 L’altra America negli anni sessanta, vol. 1-2, Arcana, Milano


lunedì 24 maggio 2010

Il vento fa il suo giro



Domenica 23 maggio alla Casa Gialla, Centro Sociale gestito dagli anziani, a Bologna, si è svolto un evento piuttosto insolito per una domenica mattina: la proiezione del film “Il vento fa il suo giro”; a seguire l’incontro con il regista Giorgio Diritti. Nonostante la scarsa qualità della proiezione, che ha impedito di apprezzare appieno il film, la storia raccontata cattura in fretta l’attenzione con la sua immediatezza comunicativa, il fascino dei paesaggi, l’autenticità dei personaggi.
Vediamo di ricostruire in breve la trama.
Il film è ambientato a Chersogno, un paesino sulle Alpi Occitane italiane, abitato ormai da una decina di persone anziane, di età media intorno ai settanta, che sopravvivono grazie al turismo estivo. In questo paesino della Valle Maira, arriva Philippe, un francese che cerca casa, per stabilirsi con la sua compagna e i suoi tre figli. Philippe è un pastore francese (ex professore di filosofia, stanco della burocrazia) che ha smesso d’insegnare per dedicarsi all’allevamento delle capre e alla produzione di formaggio. Questo evento potrebbe essere una ventata di novità per il paese. La comunità (che parla in lingua d'hoc -per questo il film è spesso sottotitolato-) decide alla fine, dietro le pressioni del suo sindaco progressista, di accogliere lo “straniero”, in nome delle tradizionali "rueidas", quelle forme di aiuto reciproco che tradizionalmente avevano unito la comunità. L'uomo e la sua donna sono due persone che hanno deciso di vivere e di educare i propri figli, seguendo i tempi della natura e dei propri desideri. Con il passare del tempo, la "diversità" dei nuovi arrivati mette in crisi le coscienze di un paese che si sente minacciato da questi spiriti liberi, e l’incomprensione diventa gradualmente distanza incolmabile: dal pregiudizio si arriva alla violenza agita. Gli "stranieri" sono prima accusati di essere sporchi (“i bambini stanno in mezzo alla cacca delle capre”); poi di sconfinare con il gregge di capre nei campi altrui e di prendere abusivamente la legna da terreni abbandonati (il film mette a fuoco e sottolinea la grettezza del senso della proprietà privata dei paesani). Infine, dalle maldicenze si passa alle denunce a carabinieri ed ASL, alla simulazione di aggressione da parte di una donna, all'uccisione di alcuni capi di bestiame.
Philippe non vuole la guerra e alla fine decide di andar via con la sua famiglia. Questa partenza segna però una sconfitta di un paese che non riesce ad essere altro che una vetrina per programmi televisivi che cercano ancora il profumo di “autentico” o una cartolina per turisti estivi.

Passiamo ora a qualche riflessione sul film.
La discussione con il regista è partita proprio da una delle scene finali del film: si è appena consumata la frattura irreversibile tra il paese e la famiglia francese, con la partenza di Philippe, sua moglie e i suoi figli, quando compare un elicottero che sfreccia tra le valli e i monti intorno a Chersogno; sono riprese dall’alto di un programma televisivo sul paese, che vengono commentate da un anziano che ricostruisce la memoria di quei luoghi.
È forte il contrasto tra il senso di sconfitta, che abbiamo dolorosamente registrato come spettatori con la partenza della famiglia francese, e l’euforia nostalgica e da cartolina con cui si dipinge il paesaggio e il paese dall’alto. Viviamo, inoltre, su un piano meno emotivo, il conflitto tra rappresentazione mediatica e vita reale, quello scollamento tra apparire ed essere che già era stato presentato in una precedente scena del film: un giornalista irrompe con il suo seguito (si respira l’aria di una “invasione” non rispettosa dei luoghi e delle persone che vengono quasi stuprati dagli obiettivi!) a raccontare la storia felice del nuovo abitante francese che fa il pastore e casaro; quando il sindaco, però, chiederà al giornalista di parlare del tentativo dell’amministrazione di far rinascere la vita nel paese e, quindi, di riportare a Chersogno i giovani, il giornalista risponderà secco che è lì per parlare di alimentazione e non di politica.

