giovedì 16 maggio 2013

STEREOTIPI E PREGIUDIZI IN PEDAGOGIA SPECIALE

Chi opera professionalmente nell’ambito della pedagogia speciale spesso ritiene, in virtù della propria “vicinanza” quotidiana con gli utenti, di essere libero dagli stereotipi e dai pregiudizi che riguardano le persone disabili. Ma stereotipi e pregiudizi nascono e si riproducono nella zona grigia della coscienza, dove manca l’esercizio di una capacità critica, in grado di vigilare sui propri processi di pensiero.
Non è un tema puramente teorico. Noi avviciniamo qualcuno quando decidiamo di intraprendere davvero un percorso di conoscenza che porta a scoprire l’altro nella sua singolarità. Cosa succede allora in pedagogia speciale (ambito che riguarda educatori professionali, insegnanti di sostegno…)? È frequente sentire espressioni come "Le persone con Sindrome di Down sono simpatiche, socievoli…"; "I DSA sono dei geni come Einstein" oppure "Gli autistici hanno capacità eccezionali di calcolo!". Queste affermazioni rivelano una operazione cognitiva che, non solo propone una etichetta diagnostica come nucleo significativo di conoscenze utili per capire l’altro; fa qualcosa di più: rende uguali tra loro tutte le persone con un disturbo o affette da una certa sindrome. Cosa succede, allora, se si incontra una persona con Sindrome di Down schiva e depressa o un ragazzo autistico con un QI così basso da impedirgli completamente l’accesso alla sfera simbolica del numero e della parola?
L’incontro con la persona disabile è un po’ come l’incontro con una persona di cultura differente, lontana. Possiamo tentare di “avvicinare” questa persona facendo ricorso ad uno stereotipo come "i giapponesi sono tutti seri, formali…": è questo un processo cognitivo economico, che permette una qualche forma di orientamento nella complessità della realtà sociale; gode, inoltre, dell’approvazione del proprio gruppo culturale di appartenenza o di riferimento. Ma riusciamo davvero a conoscere quel giapponese così estroverso e informale? È come indossare lenti colorate: si vede il mondo attraverso il filtro delle lenti dello stereotipo; non si conosce e non c’è giudizio…c’è pregiudizio!
Cosa bisogna fare allora? Bisogna fare la fatica di mettere tra parentesi le conoscenze che precedono l’incontro con l’altro, l’incontro con la sua singolarità. Andrea Canevaro, a proposito dell’autismo, ad esempio, propone l’etichetta di “autismi” a sottolineare una identità plurale che non può essere ridotta dallo stereotipo.
Per uscire dalla trappola dello stereotipo, bisogna innanzitutto porre la massima attenzione al nome proprio. Non incontriamo un autistico, uno studente DSA o con Sindrome di Down: incontriamo “Fabio, Antonio, Carlo…” e sulla base di questa conoscenza singolare, dobbiamo fare la fatica di accomodare i nostri schemi cognitivi, imparare a leggere i bisogni nella loro specificità, a dare risposte che non siano a loro volta stereotipate. Si, perché essere controllati da conoscenze stereotipate significa dare risposte stereotipate, risposte che ignorano il nome proprio.

Nessun commento:

Posta un commento