giovedì 23 maggio 2013

DIPENDENZA O AUTONOMIA?

Nella sfera affettiva sembra non ci sia alcuna possibilità di uscire dall’alternativa dicotomica “dipendenza/autonomia”, termini che configurano una opposizione radicale, senza mediazione possibile. Eppure, “dipendenza e autonomia” sono, piuttosto, i punti estremi di un continuum, all’interno del quale ognuno di noi si colloca, molto spesso “sbilanciato” verso uno dei due poli.
Proviamo a definire meglio i termini della questione, considerando alcuni elementi di psicologia dello sviluppo. Si nasce in una condizione di totale dipendenza, quella che alcuni chiamano simbiosi e altri parassitismo : “Alle origini, l’unità narcisistica madre-bambino non è un’unità simbiotica perfetta, ma un’alleanza bio-psichica temporanea il cui modello è il parassitismo” (A. Birraux 2004) In altri termini, non c’è simbiosi perché la mamma potrebbe fare a meno del bambino, il bambino invece no: è lui, infatti, ad essere in una condizione di assoluta dipendenza.
Solo nella vicinanza alla madre si trova la possibilità di sopravvivere. Per assicurarsi nutrimento, calore e protezione il bambino, infatti, deve mantenere un certo livello di vicinanza con la madre e per questo mette in atto un repertorio preformato di comportamenti, finalizzati a richiamare la madre (es. pianto)e a trattenerla a sé (es . tendendo le mani per essere preso in braccio). Intorno alla fine del primo anno di età, il bambino mostra di distinguere gli estranei (angoscia dell’estraneo) e le sue reazioni di protesta all’allontanamento della madre dimostrano che, ormai, si è consolidato un legame di attaccamento. È il periodo in cui maturano le abilità motorie e, gradualmente, il bambino si allontana dalla madre per esplorare l’ambiente. È in questa fase che si può notare il fenomeno della “base sicura”. La Ainsworth (1978), mediante l’esperimento della strange situation (in cui si studiano il comportamento esplorativo e le reazioni del bambino al momento della separazione-riavvicinamento alla madre), ha identificato tre forme di attaccamento: 1) l’attaccamento sicuro; 2) insicuro-evitante; 3)insicuro-ambivalente. Nel primo caso, la madre rappresenta una base sicura che permette al bambino di esplorare e interagire in autonomia con l’ambiente; quando la madre si allontana, il bambino mostra segnali di mancanza, mentre la saluta con vocalizzi e sorrisi e ne cerca la vicinanza, quando torna (figura materna affidabile e presente). Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, il bambino esplora l’ambiente senza fare riferimento ad una base sicura; quando la madre si allontana, risponde in modo impercettibile e, quando torna, guarda altrove o evita attivamente il genitore (figura materna rifiutante). Infine, il bambino con attaccamento insicuro ambivalente esplora poco l’ambiente; è angosciato durante la separazione dalla madre e, al suo ritorno, mostra una alternanza di segnali finalizzati alla ricerca di contatto ed esplosioni di rabbia (figura materna incostante e imprevedibile).
In sintesi, possiamo dire che chi è stato nutrito affettivamente dispone di un “pieno” che gli permette di muoversi nell’ambiente; inoltre, sa di poter tornare alla base per approvvigionarsi d’affetto, in caso di bisogno. Chi non ha sperimentato questa base sicura, invece, si muove nell’ambiente come perso o non si muove affatto. Pensiamo, ad esempio, cosa succede in presenza di una madre ansiosa, per la quale il mondo è continuamente fonte di insidie…
Da queste considerazioni dovrebbe risultare più chiaro che l’opposizione “dipendenza-autonomia” è solo apparentemente contraddittoria: in realtà solo chi ha sviluppato una buona dipendenza (legame affettivo significativo-stabile) è autonomo ed esplora liberamente il mondo.
Chi è cresciuto senza una base affettiva sicura, vivrà molto spesso angosce abbandoniche nel momento in cui la distanza dalla persona di riferimento cresce, o ci si separa da lei (es. bambini cresciuti con madri ansiose); oppure si sperimenteranno angosce di annullamento quando la distanza dalla persona di riferimento è troppo ravvicinata e si teme di perdere i confini della propria labile identità (es. bambini cresciuti con madri intrusive, tendenzialmente simbiotiche).
Di queste vicende arcaiche (dal punto di vista della storia personale), rimane molto anche nell’adulto: è come se in quegli anni si determinasse una sorta di imprinting che costringe alla ripetizione di uno schema. Si stabilisce quello che Bowlby (1988) ha chiamato “modello operativo interno” che, semplificando, veicola quello che ci si può aspettare dall’altro e un complementare concetto di sé: ad esempio, mi aspetto indifferenza o rabbia perché sono brutto e incapace. Questi modelli non sono solo un filtro in base al quale si percepisce la realtà, ma anche “organizzatori del comportamento individuale che attivamente riproducono esperienze relative alla storia relazionale” (Sroufe & Waters, 1977).
Dato che questi schemi cognitivi-emotivi (MOI) sono così profondamente radicati nella storia personale di ognuno, solo all’interno di una relazione dove si stabilisce una appropriata dinamica di transfert si può produrre un cambiamento della dipendenza patologica (di chi è incapace di esplorare da solo il mondo) o dell’autonomia “autistica” (di chi è incapace di relazioni affettive). Per attivare questo tipo di cambiamenti è spesso necessario fare ricorso alla psicoterapia.

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