A metà degli anni 70, frequentavo il Liceo “Pacinotti”, a Cagliari. Dai piani alti dell’edificio, lo sguardo superava il muro di cinta e cadeva all’interno dell’ ospedale che confinava con il mio Liceo: l’ospedale psichiatrico di Villa Clara (più comunemente chiamato “manicomio”). Negli ampi cortili si muovevano, lente, persone magre, con pochi stracci addosso, spesso nude, che si masturbavano in modo compulsivo. Ho saputo più tardi che questi luoghi non erano luoghi di cura, ma luoghi di detenzione o, peggio, di tortura. In quegli anni, inoltre, nelle scuole i disabili e le persone con disturbi mentali non si vedevano, erano “invisibili”, almeno nelle classi frequentate dai "normodotati". In generale, quindi, le persone “diverse” per anomalia genetica, deficit cognitivo o malattia mentale erano tenute distanti, conducevano esistenze parallele.
Alla fine degli anni 70, in Italia si è realizzata probabilmente l’unica rivoluzione culturale che ancora oggi fa sentire i suoi effetti, una rivoluzione che in gran parte dobbiamo al pensiero e all’azione di Franco Basaglia. Nel 1978 il Parlamento approvò una legge (legge 180)che decretava la chiusura di quei luoghi dell’orrore, dove non si curavano le persone, ma le si teneva in prigionia. Anche nella scuola gradualmente, a partire dal 1977, sono cadute le barriere e dal 1992 abbiamo una legge (legge 104) che garantisce l’integrazione delle persone disabili nella scuola pubblica. Tutte quelle persone tenute fino a quel momento distanti o chiuse in luoghi separati, sono entrate nei luoghi di tutti, i luoghi frequentati dalle persone “normali”, guadagnando sempre più i diritti fino ad allora negati (il diritto all’educazione, ad essere curati …). Possiamo immaginare questo percorso verso l’integrazione come un percorso di avvicinamento: da luoghi separati, distanti, ai luoghi di tutti. Così, è successo nella scuola…
Questo processo è ancora in corso! Non basta abbattere vecchi recinti, spesso se ne creano di nuovi, inaspettati, magari a partire da buone intenzioni. Ecco, allora, trovare nella scuola pubblica spazi attrezzati per il sostegno o laboratori di varia natura che, in nome della didattica individualizzata, ricreano separazione. Difficilmente si riesce a creare momenti e spazi di incontro effettivi tra studenti disabili e “normodotati”; così, ognuno conduce perlopiù vite scolastiche parallele, all’interno dello stesso contenitore. E, magari, quando si promuove una iniziativa che favorisce un processo di avvicinamento reale (ad esempio, un laboratorio aperto a tutti gli studenti e non solo ai disabili), gli insegnanti che “rinunciano” alle loro ore di insegnamento della disciplina fanno resistenza: si porta via del tempo utile...
Siamo abituati ad associare al termine disabile una carrozzina e a concepire gli ostacoli sul percorso di un disabile come ostacoli fisici. Ahinoi! Gli ostacoli peggiori per l’integrazione vengono da una cultura che non riesce a fare i conti con la differenza dello studente disabile, con la complessità che questo incontro genera, e preferisce dare una delega totale allo specialista (insegnante specializzato di sostegno), in grado di fare un intervento individualizzato, in qualche luogo ben attrezzato, da qualche altra parte!
C'è chi sfugge l'alterità per le problematicità che pone e chi accetta la sfida. Questo spazio virtuale è dedicato a chi cerca di vincere le proprie paure e le proprie difese e si confronta con l'altro nella convinzione che questa è la strada per diventare sempre più umano.
venerdì 31 maggio 2013
giovedì 23 maggio 2013
DIPENDENZA O AUTONOMIA?
Nella sfera affettiva sembra non ci sia alcuna possibilità di uscire dall’alternativa dicotomica “dipendenza/autonomia”, termini che configurano una opposizione radicale, senza mediazione possibile. Eppure, “dipendenza e autonomia” sono, piuttosto, i punti estremi di un continuum, all’interno del quale ognuno di noi si colloca, molto spesso “sbilanciato” verso uno dei due poli.