Torniamo al volo dell’elicottero… alla fine il velivolo atterra e assistiamo al recupero del corpo del “matto” del paese che si è appena suicidato; questa scena ci offre una ulteriore chiave di lettura del film: il paese non ha saputo integrare il “matto” così come non ha saputo integrare lo straniero; il suo suicidio è simbolicamente il suicidio di una comunità che ha scelto il ripiegamento su se stessa, l’ancoraggio ad una tradizione morta piuttosto che l’apertura a nuove possibilità e la sfida del cambiamento.
Il “matto”, in precedenza, più volte è stato ripreso mentre a braccia distese simula il volo per le strade o per i campi, un volo che non conosce i confini rigidi della proprietà privata (i quali costituiscono invece per gli altri paesani uno dei principali motivi di scontro con la famiglia francese…). Il “matto”, con la mente sgombra di pregiudizi, è colui che meglio riesce ad entrare in relazione con il francese e ritrova nel suo sguardo identità. Per questo la partenza di Philippe finisce per rendere ormai vuota e senza senso la sua vita…
Questo film nella sua ricchezza di contenuti si presta ad una analisi su più livelli: a partire dal tema centrale del rapporto con la diversità si diramano i capitoli sul pregiudizio e lo stereotipo (lo straniero “puzza”, porta malattie – il maiale morto che viene abbandonato dal francese abituato a far così perché nei Pirenei, dove aveva abitato prima, gli avvoltoi si cibavano delle carcasse_...), quello sull’identità sociale che si afferma nella contrapposizione (le dinamiche in-group/out-group, del “noi” e del “loro”); quello dell’identità personale che si afferma, invece, grazie allo sguardo benevolente dell’altro; quello dello scarto tra rappresentazione mediatica e realtà vissuta…
È un film che, oltre al pregevole valore artistico, ben si presta a sviluppare riflessioni di carattere antropologico, sociologico o di psicologia sociale. Caldamente consigliata, quindi, la visione a studenti e docenti del Liceo delle Scienze Sociali!

