Premessa
Questo articolo prende le mosse dall’intervento di Andrea Rapini, storico e ricercatore presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, presente durante l’incontro di giovedì 20 maggio 2010 del Maggio Filosofico, tenutosi a Rastignano (BO).
Il tema dell’incontro era: “I giovani e la violenza politica nel novecento”. Non intendo in questa sede ricostruire in modo puntuale i contenuti trattati, molto ricchi e, in alcune parti, complessi; cercherò invece di agganciare alcuni stimoli raccolti, per collegarli al tema delle subculture giovanili e delle controculture nel loro rapporto con la violenza.
Rapini, dopo l’excursus storico condotto magistralmente da Luca Alessandrini
incentrato sulla violenza dei giovani dalla fine dell’ottocento fino agli anni ’70 del novecento, ha focalizzato il suo discorso sul ’68 e la nascita dei movimenti studenteschi all’interno delle Università, identificando diverse fasi di sviluppo del movimento. Al principio, come vedremo anche nella ricostruzione del movimento negli USA, l’interesse dei giovani studenti è centrato prevalentemente su questioni interne alla vita universitaria; successivamente uscirà da questi confini per congiungersi, infine, con le lotte operaie.
Anticipo fin d’ora che il collegamento tra movimenti studenteschi degli anni ‘60 e la violenza va ben specificato, per non incorrere in una generalizzazione impropria. Come vedremo nella breve ricostruzione della storia del movimento studentesco negli USA, all’inizio il movimento si caratterizza per una forte impronta non violenta, e solo tra il ’67 e il ’68 si fa strada l’opzione violenta.
Definizione di Subcultura
Iniziamo con una prima precisazione terminologica, citando la voce subcultura dal Dizionario di Sociologia di Gallino:
Sottoinsieme di elementi culturali sia immateriali che materiali –valori, conoscenze, linguaggi, norme di comportamento, stili di vita, strumenti di lavoro- elaborato o utilizzato tipicamente da un dato settore o segmento o strato di una società: una classe, una comunità regionale, una minoranza etnica…Mentre ne condivide alcuni tratti essenziali, tale sottoinsieme di elementi culturali si caratterizza entro il maggior insieme della CULTURA dominante, in certi casi, per esserne una variante differenziata o specializzata, come sono per lo più le S. professionali, oppure un elemento storicamente costitutivo, come le S. regionali o etniche; in altri casi, per il fatto di presentarsi come una forma di deviazione o di opposizione, reale o apparente, nei suoi confronti. È il caso della S. criminale o, per un altro verso, della S. giovanile. Tuttavia, quando una S. incorpora nella quasi totalità elementi che si presentano o sono percepiti come radicalmente opposti alla cultura dominante, si tende a chiamarla piuttosto CONTROCULTURA(corsivo nostro).
In base a questa definizione, quindi, si può operare una prima distinzione tra subcultura e controcultura.
Con il termine subcultura si può intendere un insieme di elementi culturali che non sono propri di tutti i membri di una data società, ma solo di una parte di essi; quando si parla di subculture giovanili si fa riferimento ad una molteplicità di culture adolescenziali, spesso antagoniste tra loro, che manifestano la propria particolarità con specifici gusti musicali e nell'abbigliamento. Il loro minimo comune denominatore è l'opposizione alla cultura adulta. Nonostante ciò, i valori dominanti all'interno delle subculture giovanili sono fortemente condizionati dalla cultura adulta di provenienza: basti pensare all'importanza della variabile razziale nella formazione di molte sottoculture giovanili, specialmente negli Stati Uniti.
Il termine controcultura indica, invece, un certo tipo di subcultura giovanile sviluppatasi negli anni Sessanta in Europa e in America il cui scopo era quello di porsi in aperto e radicale contrasto con la cultura dominante e adulta, aderendo a valori e modi di vita alternativi: il nomadismo, la libertà sessuale, la non-violenza e l’antimilitarismo, l’uso di droghe, il comunitarismo, la religiosità orientale, la musica pop e rock.