Proviamo a definire meglio i termini della questione, considerando alcuni elementi di psicologia dello sviluppo. Si nasce in una condizione di totale dipendenza, quella che alcuni chiamano simbiosi e altri parassitismo : “Alle origini, l’unità narcisistica madre-bambino non è un’unità simbiotica perfetta, ma un’alleanza bio-psichica temporanea il cui modello è il parassitismo” (A. Birraux 2004) In altri termini, non c’è simbiosi perché la mamma potrebbe fare a meno del bambino, il bambino invece no: è lui, infatti, ad essere in una condizione di assoluta dipendenza.
Solo nella vicinanza alla madre si trova la possibilità di sopravvivere. Per assicurarsi nutrimento, calore e protezione il bambino, infatti, deve mantenere un certo livello di vicinanza con la madre e per questo mette in atto un repertorio preformato di comportamenti, finalizzati a richiamare la madre (es. pianto)e a trattenerla a sé (es . tendendo le mani per essere preso in braccio). Intorno alla fine del primo anno di età, il bambino mostra di distinguere gli estranei (angoscia dell’estraneo) e le sue reazioni di protesta all’allontanamento della madre dimostrano che, ormai, si è consolidato un legame di attaccamento. È il periodo in cui maturano le abilità motorie e, gradualmente, il bambino si allontana dalla madre per esplorare l’ambiente. È in questa fase che si può notare il fenomeno della “base sicura”. La Ainsworth (1978), mediante l’esperimento della strange situation (in cui si studiano il comportamento esplorativo e le reazioni del bambino al momento della separazione-riavvicinamento alla madre), ha identificato tre forme di attaccamento: 1) l’attaccamento sicuro; 2) insicuro-evitante; 3)insicuro-ambivalente. Nel primo caso, la madre rappresenta una base sicura che permette al bambino di esplorare e interagire in autonomia con l’ambiente; quando la madre si allontana, il bambino mostra segnali di mancanza, mentre la saluta con vocalizzi e sorrisi e ne cerca la vicinanza, quando torna (figura materna affidabile e presente). Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, il bambino esplora l’ambiente senza fare riferimento ad una base sicura; quando la madre si allontana, risponde in modo impercettibile e, quando torna, guarda altrove o evita attivamente il genitore (figura materna rifiutante). Infine, il bambino con attaccamento insicuro ambivalente esplora poco l’ambiente; è angosciato durante la separazione dalla madre e, al suo ritorno, mostra una alternanza di segnali finalizzati alla ricerca di contatto ed esplosioni di rabbia (figura materna incostante e imprevedibile).
In sintesi, possiamo dire che chi è stato nutrito affettivamente dispone di un “pieno” che gli permette di muoversi nell’ambiente; inoltre, sa di poter tornare alla base per approvvigionarsi d’affetto, in caso di bisogno. Chi non ha sperimentato questa base sicura, invece, si muove nell’ambiente come perso o non si muove affatto. Pensiamo, ad esempio, cosa succede in presenza di una madre ansiosa, per la quale il mondo è continuamente fonte di insidie…
Da queste considerazioni dovrebbe risultare più chiaro che l’opposizione “dipendenza-autonomia” è solo apparentemente contraddittoria: in realtà solo chi ha sviluppato una buona dipendenza (legame affettivo significativo-stabile) è autonomo ed esplora liberamente il mondo.
Chi è cresciuto senza una base affettiva sicura, vivrà molto spesso angosce abbandoniche nel momento in cui la distanza dalla persona di riferimento cresce, o ci si separa da lei (es. bambini cresciuti con madri ansiose); oppure si sperimenteranno angosce di annullamento quando la distanza dalla persona di riferimento è troppo ravvicinata e si teme di perdere i confini della propria labile identità (es. bambini cresciuti con madri intrusive, tendenzialmente simbiotiche).
Di queste vicende arcaiche (dal punto di vista della storia personale), rimane molto anche nell’adulto: è come se in quegli anni si determinasse una sorta di imprinting che costringe alla ripetizione di uno schema. Si stabilisce quello che Bowlby (1988) ha chiamato “modello operativo interno” che, semplificando, veicola quello che ci si può aspettare dall’altro e un complementare concetto di sé: ad esempio, mi aspetto indifferenza o rabbia perché sono brutto e incapace. Questi modelli non sono solo un filtro in base al quale si percepisce la realtà, ma anche “organizzatori del comportamento individuale che attivamente riproducono esperienze relative alla storia relazionale” (Sroufe & Waters, 1977).