sabato 22 maggio 2010

Dialogo interculturale


Al festival delle culture “Divercity” il 21 maggio è intervenuto Arrigo Chieregatti con una lectio magistralis (purtroppo con poco seguito di pubblico!) sul tema “Abitare le strade del cambiamento tra vecchi e nuovi cittadini”.
Per chi non lo conoscesse Don Arrigo Chieregatti è parroco di Pioppe, un paese vicino a Marzabotto, uno di quei sacerdoti che riconcilia con il cristianesimo (chi parla è buddista da 24 anni…). Laureato in Filosofia e Teologia e specializzato in Psicologia, insegna da diverso tempo presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna.
L’intercultura è uno degli ambiti di cui si è più occupato: a titolo d’esempio cito il saggio scritto insieme ad Andrea Canevaro (La relazione d’aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Carocci, 1999), in cui Chieregatti parla del rapporto con il “diverso”; la razza e il razzismo, il rapporto tra culture, il pluralismo.
Ma il suo non è un interesse puramente teorico: Don Arrigo è uomo che ha viaggiato molto, che si è interessato profondamente di culture altre, imparandone talvolta la lingua (nella sua lezione, cita spesso i suoi viaggi in Oriente, in particolare in Cambogia e Vietnam). A proposito della lingua, è partito da una considerazione di carattere personale: per lui imparare un’altra lingua è stato un evento che l’ha trasformato, l’ha reso diverso e ha cambiato i suoi pensieri; per questo nell’accogliere gli stranieri sarebbe auspicabile non chiedere solo agli stranieri d’imparare l’italiano, ma coltivare una disponibilità verso l’altro che comprende imparare le altre lingue. Si, perché dialogo è confronto tra pari, dove entrambe le parti parlano e ascoltano, altrimenti è monologo. Così il dialogo interculturale dovrebbe partire da questo rispetto per la cultura altra, evitando la tentazione dell’assimilazione, per la quale il confronto è possibile solo se si è simili: il tentativo, allora, è quello di rendere l’altro come me, chiedendo il sacrificio dell’altra cultura.
Nel dialogo bisogna sempre tener presente che ognuno può imparare dall’altro; è necessario un confronto che va oltre la presunzione pedagogica di avere solo da insegnare. Sappiamo, come la visione moderna e positivistica del progresso, abbia portato la nostra cultura a nutrire un atteggiamento di presunzione e arroganza verso le culture da noi definite “primitive”. Questa presunzione ha fornito spesso l’alibi per il colonialismo: abbiamo portato il “progresso” (oggi più spesso vogliamo esportare con la guerra la “democrazia”), stuprando uomini, donne, territori e culture.
Un esempio eclatante del nostro etnocentrismo, citato da Don Arrigo, è la Carta dei Diritti Umani:
"La conosciamo bene? Sappiamo quanti articoli sono? Conosciamo il contenuto?" il pubblico in sala risponde di 'no'. "Ve lo chiedo perché spesso la celebriamo senza conoscerne i contenuti, acriticamente. È un atteggiamento ideologico, perché non c’importa cosa c’è scritto: va difesa a prescindere! Forse non tutti sanno che esiste un’altra Carta dei Diritti Umani, quella dei diritti dei popoli africani; oppure ignorano la Carta dei Diritti dei popoli arabi, quella dei diritti dei popoli islamici…e potrei continuare. Perché solo nella nostra c’è scritto 'universale'? Immaginate cosa sarebbe successo se gli islamici avessero scritto 'Carta Universale'…
'Universale' vuol dire per tutti, quindi la nostra Dichiarazione può suonare come una imposizione, non rispettosa delle altre culture…”.
Don Arrigo, con un filo di ironia, poi nota come in Oriente, nei paesi da lui visitati, è comune parlare degli occidentali chiamandoli “gli sviluppatori”!
“Progresso”, “sviluppo”, “crescita” sono concetti molto vicini, tutti figli della stessa ideologia scientista dal punto di vista epistemologico (l’unico vero sapere è quello scientifico connotato in senso sperimentale) e dell’ideologia capitalista dal punto di vista dell’economia (l’imperativo categorico della crescita del PIL, dei mercati…).
Ma gli “sviluppatori”, dice Don Arrigo, dovrebbero ascoltare quello che pensano gli altri: forse potrebbero imparare qualcosa. Chieregatti racconta, a questo proposito, una sua esperienza in Cambogia, a Phnom Penh:
"La Cambogia è un paese praticamente dominato dai francesi: l’aeroporto di Phnom Penh è stato costruito dai francesi e la Cambogia paga un affitto. Anche sulle scuole costruite dai francesi paga l’affitto…In Cambogia stavano costruendo un nuovo ospedale insieme ai francesi. Mentre l’edificio stava per essere terminato, i cambogiani hanno iniziato ad erigere un altro edificio a 100 metri dalla struttura ospedaliera. “Cosa costruite?” gli è stato chiesto. “L’ospedale” hanno risposto. “Avete dimenticato – hanno proseguito i cambogiani – che quando una persona viene all’ospedale non viene solo, ma tutta la famiglia viene con lui. Quando deve essere svestito non deve andarci un estraneo, e quando dobbiamo preparargli da mangiare solo noi conosciamo i suoi gusti”. “E voi per assistere un malato lasciate le risaie incolte?” gli è stato chiesto. “Certo” – hanno risposto i cambogiani – saranno i vicini di casa che coltivano per noi le risaie. D’altronde quando una persona muore all’ospedale, non va lasciata morire da sola, ma ci deve essere un viso conosciuto” hanno concluso i cambogiani."
Noi cultura “progredita”, che lasciamo così spesso i nostri cari a morire nelle fredde stanze degli ospedali, senza che il medico si avvicini e lo accompagni con umanità alla morte, siamo sicuri di non avere qualcosa da imparare dai cambogiani?