Subculture giovanili e conflitti intergruppi
Cerchiamo di vedere ora il collegamento tra subculture giovanili e violenza. Per trattare il tema del rapporto subculture giovanili e violenza, credo sia necessario, innanzitutto, analizzare le dinamiche psicologiche e sociali dei gruppi adolescenziali.
L'importanza dei gruppi di coetanei nella società urbana post-industriale è senza precedenti: svolgono, infatti, un ruolo insostituibile nel processo di emancipazione dell'adolescente- "emancipazione" è qui da intendere nel senso etimologico del termine come "liberazione dalla manus , ovvero dalla soggezione alla patria potestà"-. L’adolescente, infatti, attraversa nelle nostre società una fase della propria vita particolarmente delicata dal punto di vista della costruzione della propria identità: il corpo cambia e spesso si fa fatica a riconoscersi nei cambiamenti; l’adolescente, con la pubertà, raggiunge la maturità biologica (la capacità di riprodurre), ma al contempo, dal punto di vista sociale e politico, è ancora considerato immaturo e irresponsabile (ad esempio, non può votare o guidare la macchina prima dei 18 anni…) ; l’uscita dall’infanzia e il processo di emancipazione, infine, comportano una ricerca di nuovi modelli d’identificazione e il gruppo di coetanei svolge in questo senso una funzione insostituibile.
Il problema dell’identità si pone, quindi, a più livelli: identità in relazione al corpo e al genere (“Sono un bambino-a o un uomo-donna?”; “Che tipo di uomo o donna sono?”); identità personale come senso di continuità attraverso il tempo e distinto dagli altri (“Qual è la parte di me che rimane costante nel cambiamento – da infante a ragazzo/a - e mi fa dire io sono questo/a e non un altro/a?”); identità sociale intesa come risposta alle domande relative alla collocazione sociale (“Qual è il mio ruolo?”), professionale (“Cosa farò da grande?”) e ideologica (“Quali sono le cose in cui credo?”).
E.Erickson ha sottolineato l’importanza del passaggio dal concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori al concetto di sé ricavato dal giudizio dei coetanei, per i quali sono decisivi l’aspetto fisico, la capacità intellettuale, l’attrazione sessuale che prima erano del tutto estranei alla considerazione di sé. È facile che l’insicurezza in relazione al corpo e alla sua immagine, alle possibilità concrete o percepite di essere attrattivi, o relative alle proprie prestazioni cognitive possano provocare ansia e reazioni compensative (es. atti di coraggio fisico). Un atteggiamento iperprotettivo dei genitori in questa fase, d’altra parte, può portare alla costruzione di una identità negativa, che si caratterizza per una decisa opposizione al mondo degli adulti.
Il gruppo dei coetanei (con i suoi linguaggi, i suoi valori, i suoi segni esteriori) costituisce una alternativa alla famiglia e al mondo adulto e svolge, così, un ruolo cruciale nel processo di costruzione dell’identità. D’altro lato, si può dire che l’identificazione con il gruppo porta l’individuo a categorizzare il proprio gruppo (ingroup) differenziandolo dagli altri (outgroup) e ad associare alla differenziazione un giudizio di valore. L’individuo tende, così, a massimizzare le differenze intergruppi (tra il suo e gli altri gruppi) e ad accentuare le somiglianze intragruppo (tra i membri del suo gruppo), assegnando valori e significati positivi al proprio gruppo e, quindi, a se stesso. Il fenomeno del favoritismo nei confronti del proprio gruppo, e della discriminazione verso altri gruppi spesso ad essa connessa, si spiega a livello individuale con il bisogno da parte del soggetto di accrescere la propria identità sociale positiva. Quindi, il differenziare in senso positivo il proprio gruppo risponde ad un bisogno individuale, strettamente connesso con la formazione dell’identità sociale.
Apro una breve parentesi per osservare che l’abito riveste nelle subculture giovanili una particolare importanza: è il segno visibile di una appartenenza e stabilisce il confine tra noi/loro. In questo senso, nelle subculture giovanili si recupera il valore tradizionale dell’abito proprio delle società prerinascimentali e di molte culture tradizionali: l’abito, cioè, è il significante visibile di una certa appartenenza sociale.