Dato che questi schemi cognitivi-emotivi (MOI) sono così profondamente radicati nella storia personale di ognuno, solo all’interno di una relazione dove si stabilisce una appropriata dinamica di transfert si può produrre un cambiamento della dipendenza patologica (di chi è incapace di esplorare da solo il mondo) o dell’autonomia “autistica” (di chi è incapace di relazioni affettive). Per attivare questo tipo di cambiamenti è spesso necessario fare ricorso alla psicoterapia.
Proviamo a definire meglio i termini della questione, considerando alcuni elementi di psicologia dello sviluppo. Si nasce in una condizione di totale dipendenza, quella che alcuni chiamano simbiosi e altri parassitismo : “Alle origini, l’unità narcisistica madre-bambino non è un’unità simbiotica perfetta, ma un’alleanza bio-psichica temporanea il cui modello è il parassitismo” (A. Birraux 2004) In altri termini, non c’è simbiosi perché la mamma potrebbe fare a meno del bambino, il bambino invece no: è lui, infatti, ad essere in una condizione di assoluta dipendenza.
Solo nella vicinanza alla madre si trova la possibilità di sopravvivere. Per assicurarsi nutrimento, calore e protezione il bambino, infatti, deve mantenere un certo livello di vicinanza con la madre e per questo mette in atto un repertorio preformato di comportamenti, finalizzati a richiamare la madre (es. pianto)e a trattenerla a sé (es . tendendo le mani per essere preso in braccio). Intorno alla fine del primo anno di età, il bambino mostra di distinguere gli estranei (angoscia dell’estraneo) e le sue reazioni di protesta all’allontanamento della madre dimostrano che, ormai, si è consolidato un legame di attaccamento. È il periodo in cui maturano le abilità motorie e, gradualmente, il bambino si allontana dalla madre per esplorare l’ambiente. È in questa fase che si può notare il fenomeno della “base sicura”. La Ainsworth (1978), mediante l’esperimento della strange situation (in cui si studiano il comportamento esplorativo e le reazioni del bambino al momento della separazione-riavvicinamento alla madre), ha identificato tre forme di attaccamento: 1) l’attaccamento sicuro; 2) insicuro-evitante; 3)insicuro-ambivalente. Nel primo caso, la madre rappresenta una base sicura che permette al bambino di esplorare e interagire in autonomia con l’ambiente; quando la madre si allontana, il bambino mostra segnali di mancanza, mentre la saluta con vocalizzi e sorrisi e ne cerca la vicinanza, quando torna (figura materna affidabile e presente). Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, il bambino esplora l’ambiente senza fare riferimento ad una base sicura; quando la madre si allontana, risponde in modo impercettibile e, quando torna, guarda altrove o evita attivamente il genitore (figura materna rifiutante). Infine, il bambino con attaccamento insicuro ambivalente esplora poco l’ambiente; è angosciato durante la separazione dalla madre e, al suo ritorno, mostra una alternanza di segnali finalizzati alla ricerca di contatto ed esplosioni di rabbia (figura materna incostante e imprevedibile).
In sintesi, possiamo dire che chi è stato nutrito affettivamente dispone di un “pieno” che gli permette di muoversi nell’ambiente; inoltre, sa di poter tornare alla base per approvvigionarsi d’affetto, in caso di bisogno. Chi non ha sperimentato questa base sicura, invece, si muove nell’ambiente come perso o non si muove affatto. Pensiamo, ad esempio, cosa succede in presenza di una madre ansiosa, per la quale il mondo è continuamente fonte di insidie…
Da queste considerazioni dovrebbe risultare più chiaro che l’opposizione “dipendenza-autonomia” è solo apparentemente contraddittoria: in realtà solo chi ha sviluppato una buona dipendenza (legame affettivo significativo-stabile) è autonomo ed esplora liberamente il mondo.