lunedì 17 maggio 2010

Aggressività e violenza


Al primo incontro del Maggio filosofico (6 maggio 2010), a Rastignano (BO), sul tema “Dall’aggressione degli animali alla violenza degli uomini” è intervenuto Giorgio Celli,
noto ai più come presentatore di documentari alla RAI, ma soprattutto etologo e uomo di vasta cultura.
Il tema era stimolante, così come le sue osservazioni, che oltre ad essere ben documentate hanno avuto il grande pregio di tradurre un tema così complesso in una affabulazione divertente, ricca di aneddoti, per diversi aspetti illuminante.
Celli ha operato una prima distinzione, che spesso non si ritrova nella manualistica delle scienze sociali, tra aggressività e predazione. Normalmente la distinzione in uso è tra: aggressività intraspecifica (cioè tra membri della stessa specie) e aggressività interspecifica (cioè tra membri di diverse specie). Ora Celli considera aggressività solo quella che, nella seconda distinzione, è chiamata aggressività intraspecifica. La cosiddetta aggressività interspecifica per lui è predazione (ad esempio quella del leone con la gazzella). Predazione per Celli non è aggressività, perché risponde semplicemente al bisogno di sopravvivere e di nutrirsi, così come per noi non è aggressività acquistare dal macellaio la carne e consumarla (è un suo esempio). L’unica differenza, come ha ironicamente notato, sta nel fatto che noi commissioniamo l’uccisione dell’animale a dei sicari!
Sgombrato il campo da questo primo equivoco, la domanda è: cosa sarà mai allora aggressività? Aggressività è appunto quella che si manifesta tra membri della stessa specie. Bene! Perché esiste in natura l’aggressività?
Nel mondo animale l’aggressività svolge fondamentalmente alcuni compiti: c’è l’aggressività tra individui maschi per assicurarsi l’accoppiamento e riprodurre il proprio patrimonio genetico; l’aggressività finalizzata a stabilire gerarchie nel branco (come nei lupi); l’aggressività che serve a circoscrivere un territorio che fornisce risorse preziose per la sopravvivenza.
Del primo caso di aggressività, l’esempio riportato è quello della lotta rituale tra i cervi, a suon di cornate. Una lotta dura, ma senza spargimento di sangue. È lotta appunto ritualizzata, che non ha lo scopo di uccidere l’altro maschio ( ha ricordato un episodio in cui, durante la lotta, un cervo ha esposto all’altro il fianco, prestando appunto il fianco ad un possibile attacco fatale; l’altro cervo, invece, ha semplicemente atteso che si rimettesse in posizione frontale per continuare la lotta a colpi di cornate!).
Tra i lupi, e i loro discendenti cani, la lotta ha sempre e solo lo scopo di stabilire una gerarchia, mai quello di uccidere l’avversario. Chi perde nello scontro, infatti, si mette pancia all’aria e mostra il suo punto più debole, cioè la giugulare. In nessun caso, in natura, il vincente approfitta della situazione per sferrare l’attacco fatale; anzi, il vincente è portato a quel punto ad offrire cure al perdente, trattandolo come un cucciolo che si offre per la pulizia, e molto spesso lo lecca in modo benevolente.
Solo cani deviati dalle “cure” umane, i cani addestrati per i combattimenti, arrivano ad uccidere l’avversario!
Per quanto riguarda l’altra funzione, cioè quella relativa al delimitare un territorio, Celli ha portato un esempio tratto dalla sua osservazione: il caso di un pettirosso che una volta insediatosi in un albero, reagiva in modo aggressivo nei confronti di tutti quegli uccelli che avevano una macchia rossa nel petto (cioè altri pettirosso). Il caso è simile a quello riportato da Tinbergen a proposito degli spinarelli, pesciolini con una macchia rossa che allontanano gli altri spinarelli, riconoscendoli solo per la macchia rossa (Tinbergen ha fatto degli esperimenti riproducendo sagome grossolane di un pesce con una macchia rossa ben evidente, dimostrando che quello era il segnale che attivava l’aggressività dello spinarello).
Ora in tutti questi casi l’aggressività svolge una funzione adattiva, cioè utile per la sopravvivenza della specie: nel primo caso è il più forte che può tramandare i suoi geni, rendendo la specie più adatta alla competizione per la vita; nel caso dei lupi, la gerarchia è funzionale alla vita del branco; nell’ultimo caso, l’allontanamento dei rivali da un certo territorio, è utile perché in questo modo gli individui che perdono la lotta, sono costretti ad occupare nuovi territori, diffondendo così la specie, che avrà più possibilità di sopravvivere.
Passiamo ora all’uomo. Esiste l’aggressività negli esseri umani? Gli studi etologici di Lorenz (in particolare è stato citato Il cosiddetto male del 1963, di cui Celli ha scritto l’introduzione nell’edizione italiana) offrono una risposta decisamente affermativa.