La somiglianza tra l'uso dell'abito nelle culture tradizionali e nelle subculture giovanili è da ricercare in un rapporto cultura-abito tale da rendere l'abito segno esteriore e immediato di una particolarità culturale . Per quanto riguarda le subculture, basti pensare all'equazione che si viene a stabilire tra sfera vestimentaria e valoriale nel movimento hippy: caffettano + fiori + collanine = hippy = love and peace.
La nascita del fenomeno Moda in età rinascimentale rinascimentale crea, invece, una frattura tra significante e significato. A titolo di esempio, si pensi al “look country” di una certa collezione di moda: l’abito “country” in questo caso non significa che chi lo indossa sia contadino o lavori in campagna. L’abito nella Moda è significante vuoto. Si può dire, invece, che la moda presa nel suo complesso costituisca una celebrazione del Nuovo, dove “Nuovo=Meglio”. In questo senso la Moda è figlia di una cultura che celebra il Progresso illimitato come fine in sé.
Torniamo ora alle dinamiche psico-sociali nei gruppi adolescenziali. L’esito dei confronti intergruppi (noi/loro) riveste per il singolo un’importanza decisiva, in quanto contribuisce indirettamente al consolidamento della propria autostima. Se il proprio gruppo è superiore agli altri, gli appartenenti al gruppo potranno godere indirettamente di maggior prestigio e considerazione. Questo bisogno di avere un concetto di sé positivo induce spesso l’individuo, nel differenziare in senso positivo il proprio gruppo, a distorcere i confronti intergruppi, e può condurre molto facilmente al pregiudizio sociale e a manifestazioni violente verso gli altri gruppi, giungendo ad azioni sociali discriminatorie e distruttive.
A questo proposito, faccio riferimento allo studio di Stan Cohen (1972) sugli scontri tra i mods e i rockers avvenuti in Inghilterra, nei primi mesi del 1964. Questo lavoro mette in luce il ruolo dei media nell’organizzazione della reazione sociale alla devianza, riprendendo i temi preannunciati da Turner e Surace relative alla subcultura degli zooters negli USA(1956).
Nella primavera del 1964 alcuni gruppi sia di rockers che di mods andarono a passare una giornata al mare nella località di Clacton, a circa due ore di viaggio da Londra, e lì scoppiarono delle risse fra i due gruppi. Il giorno successivo la stampa popolare mise gli incidenti in prima pagina e, rifacendosi all'iconografia delle gang di strada di New York, li presentò come furiose battaglie fra bande rivali organizzate. Questo atto di labelling (etichettamento ) ebbe, secondo Cohen, due grossi effetti: in primo luogo, fece scattare l'allarme sociale, costringendo la polizia a intensificare la sorveglianza dei due gruppi, (ne derivarono arresti più frequenti che finirono con l'alimentare l'allarme iniziale); in secondo luogo, evidenziando le differenze di stile e dando rilievo all'antagonismo fra i gruppi, la pubblicazione incoraggiò i teen-agers a pensare se stessi negli stessi termini in cui le due sub-culture venivano descritte (questo, insieme alla solidarietà di gruppo creata dalla comune soggezione alle interferenze poliziesche, polarizzò sempre di più le due subculture). La convergenza di questi processi produsse ulteriori scontri fra i gruppi, attirando ulteriori attenzioni da parte della stampa e scatenando ulteriore allarme nel pubblico.
Non approfondiamo in questa sede un tema così ampio come quello del rapporto tra devianza e controllo sociale. Quel che ci premeva mettere in evidenza citando lo studio di Cohen è che nell’ambito delle subculture giovanili è sicuramente presente il tema della violenza. In particolare, nel caso preso in esame, siamo davanti al ricorso alla violenza all’interno di un conflitto intergruppo tra subculture giovanili.