Chi è cresciuto senza una base affettiva sicura, vivrà molto spesso angosce abbandoniche nel momento in cui la distanza dalla persona di riferimento cresce, o ci si separa da lei (es. bambini cresciuti con madri ansiose); oppure si sperimenteranno angosce di annullamento quando la distanza dalla persona di riferimento è troppo ravvicinata e si teme di perdere i confini della propria labile identità (es. bambini cresciuti con madri intrusive, tendenzialmente simbiotiche).
Di queste vicende arcaiche (dal punto di vista della storia personale), rimane molto anche nell’adulto: è come se in quegli anni si determinasse una sorta di imprinting che costringe alla ripetizione di uno schema. Si stabilisce quello che Bowlby (1988) ha chiamato “modello operativo interno” che, semplificando, veicola quello che ci si può aspettare dall’altro e un complementare concetto di sé: ad esempio, mi aspetto indifferenza o rabbia perché sono brutto e incapace. Questi modelli non sono solo un filtro in base al quale si percepisce la realtà, ma anche “organizzatori del comportamento individuale che attivamente riproducono esperienze relative alla storia relazionale” (Sroufe & Waters, 1977).
Dato che questi schemi cognitivi-emotivi (MOI) sono così profondamente radicati nella storia personale di ognuno, solo all’interno di una relazione dove si stabilisce una appropriata dinamica di transfert si può produrre un cambiamento della dipendenza patologica (di chi è incapace di esplorare da solo il mondo) o dell’autonomia “autistica” (di chi è incapace di relazioni affettive). Per attivare questo tipo di cambiamenti è spesso necessario fare ricorso alla psicoterapia.
giovedì 16 maggio 2013
STEREOTIPI E PREGIUDIZI IN PEDAGOGIA SPECIALE
Chi opera professionalmente nell’ambito della pedagogia speciale spesso ritiene, in virtù della propria “vicinanza” quotidiana con gli utenti, di essere libero dagli stereotipi e dai pregiudizi che riguardano le persone disabili. Ma stereotipi e pregiudizi nascono e si riproducono nella zona grigia della coscienza, dove manca l’esercizio di una capacità critica, in grado di vigilare sui propri processi di pensiero.
Non è un tema puramente teorico. Noi avviciniamo qualcuno quando decidiamo di intraprendere davvero un percorso di conoscenza che porta a scoprire l’altro nella sua singolarità. Cosa succede allora in pedagogia speciale (ambito che riguarda educatori professionali, insegnanti di sostegno…)? È frequente sentire espressioni come "Le persone con Sindrome di Down sono simpatiche, socievoli…"; "I DSA sono dei geni come Einstein" oppure "Gli autistici hanno capacità eccezionali di calcolo!". Queste affermazioni rivelano una operazione cognitiva che, non solo propone una etichetta diagnostica come nucleo significativo di conoscenze utili per capire l’altro; fa qualcosa di più: rende uguali tra loro tutte le persone con un disturbo o affette da una certa sindrome. Cosa succede, allora, se si incontra una persona con Sindrome di Down schiva e depressa o un ragazzo autistico con un QI così basso da impedirgli completamente l’accesso alla sfera simbolica del numero e della parola?
L’incontro con la persona disabile è un po’ come l’incontro con una persona di cultura differente, lontana. Possiamo tentare di “avvicinare” questa persona facendo ricorso ad uno stereotipo come "i giapponesi sono tutti seri, formali…": è questo un processo cognitivo economico, che permette una qualche forma di orientamento nella complessità della realtà sociale; gode, inoltre, dell’approvazione del proprio gruppo culturale di appartenenza o di riferimento. Ma riusciamo davvero a conoscere quel giapponese così estroverso e informale? È come indossare lenti colorate: si vede il mondo attraverso il filtro delle lenti dello stereotipo; non si conosce e non c’è giudizio…c’è pregiudizio!
Cosa bisogna fare allora? Bisogna fare la fatica di mettere tra parentesi le conoscenze che precedono l’incontro con l’altro, l’incontro con la sua singolarità. Andrea Canevaro, a proposito dell’autismo, ad esempio, propone l’etichetta di “autismi” a sottolineare una identità plurale che non può essere ridotta dallo stereotipo.