In questo scritto Lorenz sostiene che l’aggressività, al pari di altri istinti quali la sessualità o la territorialità, sia un comportamento innato, e come tale insopprimibile e spontaneo, impossibile da far derivare dai soli stimoli ambientali. Essendo un istinto innato, l’aggressività è in quanto tale “al di là del bene e del male”, componente strutturale di ogni essere vivente e svolgente un ruolo fondamentale nell’ambito dei processi evolutivi e quindi della sopravvivenza della specie. Lorenz sostiene altresì che gli stessi istinti “buoni”, ovvero quelli gregari e amorosi, derivino evoluzionisticamente dalla stessa aggressività, essendo modificazioni selettive di questa indirizzati a finalità differenti, tanto che sopprimere l’aggressività significherebbe sopprimere la vita stessa. Il libro suscitò polemiche violentissime, dato che Lorenz non limitò le sue riflessioni all’ambito animale, ma le estese anche a quello umano e storico-sociale. Le accuse si sprecarono e la polemica, dal terreno scientifico, su cui Lorenz intendeva mantenerla, scivolò, com’era prevedibile, su quello politico ed ideologico: gli diedero del razzista e del guerrafondaio. In realtà il proposito del testo era quello di criticare le correnti comportamentiste e behavioriste, allora molto in voga, secondo cui tutti i comportamenti derivano in ultima analisi dalle influenze e dagli stimoli ambientali, modificati i quali sarebbe possibile modificare gli stessi comportamenti, aggressività inclusa. Per i comportamentisti, quindi, non vi sarebbe nulla di innato. Lorenz, al contrario, considera l’istinto un dato originario, geneticamente condizionato: in quanto tale, esso vive di vita autonoma, non vincolandosi necessariamente all’azione di quelle influenze ambientali aventi la funzione di stimoli scatenanti. Anzi, secondo Lorenz più un istinto non trova occasione di scatenamento, più aumenta la possibilità che esso si scarichi prima o poi in maniera ancor più dirompente, anche in assenza degli stimoli corrispondenti. Lungi dal costituire un’apologia della violenza e della guerra, l’opera di Lorenz intendeva innanzi tutto mettere in guardia da ogni posizione utopica circa la convivenza umana e la risoluzione dei conflitti, risoluzione che, per essere realistica e antropologicamente fondata, non poteva prescindere da dati e analisi che egli riteneva incontrovertibili. Al contrario, proprio la mancata conoscenza del funzionamento dei comportamenti innati poteva portare a risultati opposti a quelli auspicati, finendo per favorire proprio l’innesco di comportamenti deleteri per la pacifica convivenza. Sostenendo l’impermeabilità di fondo ai condizionamenti ambientali degli istinti basilari dell’uomo come di tutte le specie animali, Lorenz vuole evidenziare così le illusioni insite nella convinzione secondo cui l’educazione e la trasformazione dell’assetto politico-sociale sarebbero di per sé sufficienti a modificare e plasmare i comportamenti umani. E questo non perché egli negasse ogni valore alla cultura o alla dimensione spirituale dell’uomo, quasi a volerlo ridurre ad un animale tra i tanti e per ciò vincolato esclusivamente ai suoi istinti. Critico di ogni antropologia che risentisse del mito rousseauiano del “buon selvaggio”, egli sottolineò piuttosto come la “pseudospeciazione culturale” tipica della specie umana ha portato i gruppi umani – siano essi i clan, le tribù, le etnie o le moderne nazioni - una volta raggiunto un determinato grado di differenziazione reciproca, a relazionarsi in modo molto simile a quello delle specie animali più evolute, specie tra le quali, come accennato sopra, la conflittualità intraspecifica gioca un ruolo fondamentale all’interno dei processi adattativi. Lorenz evidenzia come diversi comportamenti risalenti a fattori culturali rivelino una fenomenologia sorprendentemente simile a quelli di origine genetica, facendo risaltare così una certa convergenza tra le dinamiche animali e quelle umane, convergenza che non riguarda solo l’aggressività, ma anche fenomeni come la territorialità, l’imprinting, il gioco ed i riti.
Anche gli studi di Eibensfeldt (Amore e odio 1971) portano alla stessa conclusione: una pulsione aggressiva innata esisterebbe anche in quelle popolazioni indicate come particolarmente miti dagli studi antropologici.