La controcultura anni ’60 negli USA
Passiamo ora all’analisi del rapporto controcultura e violenza, ricostruendo in particolare il contesto storico e sociale della nascita del movimento studentesco a metà degli anni ’60 negli USA. Nel dopoguerra, l’istruzione primaria generalizzata, cioè l’alfabetizzazione di base, divenne l’aspirazione di tutti i governi. L’alfabetizzazione fece progressi sensazionali, in particolare nei paesi rivoluzionari governati dal comunismo. Si moltiplicarono anche le iscrizioni alle scuole secondarie e all’università.
L’esplosione degli iscritti all’università fu impressionante: prima della seconda guerra mondiale in Germania, Francia e Gran Bretagna la popolazione degli studenti universitari in rapporto alla popolazione complessiva era di uno studente per mille abitanti (la somma della popolazione dei tre paesi era 150 milioni, mentre la somma degli studenti era 150.000); alla fine degli anni ’80 gli studenti si contavano a milioni.
L’aumento della popolazione di studenti universitari provocò fenomeni inattesi sul piano sociale, culturale e politico. Infatti, è innegabile che solo con gli anni ’60 gli studenti divennero, sia socialmente sia politicamente, una forza importante, come dimostrò al di là di ogni statistica la ribellione studentesca del 1968 che ebbe estensione mondiale. Riporto a questo proposito un passaggio da Il secolo breve di Hobsbawn.
…Queste masse di giovani uomini e donne con i loro insegnanti, calcolabili in milioni o almeno in centinaia di migliaia di unità, sempre più concentrati in grandi e spesso isolati campus o <
Può essere sorprendente la constatazione che giovani uomini e giovani donne che si trovano a vivere in una fase di boom economico e che hanno l’occasione, con gli studi universitari, di cambiare in meglio la propria posizione sociale, coltivino ideali politici radicali di sinistra. Prima della seconda guerra mondiale, infatti, la grande maggioranza degli studenti nell’Europa centrale e occidentale e nel Nordamerica era apolitica o di destra. Così, paradossalmente le agitazioni studentesche si collocano proprio all’apice del boom economico.
Vediamo di capire meglio le ragioni della nascita del movimento studentesco negli USA. Al principio il movimento è totalmente interno alle Università e solo in un secondo tempo uscirà da questi confini. La prima rivolta, che prese il nome di Free Speech Movement, si scatenò a Berkeley nel settembre del 1964 quando le autorità amministrative vietarono la raccolta di fondi per una causa politica esterna alla vita dell'università. Il vero oggetto d'interesse per il Movimento è, innanzitutto, il rapporto tra studenti e sistema formativo. Poter contare all'interno della struttura scolastica, diventando protagonisti di un processo che riguarda la propria vita, è una esigenza fortemente avvertita. Si afferma, infatti, la percezione che il processo educativo americano sia una crudele cerimonia iniziatica. Nell'articolo di Weinberg "Il Free Speech Movement e i diritti civili", contenuto nella raccolta L'altra America degli anni'60 vol. 1, a cura di F. Pivano, leggiamo:
Due dei temi più fondamentali che hanno cominciato a manifestarsi nei primissimi discorsi della protesta e che hanno continuato a occupare una posizione centrale anche in seguito sono stati la condanna della concezione dell’università come fabbrica di sapere e la richiesta che gli studenti siano ascoltati. Questi due temi di protesta sono stati accolti così bene a causa della sensazione generica diffusa tra gli studenti che l’università li ha condannati all’anonimato; che hanno scarsissime probabilità di controllo sul loro ambiente e sul loro futuro; che la società universitaria è quasi completamente sorda ai loro bisogni individuali. Gli studenti lamentano la mancanza di contatti umani, la mancanza di comunicazione, la mancanza di dialogo che esiste all’università. Molti ritengono che una gran parte dei programmi dei rispettivi corsi sia di scarso interesse, che molti dei compitiu più difficili loro assegnati siano esclusivamente costituiti da tediose sgobbate di valore educativo scarso o nullo. Troppo spesso, nel corso degli studi, lo studente deluso, in un momento di amarezza, si chiede: “A che cosa porta tutto questo?” In un lampo di intuizione, lo studente vede il processo educativo come una crudele cerimonia iniziatica: l'istruzione che conduce al conseguimento del diploma di graduation appare un rito per mettere alla prova la capacità di sopportazione del candidato, una serie di prove che, se superate con successo, consentono l'ingresso ai corsi della graduate school; e, a quelli che sono riusciti a passare indenni attraverso le prove dell'intero rito, è concesso il titolo pomposo: il Ph.D. Più uno emerge, migliore è il posto di lavoro che ottiene...Troppo spesso il processo educativo appare come un'eliminatoria, regolata dalle leggi della domanda e dell'offerta. Quanto meglio uno gioca la partita tanto meglio uno è compensato.