Per uscire dalla trappola dello stereotipo, bisogna innanzitutto porre la massima attenzione al nome proprio. Non incontriamo un autistico, uno studente DSA o con Sindrome di Down: incontriamo “Fabio, Antonio, Carlo…” e sulla base di questa conoscenza singolare, dobbiamo fare la fatica di accomodare i nostri schemi cognitivi, imparare a leggere i bisogni nella loro specificità, a dare risposte che non siano a loro volta stereotipate. Si, perché essere controllati da conoscenze stereotipate significa dare risposte stereotipate, risposte che ignorano il nome proprio.
Non è un tema puramente teorico. Noi avviciniamo qualcuno quando decidiamo di intraprendere davvero un percorso di conoscenza che porta a scoprire l’altro nella sua singolarità. Cosa succede allora in pedagogia speciale (ambito che riguarda educatori professionali, insegnanti di sostegno…)? È frequente sentire espressioni come "Le persone con Sindrome di Down sono simpatiche, socievoli…"; "I DSA sono dei geni come Einstein" oppure "Gli autistici hanno capacità eccezionali di calcolo!". Queste affermazioni rivelano una operazione cognitiva che, non solo propone una etichetta diagnostica come nucleo significativo di conoscenze utili per capire l’altro; fa qualcosa di più: rende uguali tra loro tutte le persone con un disturbo o affette da una certa sindrome. Cosa succede, allora, se si incontra una persona con Sindrome di Down schiva e depressa o un ragazzo autistico con un QI così basso da impedirgli completamente l’accesso alla sfera simbolica del numero e della parola?
L’incontro con la persona disabile è un po’ come l’incontro con una persona di cultura differente, lontana. Possiamo tentare di “avvicinare” questa persona facendo ricorso ad uno stereotipo come "i giapponesi sono tutti seri, formali…": è questo un processo cognitivo economico, che permette una qualche forma di orientamento nella complessità della realtà sociale; gode, inoltre, dell’approvazione del proprio gruppo culturale di appartenenza o di riferimento. Ma riusciamo davvero a conoscere quel giapponese così estroverso e informale? È come indossare lenti colorate: si vede il mondo attraverso il filtro delle lenti dello stereotipo; non si conosce e non c’è giudizio…c’è pregiudizio!
Cosa bisogna fare allora? Bisogna fare la fatica di mettere tra parentesi le conoscenze che precedono l’incontro con l’altro, l’incontro con la sua singolarità. Andrea Canevaro, a proposito dell’autismo, ad esempio, propone l’etichetta di “autismi” a sottolineare una identità plurale che non può essere ridotta dallo stereotipo.
Per uscire dalla trappola dello stereotipo, bisogna innanzitutto porre la massima attenzione al nome proprio. Non incontriamo un autistico, uno studente DSA o con Sindrome di Down: incontriamo “Fabio, Antonio, Carlo…” e sulla base di questa conoscenza singolare, dobbiamo fare la fatica di accomodare i nostri schemi cognitivi, imparare a leggere i bisogni nella loro specificità, a dare risposte che non siano a loro volta stereotipate. Si, perché essere controllati da conoscenze stereotipate significa dare risposte stereotipate, risposte che ignorano il nome proprio.
lunedì 13 maggio 2013
TI AMO PER COME SEI
L’affermazione “ti amo per come sei!” può sembrare banale, ma, al contrario, credo meriti una riflessione. Proviamo a partire dalla teoria della personalità di Carl Rogers. In termini molto generali, si può dire che Rogers consideri la salute psicologica come risultato della congruenza tra ciò che si è veramente e il concetto di sé. In altri termini, se la rappresentazione di sé coincide con ciò che si è, se si è autentici (cioè si appare per quel che si è), allora si gode di una buona salute psicologica; altrimenti, se si è incongruenti, la salute psicologica è a rischio o già compromessa (siamo in presenza di qualcosa di molto vicino al Falso sé di cui parla Winnicott).
Come si determina l’incongruenza? È il frutto avvelenato dell’amore condizionato, di quell’amore che si può riassumere nella formula “ti amo, se…”; ad esempio, “ti amerò (o ti vorrò bene), se farai il bravo!”. L’esempio citato ci porta in quella dimensione che costituisce la matrice dell’amore condizionato: il rapporto con i genitori, con la madre in primo luogo. Amare i propri figli per come sono, significa uscire dalla presunzione di sapere in partenza qual è il bene del proprio figlio. Amare i propri figli per come sono, implica conoscerli, sapere chi sono perché li si interroga e si ascolta la risposta.