Mi sembra utile fare una breve parentesi per operare una distinzione tra pulsione e istinto: parlare di pulsione nei comportamenti degli esseri umani è, infatti, probabilmente più corretto. Come ci ricorda Galimberti nel suo Dizionario di psicologia, riprendendo la distinzione operata da Freud: “ L’istinto è concepito da Freud come un comportamento animale fissato dall’ereditarietà, caratteristico della specie, preformato nel suo svolgimento e adattato al suo oggetto; la pulsione invece è una costituente psichica che produce uno stato di eccitazione che spinge l’organismo all’attività, anch’essa geneticamente determinata ma suscettibile di essere modificata nell’esperienza individuale.”
In altri termini, quando si parla di uomo va sempre tenuta presente la dialettica natura/cultura, dove la cultura è diventata una seconda natura in grado di plasmare, almeno in parte, gli istinti.
Eibensfeldt, infatti, ci ricorda gli studi antropologici di Margaret Mead (Sesso e temperamento 1967) in cui la ricercatrice ha studiato diverse società della Nuova Guinea, osservando che l’aggressività in queste società si manifestava in modo molto diverso: gli Arapesh, ad esempio, risultavano essere particolarmente miti; mentre i Mundugumor mostravano comportamenti fortemente aggressivi e crudeli. Eibensfeldt nota che questo carattere degli Arapesh, in realtà, non indica l’assenza di aggressività, ma una diversa “gestione” dell’aggressività in quella cultura: “Come esempio di attaccamento alla pace determinato culturalmente vengono spesso indicati gli Arapesh della Nuova Guinea, ma anche costoro (che, a quanto se ne dice non vengono mai alle mani) non sono privi di aggressività: Margaret Mead scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti: se due ragazzi, mentre giocano, vengono a lite, subito interviene un adulto e li separa: l’aggressore viene allontanato dal luogo di gioco e trattenuto; egli può poi battere i piedi per l’ira, gridare, rotolarsi nella sporcizia, gettare a terra pietre e ceppi di legno, ma non può toccare altri ragazzi!”.
Queste osservazioni suggeriscono alcune considerazioni relative all’educazione: una cultura, e l’ educazione che ne deriva, possono incidere sulla modalità di gestione dell’aggressività e canalizzarla diversamente, impedendo di scaricarsi in forma violenta su altri esseri umani.
Ora, una volta stabilita la presenza di aggressività negli esseri mani (affermazione che anche Freud sottoscriverebbe!), cosa la differenzia dalle manifestazioni che abbiamo sommariamente descritto a proposito degli animali?
La differenza fondamentale è che l’uomo arriva, come ben sappiamo, ad uccidere altri uomini! Cioè, al contrario degli animali, arriva ad infliggere danni irreparabili (in base a questa considerazione non possiamo certo vantare la nostra superiorità come specie homo sapiens! ).
Come è nata questa degenerazione dell’aggressività in violenza? Una spiegazione, che Celli ha definito di carattere “storico” ma forse sarebbe meglio definire “storico-tecnologica”, sarebbe quella che vede nell’invenzione di nuove armi, strumenti di morte sempre più raffinati che consentono l’ uccisione del nemico da una distanza crescente, il fattore che ha fatto saltare i naturali meccanismi di inibizione, presenti probabilmente nella primitiva lotta corpo a corpo. Si sarebbe creata, così, una crescente deresponsabilizzazione di colui che usa le armi per colpire persone sempre più distanti: chi ha sganciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki, oltre ad avere delle forti motivazioni ideologiche, sarebbe stato “facilitato” dal fatto che viaggiava a qualche migliaio di metri ed ha dovuto semplicemente premere un pulsante.
Questa spiegazione coglie sicuramente aspetti di verità. Mi viene da pensare che, se per la semplice “predazione”, noi dovessimo uccidere con le nostre mani gli animali da mangiare, probabilmente crescerebbe il numero di vegetariani!
Una diversa osservazione riguarda la diversità culturale nell’affrontare l’aggressività e la sua degenerazione in violenza: esistono culture che enfatizzano la competizione e la violenza, a scapito dell’empatia e della cooperazione, forze anch’esse profondamente umane, senza le quali non esisterebbero le nostre società!
Il discorso di Celli, con un salto apparentemente arbitrario, si è concluso con osservazioni riguardanti i mass media e la comunicazione pubblicitaria. Ma proprio l’ultima considerazione fatta a proposito dell’influenza culturale su determinate pulsioni ( si può forse dimenticare come la comunicazione pubblicitaria solletichi continuamente la pulsione sessuale?) ci offre la chiave per spiegare il salto: i mass media e la pubblicità sono micronarrazioni mitiche dove le pulsioni sessuali e aggressive vengono continuamente sollecitate.
Se l’aggressività è una pulsione umana ineliminabile, bisogna interrogarsi seriamente su come questa pulsione possa essere gestita in modo non distruttivo, così come ci insegnano i nostri parenti animali!