(tr. it. 1971, pp.134-135)
Il sistema educativo americano appare, quindi, come una istituzione che opera una “selezione naturale”, finalizzata all'emergere del più forte e poco preoccupata della crescita e della formazione culturale degli studenti. Lo scontento manifestato nel settembre 1964 trascende, quindi, l'episodio contingente. I circa quattro mesi di rivolta che seguono, permetteranno di ottenere spazi "liberi" e il diritto di organizzare “Teach In” su argomenti politici all'interno dell'università.
Il primo “Teach In” fu dedicato al Vietnam. L'impegno americano, infatti, era andato via via aumentando e nel 1965 erano cominciati i primi bombardamenti. Contemporaneamente erano iniziate e si erano estese le manifestazioni di protesta. Le matrici da cui muoveva il rifiuto per la guerra andavano moltiplicandosi: da un lato, c'erano vari comitati, più o meno affiliati ai vari movimenti radicali e antinucleari internazionali, che propugnavano una scelta pacifista e antinucleare per la società occidentale; dall'altro, si faceva strada un modello di pensiero aperto alle culture orientali e precapitalistiche. La scoperta della spiritualità e del misticismo orientale si unì, infatti, alla rilettura in chiave antropologica della mitica comunione con la natura delle popolazioni indiane d'America: l'insieme si formalizzò nella proposta di un "uomo nuovo", impegnato a ritrovare la propria interiorità e pacificamente inserito in un contesto naturale da osservare e rispettare.
I maestri del nuovo umanesimo furono i protagonisti della cultura alternativa del decennio precedente: Allen Ginsberg, Gary Snyder, Timothy Leary. La strada da percorrere verso l'ideale di "uomo nuovo" viene indicata con estrema chiarezza da Timothy Leary ( articolo riportato nell’antologia L’altra America negli anni ’60 vol. 1)
Dovete cominciare col cambiare il vostro abito, la vostra casa, i vostri movimenti, il vostro ambiente, in modo tale che rifletta la grandezza e la gloria della vostra visione divina. Dovete avere un aspetto diverso e agire diversamente. Ma questo processo di sintonizzazione dev'essere armonico ed elegante. Per favore nessun gesto distruttivo o ribelle!...Camminate, parlate, mangiate, bevete come se foste un felice Dio della foresta.
(op. cit., p. 185)
La prospettiva terrorizzante da cui si cerca di uscire con questa proposta di vita è quella esemplificata nella figura dell’impiegato di Manhattan, descritta da Leary in questi termini:
...lavora in una camera buia, che puzza di aria inquinata. Si muove in mezzo ad un ammasso di mobili anonimi e fatti in serie per andare in un bagno di celluloide o in una cucina impersonale di plastica. Fa una prima colazione a base di cibo-carburante anonimo, tolto da una scatola o impacchettato. Indossa la divisa anonima del cittadino-robot, biancheria di cotone, scarpe, camicia, cravatta e giacca. Viaggia in gallerie buie di metallo fuligginoso e di cemento grigio verso la scatola di alluminio che è il suo ufficio... Il denaro che guadagna gli serve per il suo cibo di celluloide e per il suo appartamento dall'aria inquinata. Quest'uomo è circondato da un ambiente grigio, inquinato, morto, impersonale, fatto da una catena di montaggio, prodotto in serie e anonimo. Questo è l'ambiente di un robot-meccanico.