Il caso limite che rende chiaro questo discorso è quello di certi genitori di bambini o ragazzi disabili. Succede spesso, a coloro che lavorano con i disabili, di incontrare genitori che sono totalmente o parzialmente incapaci di vedere e accettare i limiti del proprio figlio e pretendono il raggiungimento di obiettivi educativi e didattici impossibili. In questi casi si dice che i genitori non hanno elaborato il lutto per il figlio idealizzato, quel figlio immaginato durante i nove mesi della gravidanza. È troppo doloroso, in certi casi, accettare la realtà e semplicemente la si nega.
Ma il caso della disabilità mette in risalto una dinamica che è ben più diffusa e che si può riassumere con la formula: “non ti amo per come sei, ma per come vorrei che tu fossi!”. Proviamo a vedere nel concreto quali sono le implicazioni: se, ad esempio, la rabbia di un bambino viene accolta come qualcosa di mostruoso e sanzionata duramente, cosa succederà? Il bambino gradualmente rimuoverà la rabbia. La stessa cosa può accadere con il dolore o la paura: è questo il caso dell’educazione dei maschietti, che normalmente tollera poco l’espressione di queste emozioni (ad esempio, “piagnucoli come una femminuccia!”). Così, gradualmente si costruisce una rappresentazione di sé dove queste parti devono scomparire, inabissarsi, non farsi più vedere: ecco la genesi dell’incongruenza! Nel tempo queste parti non si vedono più, ma diventano sintomi di malessere psicologico.
Questa incapacità di amare è qualcosa che, nel tempo, oltrepassa il rapporto genitori e figli. Questo imprinting affettivo, infatti, condizionerà la relazione di coppia e, poi, quella con i propri figli. Così, si incontreranno persone scontente del proprio partner che “dovrebbe essere in un certo modo!”, o persone insoddisfatte dei propri figli che “sono una delusione!”. Ma si può essere delusi, solo se prima ci si è illusi: illusi che la persona che si ha davanti debba corrispondere all’immagine idealizzata che abbiamo costruito.
“Mi amo per come sono/ti amo per come sei!”, allora, è la prima grande lezione d’amore che è necessario imparare.
sabato 11 maggio 2013
IL SUICIDIO AI TEMPI DI NARCISO
Nella cronaca degli anni della Grande Crisi, emerge con forza il tema del suicidio. Qual è il legame di senso tra Grande Crisi e suicidio? Quanto entra la cultura profonda di una società nella psicologia individuale? Il suicidio è un fatto “naturale”?
Proviamo a partire da questa ultima domanda. Nel comportamento animale il suicidio è praticamente assente. Qualcosa di simile al suicidio è il sacrificio per il bene della propria prole o del gruppo sociale cui si appartiene ( è il caso, ad esempio, delle termiti kamikaze). Questo comportamento, però, sembra rientrare nella lotta per tramandare il proprio patrimonio genetico. Niente di simile al suicidio umano…
Quando non si riesce a trovare la radice di un comportamento come il suicidio nel comportamento animale, allora è necessario guardare alla cultura, la “seconda natura” dell’uomo. Passiamo così alla seconda domanda: quanto entra la cultura profonda di una società nella psicologia individuale? La risposta lapidaria è: molto. La topica freudiana sottolinea con forza come il Super Io sia una istanza generata dall’interiorizzazione dei divieti, in primo luogo quelli familiari. È proprio dallo scontro tra Super Io, giudice e censore, ed Es, l’istanza pulsionale, nasce la nevrosi. Ma oggi? Oggi il rigido censore che condanna la sessualità è morto e sepolto e lo scambio tra libertà e sicurezza, di cui Freud parla in Il disagio della civiltà, si è risolto a favore della libertà. Questo significa che non esiste più il giudice interno? Il giudice interno esiste, è vivo e vegeto, ma sono totalmente cambiati i valori di riferimento in base ai quali valuta, emette le condanne e le esegue. Oggi il parametro in base al quale il giudice condanna è il successo, dove questo termine va declinato nel senso della visibilità: si ha successo quando si corrisponde all’immagine vincente che la nostra cultura consumistica promuove e quando disponiamo dei segni visibili di questa vittoria ( un buon lavoro, una bella casa…). Il fallimento nella realizzazione di questo obiettivo sociale è la colpa più grave, la colpa che ci condanna ad essere “nulla”: ci condanna a morte! Il suicidio, in questo senso, è una condanna a morte decretata dalla cultura dell’apparire per tutti coloro che non riescono ad oltrepassare la soglia di una certa visibilità. È la colpa di Narciso ferito e sanguinante!