martedì 11 maggio 2010

Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen


"Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen" è un bel documentario, raccontato in prima persona, dalla diciannovenne regista Laura Halilovic.
Laura è l'unica figlia femmina della famiglia Halilovic, una famiglia Rom arrivata in Italia dalla Bosnia negli anni Sessanta. La sua voce narrante, che accompagna tutte le scene del film, talvolta chiarendone il senso, altre volte facendo da contrappunto ironico, ci parla della sua storia e della storia della sua famiglia.
Laura confida subito la sua precocissima passione per il cinema: a nove anni addirittura s’innamora della “voce da cartone animato” di Woody Allen e sogna ben presto di diventare regista. “Caro Woody”: così inizia la lettera indirizzata al suo regista preferito, che è un po’ come il messaggio nella bottiglia affidato alle correnti del mare. Lei stessa commenta scettica la possibilità di una risposta di Allen, quando controlla la sua buchetta delle lettere. Lo incontrerà, però, sul tappeto rosso di Venezia: Woody si avvicina, lei non riesce a parlare, lui prende la penna di Laura, firma un autografo e se ne va…con la penna di Laura! (Ciack! Potrebbe essere una scena alla Woody Allen!”).
Anche se Woody Allen non ha tenuto a battesimo questa brillante regista, orgogliosamente ROM, la fortuna, del tutto meritata, le ha risposto: il suo primo lungometraggio è passato su RAI 3 e ha ricevuto diversi riconoscimenti.
Ritorniamo alla storia…
Laura ripercorre il difficile passaggio della sua famiglia, dalla vita nei campi a quella in una casa popolare di Torino, con i genitori che, abituati alla vita all’aria aperta, faticano ad abituarsi, come oppressi dalle quattro mura di un appartamento.
Sua madre, ha raccontato la regista nel suo intervento dopo la proiezione, per superare il senso di claustrofobia, inizialmente stava fuori di casa tutto il giorno!
Questo evento, quindi, è come se segnasse nella sua vita una cesura: l’infanzia, nel campo, a stretto contatto con la sua comunità e, poi, la vita in appartamento. Una cesura per certi aspetti difficilmente superabile: gli zii e la nonna, infatti, vivono ancora in un campo, costantemente minacciato di sgombero (curioso, perché il terreno su cui sorge il campo è di proprietà dello zio!).
Nel documentario le difficoltà di relazione con i gagè (così vengono chiamati tutte le persone che non sono rom) accompagnano Laura sin dall’infanzia: il suo ingresso nella scuola elementare, infatti, è subito traumatico: “Ci mancava solo una zingara!” è uno dei primi commenti che riceve. A scuola fissava la finestra, assente, e all’uscita correva in lacrime tra le braccia della madre.
Nel suo intervento, dopo la proiezione, Laura ha raccontato una brutta storia, che non fa onore alla nostra tradizione nell’ integrazione scolastica: nella sua scuola elementare, dice, avevano formato una specie di “classe differenziale” per lei e i suoi coetanei rom…
Eppure, la sua voglia d’integrarsi è palpabile, nel suo buon italiano (malgrado abbia frequentato la scuola solo fino alla terza media), nei suoi abiti, nelle sue scelte di vita. Si, queste ultime sono molto importanti: Laura, a più riprese, nel documentario è sollecitata dal padre e dalla madre a sposarsi; nella tradizione rom, infatti, è normale sposarsi a 15-16 anni…a 18 anni (la sua età quando è stato girato il documentario) rischia di essere già troppo vecchia!
Così la vita di Laura sembra come in bilico tra una “italianità” conquistata a duro prezzo (dice comunque di non sentirsi del tutto accettata e fa riferimento al fatto che pur essendo nata in Italia non ha nazionalità italiana) e un rivendicare orgoglioso le proprie radici rom, che lei stessa tradisce.
Davanti al commento di una persona in sala, che chiede come si sente Laura ad allontanarsi dalla sua tradizione, vorrei rispondere al posto suo: “Benedette siano le ibridazioni e le mescolanze!”.
Si, proprio quelle mescolanze che la tradizione rom non vuole, almeno per le femmine: i maschi, infatti, possono sposare le gagè, che vengono accettate nella comunità, ma il contrario non è ammesso e viene punito con l’ostracismo.
Ma Laura, oltre a rifiutare il matrimonio, voleva fare la regista! Un’ impresa dura convincere il padre…
Solo quando il suo film è passato alla RAI e il padre ha visto il nome di Laura scorrere nei titoli di coda, ha capito che era orgoglioso di lei e non l’avrebbe ostacolata…
Il suo desiderio di fare la regista, comunque, non è un vezzo da adolescente.
Stupisce infatti la serietà delle sue motivazioni:
“ La mia passione per la regia é nata quando avevo nove anni... Voglio fare un documentario sui Rom per far conoscere agli altri la nostra vita. I Rom, o come vengono chiamati con un tono dispregiativo, gli Zingari, per la maggior parte vivono nelle case, i loro figli vanno a scuola, a differenza di quello che tutti credono, solo alcuni di loro vivono ancora girando come facevano una volta. Sono stati fatti film e documentari sulle loro usanze, sul loro modo di vivere, ma nulla in cui loro possano veramente riconoscersi. I registi e gli sceneggiatori presentano il mondo dei Rom con idee ancora molto stereotipate.”
Brava Laura, continua a raccontarci di te e del tuo popolo!