(op. cit., p.184)
Per uscire da questo tunnel esistenziale ci si rivolge alle filosofie orientali e spesso si fa ricorso all'uso di sostanze stupefacenti -funghi sacri, marijuana, LSD-, in grado di provocare l'espansione dello spettro percettivo, fare esperienza di nuovi stati di coscienza e liberare grandi energie creative, prive di condizionamenti sociali.
Nel 1965, Ginsberg stila un programma per una grande manifestazione (articolo contenuto in L’altra America negli anni ‘60 vol. 1), cercando così di chiarire in modo inequivocabile a tutti le intenzioni e le modalità della riunione e impedire reazioni disordinate in caso di provocazioni:
La parata può diventare uno spettacolo esempio di come controllare situazioni di ansietà e paura/minaccia (quali lo Spettro degli Hell’s Angels o lo Spettro del Comunismo).
E manifestare con esempio concreto, vale a dire con la parata stessa, come trasformare la psicologia di guerra e superare, oltrepassare, la reazione-immagine-vizio di paura/violenza.
Vale a dire, la parata può realizzarsi come esempio di salute pacifica che è il contrario di un cieco combattimento contro combattimento.
Annunciate in anticipo che è una marcia sicura, portate la nonna e i bambini, portate famiglia e amici. Dichiarazioni aperte: "Non veniamo a combattere e non combatteremo"
(op. cit., p.263)
La manifestazione diventa una grande festa pacifica fatta di suoni, canti, colori e tantissimi fiori.
Il momento culminante del movimento è, però, il grande raduno del 14 gennaio 1967, tenutosi nel Parco del Golden Gate a San Francisco, vero e proprio centro della cultura alternativa giovanile. Questo grande rito collettivo si chiude, al tramonto, con Allen Ginsberg e Gary Snyder che salmodiano il mantra Om Sri Maitreya rivolti verso il sole, in una atmosfera di grande pace e poesia.
Da questo racconto della nascita del movimento credo emerga con tutta evidenza come questa controcultura, fortemente antagonista rispetto ai valori della cultura dominante, abbia scelto con nettezza l’opzione non violenta, non solo nelle dichiarazioni d’intenti ma anche nelle pratiche sociali cui ha dato luogo.
Bisogna considerare, d’altra parte, che il movimento hippy negli Stati Uniti rappresenta uno sviluppo piuttosto coerente dei valori alla base della subcultura beat degli anni 50 (non a caso Ginsberg è la figura ponte tra i due movimenti).
Per avere a questo proposito una idea più chiara, riporto un passaggio dell'articolo "Agnello, non leone", contenuto nella raccolta Scrivere bop, dove Kerouac chiarisce che:
Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato, la parola italiana per beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutto nella vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore. Come si può realizzare una cosa del genere nel nostro folle mondo moderno fatto di molteplicità e milioni? Praticando un pò di solitudine, andandosene da soli ogni tanto a far provvista della ricchezza più grande: le vibrazioni della sincerità. Essere seccati non è essere beat. Si può essere chiusi in se stessi ma ciò non significa necessariamente essere scontrosi. Il beat non è una forma di critica stanca e vecchia. E' una forma di affermazione spontanea. Che razza di cultura sarebbe se tutti con faccia rabbuiata dicessero"Questo non mi sembra giusto"?
(ibidem, 49-50)
Da queste parole emerge il profilo di un movimento che cerca una profonda rigenerazione spirituale, sia attingendo alle fonti più pure della religione cristiana sia cercando di avvicinare le filosofie orientali, in particolare il buddismo. Come nel movimento hippy, è una ricerca che propone valori profondamente antagonisti rispetto al materialismo consumista e al "carrierismo", che possiamo considerare fondanti dell'american way of life.
Ad un certo punto del Movimento, però, si inizia a parlare di violenza. Tutto questo lo possiamo desumere in modo molto chiaro dalle parole di Tuli Kupferberger nell’articolo “La politicizzazione di uno hippy” scritto il 4 agosto 1967 (L’alta America negli anni sessanta vol. 2)
Si, siamo impegnati, gente che sceglie tra due sistemi di vita, due ordini sociali, due concezioni. Abbiamo rinunciato alle norme morali e alle promesse insulse di una società malvagia. L’abbiamo abbandonata, fisicamente, intellettualmente, emotivamente, ed economicamente.