Passiamo all’ultima domanda: qual è il legame di senso tra Grande Crisi e suicidio? La Grande Crisi produce in vari modi il contesto culturale-esistenziale della disperazione (vedi L’epoca delle passioni tristi di Benasayag-Schmit). Il paradigma di pensiero su cui si è retta la nostra cultura (crescita, consumo, benessere diffuso…) è scosso alle radici e la possibilità di realizzare il sogno consumista si è infranto per milioni di persone. Queste milioni di persone, ora, vagano in solitudine (il mirabile prodotto di qualche decennio di liberismo), in un mondo dove ognuno vive il suo inferno privato e fa i conti con il suo fallimento! Ogni possibilità di canalizzare il malessere in una azione politica sembra essere fuori portata…Non resta che il nulla!
Proviamo a partire da questa ultima domanda. Nel comportamento animale il suicidio è praticamente assente. Qualcosa di simile al suicidio è il sacrificio per il bene della propria prole o del gruppo sociale cui si appartiene ( è il caso, ad esempio, delle termiti kamikaze). Questo comportamento, però, sembra rientrare nella lotta per tramandare il proprio patrimonio genetico. Niente di simile al suicidio umano…
Quando non si riesce a trovare la radice di un comportamento come il suicidio nel comportamento animale, allora è necessario guardare alla cultura, la “seconda natura” dell’uomo. Passiamo così alla seconda domanda: quanto entra la cultura profonda di una società nella psicologia individuale? La risposta lapidaria è: molto. La topica freudiana sottolinea con forza come il Super Io sia una istanza generata dall’interiorizzazione dei divieti, in primo luogo quelli familiari. È proprio dallo scontro tra Super Io, giudice e censore, ed Es, l’istanza pulsionale, nasce la nevrosi. Ma oggi? Oggi il rigido censore che condanna la sessualità è morto e sepolto e lo scambio tra libertà e sicurezza, di cui Freud parla in Il disagio della civiltà, si è risolto a favore della libertà. Questo significa che non esiste più il giudice interno? Il giudice interno esiste, è vivo e vegeto, ma sono totalmente cambiati i valori di riferimento in base ai quali valuta, emette le condanne e le esegue. Oggi il parametro in base al quale il giudice condanna è il successo, dove questo termine va declinato nel senso della visibilità: si ha successo quando si corrisponde all’immagine vincente che la nostra cultura consumistica promuove e quando disponiamo dei segni visibili di questa vittoria ( un buon lavoro, una bella casa…). Il fallimento nella realizzazione di questo obiettivo sociale è la colpa più grave, la colpa che ci condanna ad essere “nulla”: ci condanna a morte! Il suicidio, in questo senso, è una condanna a morte decretata dalla cultura dell’apparire per tutti coloro che non riescono ad oltrepassare la soglia di una certa visibilità. È la colpa di Narciso ferito e sanguinante!
Passiamo all’ultima domanda: qual è il legame di senso tra Grande Crisi e suicidio? La Grande Crisi produce in vari modi il contesto culturale-esistenziale della disperazione (vedi L’epoca delle passioni tristi di Benasayag-Schmit). Il paradigma di pensiero su cui si è retta la nostra cultura (crescita, consumo, benessere diffuso…) è scosso alle radici e la possibilità di realizzare il sogno consumista si è infranto per milioni di persone. Queste milioni di persone, ora, vagano in solitudine (il mirabile prodotto di qualche decennio di liberismo), in un mondo dove ognuno vive il suo inferno privato e fa i conti con il suo fallimento! Ogni possibilità di canalizzare il malessere in una azione politica sembra essere fuori portata…Non resta che il nulla!
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