mercoledì 5 maggio 2010

Kitchen stories


Siamo negli anni '50. In uno sperduto paesino della Norvegia giungono dalla vicina Svezia un gruppo di ricercatori incaricati dal governo del loro Paese di svolgere un'indagine sociologica. Oggetto dello studio è il comportamento delle persone nello spazio della propria cucina, i loro movimenti, le loro abitudini, i loro costumi. Forti di una analoga esperienza compiuta in Svezia, devono ora confrontarla con il comportamento di questo borgo norvegese abitato solo da uomini single.
Il regista norvegese Bent Hamer, ci dice, è partito da uno studio realmente compiuto in Svezia da studiosi appartenenti all'Istituto Svedese per la ricerca Domestica. Lo scopo era quello di ottimizzare i movimenti in cucina delle casalinghe, i cui spostamenti erano riportati in un diagramma che vediamo riprodotto anche nel film, al fine di fare in modo che le casalinghe svedesi "anziché camminare l'equivalente di un viaggio dalla Svezia al Congo avrebbero potuto camminare solo la distanza di un viaggio fino al Settentrione d'Italia".
Folke (Tomas Norstrom) è uno dei tecnici incaricati di effettuare le rilevazioni. Si installa in casa di Isak. (Joachim Calmeyer, uno dei massimi attori norvegesi), appollaiato su un seggiolone da arbitro di tennis, dall'alto del quale osserva ed annota tutti i movimenti del suo padrone di casa. Con un ritmo lento, e la quasi totale assenza di dialoghi, Hamer ci racconta degli sviluppi dei rapporti tra i due uomini, dapprima improntati alla diffidenza per poi approdare, approfondendosi la conoscenza reciproca, ad un rapporto di amicizia e calorosa solidarietà.
È una storia di solitudini, quella raccontata dal regista norvegese, fredde come la neve che circonda la stamberga di Isak. Ma il film, del quale è da lodare l'accurata ricostruzione degli ambienti, è anche una critica alla presunta infallibilità del "positivismo" che animava, ed anima, le indagini sociologiche di questo tipo. Sistema che, invece, trova proprio nell' "umanità" dell'operatore la propria fallibilità. I ruoli rischiano di invertirsi, ed è proprio quello che accade nel film, quando l'osservatore comincia a sentirsi osservato in un gioco sottile del "chi osserva chi".
Al di là del valore artistico del film, comunque ben girato e di gradevole fruizione, è interessante la riflessione epistemologica che il film propone:
è utilizzabile l’osservazione distaccata (rappresentata nel film dal seggiolone su cui siede l’osservatore Folke) di tipo etologico per conoscere l’agire umano? La risposta del film sembra essere del tutto negativa. Esiste il problema dell’interferenza dell’osservatore che viene rappresentata dal continuo sfuggire di Isak all’osservazione di Folke. Anzi, ci sarà un capovolgimento paradossale: Isak praticherà infatti un foro nel soffitto proprio sopra Folke e ne studierà il comportamento. La situazione assurda e surreale si scioglierà quando, a partire da qualche scambio di oggetti (il lancio del tabacco da pipa di Folke a Isac rimasto senza), si verrà a creare un rapporto umano sempre più stretto tra i due. Una frase emblematica di Isak offre una chiave del film: “non si può conoscere se non si comunica!”.
Insomma, è come se si affermasse la validità dell’osservazione partecipante propria dell’antropologia su quella di tipo “positivitica” da animali in laboratorio. Il freddo distacco cede il posto ad un rapporto umano tra due solitudini, fatto di empatia e di calore che porterà Folke a festeggiare il compleanno di Isak, portandogli una torta con tantissime candeline. Il cerchio si chiude quando alla morte di Isak, Folke andrà a vivere nella sua casa. È un po’ il rischio dell’antropologo che entrando nel vivo di una cultura altra, può finire per non tornare indietro.