Ma ora l’epoca della protesta pacifica, nell’ambito della legge, l’epoca del dissenso è finita. Con i crani massacrati e col sangue l’America bianca è giunta alla conclusione che aveva cercato di evitare a tutti i costi. Che stiamo vivendo sotto un sistema di oppressione tirannico e violento che non si fermerà di fronte a niente per conseguire i suoi scopi, e che se desideriamo por fine alla distruzione della vita umana in patria e all’estero non abbiamo altra alternativa che iniziative illegali e violente. (corsivo nostro).
(op. cit., p. 193)
I nuovi sviluppi del Movimento sono rintracciabili nella Marcia della Pace sul Pentagono del 20-22 ottobre 1967, dove Jerry Rubin cercò di tirare le fila di tutti i canali di protesta, da quello non violento a quello violento. Tra l’ottobre del 1967 e l’agosto 1968 si portò a termine quel processo definito di “politicizzazione degli hippies”. Sono le giornate di Chicago dell’agosto ’68 a segnare la svolta.
Leggiamo dal resoconto di Tennis Frawley “Maiale a Chicago” scritto il 30 agosto 1968 (in L’altra America negli anni sessanta vol. 2).
I fatti di Chicago della settimana scorsa hanno creato una situazione bizzarra in America. Non è mai stato così evidente che il sistema politico del paese conta sulla forza per sopravvivere….Comunque dopo l’esperienza di Chicago dubitiamo che armi più letali non saranno usate dalle truppe disfatte dei giovani contestatori. La gomma da masticare e i giornali arrotolati sono di poca difesa contro la gestapo, e la filosofia delle Pantere Nere sembra avere più senso dopo questo confronto.
(op. cit., p.239)
Dopo questa premessa, da cui si evince un profondo ripensamento a proposito della filosofia della non violenza fin lì praticata, Frawley passa alla cronaca di quei giorni.
Giovedì
Il sangue cominciò a scorrere questo giovedì mattina…quando un indiano americano del Sud Dakota di 17 anni fu ucciso da una fucilata nella Old Town…Dean Johnson, il ragazzo indiano, era stato sballottato al punto da volersi difendere. La gente dice che fu stupido da parte sua far fuoco sul poliziotto. Forse fu stupido – ma coraggioso….La pistola del ragazzo non funzionò e fu ucciso mentre cercava di fuggire.
…
Martedì
Alle 11 di mattina grandi dosi di gas lacrimogeni furono usate al Lincoln Park, e a manganellate furono attaccati e fatti allontanare alcuni esponenti del clero che s’erano uniti ai dimostranti pregando. In serata arrivarono Bon Seale e le Pantere Nere e Seale tenne un discorso stimolante che fu ben accolto. Seale suggerì che non bisognava più percorrere la città in grandi gruppi ma in gruppetti armati di tre o quattro in tutta la città – e parzialmente questa tattica fu adottata per le dimostrazioni al Grant Park…
Mercoledì
Il fronte si era spostato al Grant Park dove 15.000 persone dimostravano contro il quartier generale del Partito Democratico. La dimostrazione fu caratterizzata dai lacrimogeni, da brutali bastonature, e da molto movimento per le strade…Chicago ha reso più evidente al movimento la futilità della non militanza. La gioventù è più decisa che mai. La macchina del braccio forte del sindaco Daley, una reazione alla reazione personale di Daley al dissenso, rappresenta il punto chiave dell’organizzazione giovanile della resistenza armata. Il consumatore deve morire di morte violenta.
(op. cit., pp.239-244)
A conclusione di questo lungo articolo, si può dire che il movimento giovanile, nato in ambito universitario a metà degli anni sessanta negli USA, si è caratterizzato al principio da forme di lotta non violenta, ma nel corso della sua evoluzione, davanti alla repressione violenta delle forze dell’ordine, e con la saldatura di gruppi come le Pantere Nere, ha cambiato gradualmente la sua fisionomia, si è “politicizzato”, arrivando alla pratica della resistenza violenta.
