lunedì 24 maggio 2010

Il vento fa il suo giro



Domenica 23 maggio alla Casa Gialla, Centro Sociale gestito dagli anziani, a Bologna, si è svolto un evento piuttosto insolito per una domenica mattina: la proiezione del film “Il vento fa il suo giro”; a seguire l’incontro con il regista Giorgio Diritti. Nonostante la scarsa qualità della proiezione, che ha impedito di apprezzare appieno il film, la storia raccontata cattura in fretta l’attenzione con la sua immediatezza comunicativa, il fascino dei paesaggi, l’autenticità dei personaggi.
Vediamo di ricostruire in breve la trama.
Il film è ambientato a Chersogno, un paesino sulle Alpi Occitane italiane, abitato ormai da una decina di persone anziane, di età media intorno ai settanta, che sopravvivono grazie al turismo estivo. In questo paesino della Valle Maira, arriva Philippe, un francese che cerca casa, per stabilirsi con la sua compagna e i suoi tre figli. Philippe è un pastore francese (ex professore di filosofia, stanco della burocrazia) che ha smesso d’insegnare per dedicarsi all’allevamento delle capre e alla produzione di formaggio. Questo evento potrebbe essere una ventata di novità per il paese. La comunità (che parla in lingua d'hoc -per questo il film è spesso sottotitolato-) decide alla fine, dietro le pressioni del suo sindaco progressista, di accogliere lo “straniero”, in nome delle tradizionali "rueidas", quelle forme di aiuto reciproco che tradizionalmente avevano unito la comunità. L'uomo e la sua donna sono due persone che hanno deciso di vivere e di educare i propri figli, seguendo i tempi della natura e dei propri desideri. Con il passare del tempo, la "diversità" dei nuovi arrivati mette in crisi le coscienze di un paese che si sente minacciato da questi spiriti liberi, e l’incomprensione diventa gradualmente distanza incolmabile: dal pregiudizio si arriva alla violenza agita. Gli "stranieri" sono prima accusati di essere sporchi (“i bambini stanno in mezzo alla cacca delle capre”); poi di sconfinare con il gregge di capre nei campi altrui e di prendere abusivamente la legna da terreni abbandonati (il film mette a fuoco e sottolinea la grettezza del senso della proprietà privata dei paesani). Infine, dalle maldicenze si passa alle denunce a carabinieri ed ASL, alla simulazione di aggressione da parte di una donna, all'uccisione di alcuni capi di bestiame.
Philippe non vuole la guerra e alla fine decide di andar via con la sua famiglia. Questa partenza segna però una sconfitta di un paese che non riesce ad essere altro che una vetrina per programmi televisivi che cercano ancora il profumo di “autentico” o una cartolina per turisti estivi.

Passiamo ora a qualche riflessione sul film.
La discussione con il regista è partita proprio da una delle scene finali del film: si è appena consumata la frattura irreversibile tra il paese e la famiglia francese, con la partenza di Philippe, sua moglie e i suoi figli, quando compare un elicottero che sfreccia tra le valli e i monti intorno a Chersogno; sono riprese dall’alto di un programma televisivo sul paese, che vengono commentate da un anziano che ricostruisce la memoria di quei luoghi.
È forte il contrasto tra il senso di sconfitta, che abbiamo dolorosamente registrato come spettatori con la partenza della famiglia francese, e l’euforia nostalgica e da cartolina con cui si dipinge il paesaggio e il paese dall’alto. Viviamo, inoltre, su un piano meno emotivo, il conflitto tra rappresentazione mediatica e vita reale, quello scollamento tra apparire ed essere che già era stato presentato in una precedente scena del film: un giornalista irrompe con il suo seguito (si respira l’aria di una “invasione” non rispettosa dei luoghi e delle persone che vengono quasi stuprati dagli obiettivi!) a raccontare la storia felice del nuovo abitante francese che fa il pastore e casaro; quando il sindaco, però, chiederà al giornalista di parlare del tentativo dell’amministrazione di far rinascere la vita nel paese e, quindi, di riportare a Chersogno i giovani, il giornalista risponderà secco che è lì per parlare di alimentazione e non di politica.

Torniamo al volo dell’elicottero… alla fine il velivolo atterra e assistiamo al recupero del corpo del “matto” del paese che si è appena suicidato; questa scena ci offre una ulteriore chiave di lettura del film: il paese non ha saputo integrare il “matto” così come non ha saputo integrare lo straniero; il suo suicidio è simbolicamente il suicidio di una comunità che ha scelto il ripiegamento su se stessa, l’ancoraggio ad una tradizione morta piuttosto che l’apertura a nuove possibilità e la sfida del cambiamento.
Il “matto”, in precedenza, più volte è stato ripreso mentre a braccia distese simula il volo per le strade o per i campi, un volo che non conosce i confini rigidi della proprietà privata (i quali costituiscono invece per gli altri paesani uno dei principali motivi di scontro con la famiglia francese…). Il “matto”, con la mente sgombra di pregiudizi, è colui che meglio riesce ad entrare in relazione con il francese e ritrova nel suo sguardo identità. Per questo la partenza di Philippe finisce per rendere ormai vuota e senza senso la sua vita…
Questo film nella sua ricchezza di contenuti si presta ad una analisi su più livelli: a partire dal tema centrale del rapporto con la diversità si diramano i capitoli sul pregiudizio e lo stereotipo (lo straniero “puzza”, porta malattie – il maiale morto che viene abbandonato dal francese abituato a far così perché nei Pirenei, dove aveva abitato prima, gli avvoltoi si cibavano delle carcasse_...), quello sull’identità sociale che si afferma nella contrapposizione (le dinamiche in-group/out-group, del “noi” e del “loro”); quello dell’identità personale che si afferma, invece, grazie allo sguardo benevolente dell’altro; quello dello scarto tra rappresentazione mediatica e realtà vissuta…
È un film che, oltre al pregevole valore artistico, ben si presta a sviluppare riflessioni di carattere antropologico, sociologico o di psicologia sociale. Caldamente consigliata, quindi, la visione a studenti e docenti del Liceo delle Scienze Sociali!

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