Riferimenti bibliografici
Cohen S.
1972 Folks Devils and Moral Panics, MacGibbbon and Kee, London
Erickson E. H.
1974 Aspetti di una nuova identità, Armando, Roma
Galimberti
2006 Dizionario di Psicologia, (voce Identità), De Agostini, Novara
Gallino L.
2006 Dizionario di Sociologia, Utet, Torino
Hobsbawn E. J.
2007 Il secolo breve, Burexploit Rizzoli, Milano
Kerouac J.
1996 Scrivere Bop, Mondadori, Milano
F. Pivano (a cura di)
1993 L’altra America negli anni sessanta, vol. 1-2, Arcana, Milano
Concordo pienamente con l'orientamento dell'articolo (e anzi mi stupisco che se ne sia sentita la necessità), ma vorrei soffermarmi un attimo sulla parte iniziale - la definizione di subcultura - su cui ho un dubbio che forse voi potete sciogliere.
RispondiEliminaDa definizione infatti sembra che la subcultura caratterizzi "un dato settore o segmento o strato di una società: una classe, una comunità regionale, una minoranza etnica", ossia un gruppo di persone che ha già qualcosa in comune, a cui si aggiunge come conseguenza anche una data cultura, differente da quella generale.
La subcultura hippie invece, come molte altre, mi sembra non si presti a questa interpretazione, poichè quello che i suoi membri hanno in comune è essenzialmente la subcultura stessa, e solo occasionalmente anche altri elementi (come l'età giovane, gli studi universitari, una certa formazione). La cultura hippie non è la cultura degli studenti universitari degli anni 60: non include tutti gli studenti, ed include anche altre persone.
Perciò, come si adatta la definizione iniziale a questo altro caso, che mi sembra piuttosto frequente nella nostra società? Magari ci sono altre interpretazioni che tornano meglio? perchè devo dire che nemmeno la mia visione mi soddisfa molto: è piuttosto circolare.. :-)
Ciao Chiara scusa il ritardo con cui rispondo...Io non vedrei la cultura come qualcosa che si sovrappone a fattori preesistenti ma l'elemento costituivo di un certo gruppo, aderire ad un gruppo insomma equivale all'adesione alla sua cultura. Il termine subcultura nella definizione è infatti qualcosa di ampio (valori, conoscenze,, linguaggi, norme di comportamento, stili di vita, strumenti di lavoro). Per quanto riguarda gli hippy ricorda la famosa frase "Non ascoltare chi ha più di 30 anni" che denota il carattere generazionale del movimento.
RispondiEliminaCiao
è interessante come a volte le subculture sembrano farsi più propulsive e critiche, diventando controcultura, o sfiorandolo; tuttavia, siccome si pongono sul puro piano semiologico e non politico, finiscono per essere sconfitte e poi c'è sempre il riflusso; nel caso degli hippie fu la droga in quantità massicce e l'esasperazione in chiave escapista dei miti spiritualistici, dell'orientalismo e della new age; anche per il post-punk c'è stato un tentativo di coagularsi intorno ad un'opzione controculturale, ma è scivolato presto verso un estetismo tanto stuzzicante sul piano estetico quanto ineffettuale sul piano sociale...
RispondiEliminaStefano
Ciao Stefano, il tema che suggerisci è complesso...è il tema di come può un gruppo che non ha le leve effettive del potere far diventare la propria cultura, il proprio modo d'essere e i propri valori, la base per nuove forme di potere...Bisognerebbe discutere in senso marxista del rapporto tra strutture e sovrastrutture...Comunque io credo che il rapporto causale deterministico di cui parla Marx non sia sempre vero e possa essere dialetticamente rovesciato, come insegna Weber in Etica protestante e lo spirito del capitalismo.
RispondiEliminaTalvolta certi fenomeni "culturali" sono davvero potenti e possono incidere anche sulle forme di potere. Non è questo il caso della liberazione non violenta dell'India dalla dominazione inglese?